in Mostra alla Casina Vavitellina di Bacoli
Giovanni Cardone
Fino al 1 Settembre 2024 si potrà ammirare presso la Casina Vanvitelliana di Bacoli Napoli a cura di Alessandra Maisto la mostra bi-personale In ParenteSI di Sergio e Fabio Spataro Presentazione Critica di Mino Iorio sotto l’egida del Centro Ittico Campano. L’esposizione vuole evidenziare il rapporto di parentela (padre – figlio). Sergio presenterà, in versione più ampliata, la mostra “Occhi innamorati”, già esposta di recente allo Spazio Prosperity di Napoli, con se sue visioni altamente liriche ed esoteriche e i suoi intriganti assemblaggi materici. Mentre Fabio esporrà opere sulla falsa riga di quelle presentate alla mostra da lui tenuta oltre un anno fa al The Spark di Napoli, con le sue fantasmagoriche urla interiori o di denuncia ed i suoi più recenti assemblaggi minimali dove l’acquerello e l’acrilico dialogano con oro e raffinati innesti. Come afferma Francesco Abbate : La produzione artistica di Sergio Spataro è come uno di quei mobili molto articolati (non proprio un secraitere, perché niente c’è da nascondere) dove apri un cassetto e dietro ne spunta un altro e poi un altro ancora.. O, se si preferisce, questa produzione è come un big bang che dà luogo a una materia che pare ordinata, ma è una materia che non ama stare in pace con se stessa troppo a lungo e dà vita a un nuovo big bang e così via. Rovistando in quei cassetti ne escono di cose da aggiungere alle tante che ormai mi sono note del catalogo di Spataro e delle quali ho discusso in un altro catalogo in preparazione, relativo al “museo in cammino” di Laurito nel Cilento. Compaiono allora quei minuti, poetici dipinti della dimensione di un foglio, quasi fogli di un diario intimo e sommesso.
A pensare quanto appare, e non di rado, perentoria ma anche sofferta tanta sua produzione ci sarebbe da stupirsi se non conoscessimo quanto caleidoscopico sia quel suo “caos” che minaccia tempesta ma poi “partorisce” un suo formicolante arcobaleno. Va da sé che sempre affiora quel sottofondo di ironia, che a prima vista appare dissacrante; ma, a grattare quella crosta più o meno consistente (perché variabile a seconda dei diversi impulsi mentali ed emozionali senza i quali Sergio Spataro non sarebbe Sergio Spataro) ricompare una partecipata bonarietà tutta partenopea. E qui vale non tanto lo ius soli (palermitano solo per pochi anni dopo la nascita) ma lo ius culturae. Intimi e sommessi, si è detto, quei poetici colloqui con se stesso e con i piccoli, quasi insignificanti scarti quotidiani, che scarti non lo sono davvero per l’artista. Caduti dai tavoli o portati nella stanza (le foglie di luna, per esempio) da un refolo di vento, quegli scarti si incontrano a revocare il passato, nella nostalgia delle care “piccole cose”, che sono state cose invece grandi nella fantasia dell’infanzia. Oppure si squadrano da lontano, sospettosi e distanti come bambini al loro primo incontro, e neppure sanno se riusciranno mai ad incontrarsi. Una poesia sottile, dunque, di piccole, grandi cose, di piccoli, grandi pensieri pensati sotto voce, di comuni situazioni piene di incanto o di nostalgia.
C’è qualche pensiero che vola e se ne va ma ne resta appesa un po’ di nostalgia; un altro si è staccato del tutto (anzi vola via in coppia) incurante di chi si sporge a richiamarlo. Apriamo un altro cassetto e spuntano tante pettegole capozzelle che non sanno stare zitte, ma se anche tacciono eccole beffarde, magari perplesse, sicuramente insolenti, un po’ per sfottere, un po’ per gioco, un po’ malinconiche per una certa atavica tristezza che portano nel cuore. Come si dice, un po’ per ridere, un po’ per non morire: ma non per una situazione determinata nel tempo ma perché è nella loro situazione esistenziale. Come le comari del vicolo si riuniscono, si interrogano, si scontrano, si alleano, competono, si studiano. Tanti gesti, tanti discorsi, tante sceneggiate: tutto per nascondere il dolore dell’esistenza.
Dal quell’armadio-caos (l’armadio, si sa, è uno dei tanti motivi cari a Spataro) a un certo punto bisogna pure uscire, e quale mezzo migliore che una barca, naturalmente sempre una barca della fantasia, costruita con la fantasia della composizione e degli accostamenti, e di conseguenza con la più consumata abilità tecnica. Naturalmente una barca che non riesce a fuggire sul serio, sempre colma di nostalgia. Barca solitaria, fiera della sua bellezza, si avventura, audace e ardita a sfiorare gli scogli. Ma poi vince la nostalgia e finisce spiaggiata. In un mio saggio scritto su Fabio Spataro affermo : Il Novecento si è confrontato con questa dimensione proponendo non solo nuovi oggetti interartistici, ma anche nuovi possibili criteri interpretativi, che alimentano quella che James Heffernan ha definito un’enorme “industria intellettuale”. Anche le sperimentazioni pratiche di oggetti intermediali sono oggi quanto mai attuali. Basti pensare alla produzione e alla riproduzione di forme composte pittorico-verbali, come film, immagini televisive, poster, fumetti, testi illustrati, riviste e giornali, che sebbene tradiscano una svolta, dagli addetti ai lavori definita pictorial turn, rimangono a testimonianza di un sodalizio artistico ancora molto stimolante che si adatta camaleonticamente alle esigenze dell’epoca. La ripresa oggi del dibattito sull’interscambio fra letteratura e arti del visuale è da attribuire anche e soprattutto all’importanza che le immagini occupano non solo al livello più “basso” della comunicazione di massa – che non riesce ormai a fare a meno di strumentazioni del visuale – ma anche a quello più “alto” del sistema letterario tout court. E se i linguisti, i filosofi del linguaggio e gli stessi critici della letteratura della prima metà del secolo scorso sono stati responsabili del predominio della lingua in un panorama culturale votato alla distinzione tra le discipline, oggi la comparatistica internazionale e le stesse filologie nazionali fanno della dimensione interartistica e intermediale precipuo oggetto di studio. Gli studi di visual culture contemporanei – eredi per molti versi della storia dell’arte e allo stesso tempo attenti alle altre dimensioni disciplinari, tra cui la letteratura – rifiutano, ad esempio, la tendenza logocentrica e rivolgono l’attenzione allo studio contestuale delle immagini e della loro ricezione. Alla luce di questa nuova tendenza vanno anche letti tutti i più recenti contributi teorici votati allo studio non semplicemente dell’immagine e delle arti del visuale, ma anche della loro ricaduta nel sistema altrettanto complesso della letteratura. Si pensi ai recenti lavori dedicati all’analisi di una particolare forma interartistica, l’ékphrasis – centrale in questo studio – come quelli di James Heffernan e Thomas Mitchell, e nel panorama italiano allo studio di Michele Cometa, il quale, nella sua opera Parole che dipingono, invita ancora una volta a riflettere sulla questione sempre aperta dell’appropriazione delle immagini da parte della scrittura, di cui, come lui stesso osserva, è difficile riassumerne le complesse modalità: Più di recente Cometa ha proposto il termine “catalogo” per contenere alcune di questi modi di interazione fra letteratura ed arti figurative. Nel catalogo Cometa fa rientrare le tipologie della Doppelbegabung, dell’ékphrasis, delle forme miste e di quelle che definisce omolgie, precisando comunque di non volere esaurire e semplificare con questo sistema tassonomico la ricchezza di un campo di indagine così vasto. Per questa ragione definisce il suo catalogo «una strategia comunque parziale e precaria, un colligere che si dispiega secondo un ordine sempre revocabile e che ha la funzione di collocare nello spazio i vari oggetti di cui si occupa». William John Thomas Mitchell, uno dei “padri” e dei maggiori teorici contemporanei della cultura visuale, fa alcune considerazioni sulle modalità d’analisi che il nostro secolo ha più spesso adottato di fronte al problema della relazione fra le due arti. Mitchell parla del metodo comparativo come di quello più tradizionale pur tuttavia lo studioso americano rintraccia, più avanti, i limiti di questo stesso approccio, caratterizzato da presupposti di uniformità e omogenità e da strategie di sistematiche differenziazioni e comparazioni che talvolta ignorano altre forme di relazione più subdole e meno negoziabili. Per Mitchell si tratta di un approccio, quello comparativo, che spesso rimane incastrato in uno “storicismo ritualistico” che si limita a ripercorrere canoniche linee narrative ereditate dal passato, quasi fosse incapace di registrare pratiche e storie alternative.
Non per questo egli trova più esatto l’approccio semiotico europeo che finisce per sostituire, in modo talvolta brutale, lo scientism all’artiness nell’analisi del confronto interartistico. Lo studioso parte piuttosto dall’assunto che il problema dell’immagine/testo (sia che lo si intenda come forma sintetica, composta, o come differenza di rappresentazione) è proprio il sintomo dell’impossibilità di giungere ad una “teoria di immagini” o ad una “scienza della rappresentazione”. Penso al testo Estetica relazionale di Nicolas Bourriaud che sottolinea la necessità di un nuovo approccio all’arte contemporanea proponendo di vedere in essa un’attivatrice di interazioni sociali. Secondo il critico francese non si tratta tanto di preoccuparsi della partecipazione del pubblico, o dell’interattività dell’opera, quanto piuttosto di proporsi come orizzonte teorico dell’arte la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale. L’arte relazionale deve pertanto essere intesa come “un attivatore di rapporti sociali; essa è una spina nel fianco del sistema di produzione, che trova in quest’arte uno specchio deformante, una mimesi che persegue fini opposti e allo stesso tempo un sabotaggio radicale. Un’arte comunitaria per definizione, anche se non per forza comunitaristica o interattiva; una pratica immune dal regime dello Spettacolo che abbatta almeno per un tempo limitato i confini tra arte e mondo, portando al massimo grado alcune istanze dell’arte dalle Avanguardie storiche in poi”. L’autore sottolinea ripetutamente la necessità della revisionabilità di ogni pratica teorica e artistica al fine di essere sempre un passo avanti rispetto al sistema che tenta di appropriarsi di ogni nuova proposta neutralizzandone il portato critico autentico. E quello che fa Fabio Spataro con la sua arte da sempre dando al suo linguaggio una dimensione umana. Nel contempo posso dire che Fabio Spataro è un artista dal linguaggio dove si incontrano e si scontrano gesto, forma e sentesi dove ricerca e sperimentazione sono alla base dei suoi lavori, dove viene fuori nel contempo una rinnovata mitologia dell’opera fatta da pulsioni e di sentimenti . Egli tende a un dialogo interno della propria arte o con cui rapportare la personale e individuale emozione, l’opera sembra voler raccogliere una molteciplità di eredità anche colte, alte che tutto il fine secolo scorso ha disseminato e forse dissipato nel suo tumultuoso processo di affrancamento dell’oggetto artistico, nei confronti della letteratura, della sociologia, di quella propensione al racconto. Attraverso l’espressionismo e all’informale Fabio Spataro vuole valorizzazione l’emozione che viene direttamente dalla materia e dalla pittura, tuttavia e necessario distinguere le diverse prospettive. Spataro parte dalla pittura espressionistica e informale nella quale spesso i termini espressivi del pigmento si coniugano con la scelta del supporto, con il sedimentarsi di differenti tracce, come se, da subito, la sola pittura risultasse povera, poco significativa, incapace di dare conto della complessità del reale. In quelle grandi stesure iconiche, che segnano la pittura di Fabio Spataro è caratterizzata fortemente dalla sperimentazione e dalla ricerca, sarebbe tuttavia limitante restringere l’impatto espressivo di Spataro che si coniuga bene con un linguaggio informale che gli permette una condotta di ricerca artistica e allargando lo sguardo a raggera, il suo linguaggio lo spinge verso una tensione espressiva che emerge dalle sue opere . Il suo è universo linguistico ampio è attraversato dalla sperimentazione ed legato alla ricerca, che riemerge attraverso la materia e la valorizzazione linguistica dei supporti. L’opera di Fabio Spataro non è dunque un evento isolato, ma ha matrici specifiche nella sua terra di riferimento, l’uso dei materiali che presto compaiono come supporto ineliminabile diventano un sostrato espressivo della sua immagine esse sono soluzioni linguistiche specifiche grazie al suo percorso interiore che da anni egli porta avanti. L’uso dei materiali come oggetto della narrazione, e della duplice scansione appare come il segnale di una ricerca che vuole scardinare l’ordine della narrazione e della pittura. E il processo di dissolvimento della raffigurazione evocativa quasi metafora di un processo in cui Fabio Spataro trova forse una sua verità espressiva che diviene una continua ricerca del proprio “Io”, più profondo. Nelle sue ultime opere ho visto una sua evoluzione che diviene volano per la ‘maturazione’ effettiva della sua arte come essenza pura. L’attività artistica di Fabio Spataro pare dunque compendiarsi in tre differenti momenti espressivi, complementari e autonomi, con quel modello duplice che abbiamo visto, dall’inizio, essere carattere specifico dell’opera dell’artista da una parte le opere fortemente di ricerca attraverso il gesto e il segno l’altra la dissoluzione delle forme. La ricerca di Spataro è rappresentata dalla creazione totale della sua arte attraverso l’assemblaggio di materiali di scarto . Le opere dell’artista traducono la tensione, la misura, intese come valore etico che sembrano trascrivere nello spazio un equilibrio, da valorizzare e scardinare ad un tempo. Fabio Spataro attraverso le sue opere ci narra infine della metafora della vita, con le sue pulsioni e i suoi sogni, le sue tensioni e i suoi approdi dell’animo. Che si rinnova di continuo in quella diversa, più lineare, ma non meno eloquente, costituita dall’insieme di numerose opere che trovano la loro verità espressiva attraverso l’accostamento che costituisce la trascrizione emotiva di una geografia dello spazio, una geometria della mente, una scansione lirica dei movimenti del cuore. È la concretezza dell’opera di Spataro. Quella stessa che si manifesta nella creazione del singolo pezzo, e si traduce e sembra trascrivere un processo lento di crescita attraverso la riappropriazione culturale dei materiali utilizzati. Come se Spataro volesse sottolineare la duplice dimensione di rapidità nel consumo, di rapida obsolescenza dell’oggetto stesso e di una differente persistenza nella memoria . Fabio Spataro cerca nelle sue opere la giusta dimensione dove l’umano pensiero possa trascrivere se stessa e la nostra presenza nella mente degli uomini, l’opera come vicenda umana si concretizza attraverso il segno il gesto la forma la sperimentazione che divengono il senso più alto del nostro esistere. I richiami alla poetica espressionista a quella informale con il ricorso costante all’emozione della materia, costituiscono l’essenza stessa della dimensione espressiva dell’artista. La tensione che nelle opere realizzate da Fabio Spataro attraverso il contrasto tra le forme e tra le cromie si definiscono in termini essenziali, dove il linguaggio permette al fruitore di carpire l’animo dell’artista . Fabio Spataro è all’eterna ricerca della tensione espressiva nel contempo recupera l’immediatezza del gesto, del segno che gli permettono di dialogare sapendo raccontare attraverso le sue opere la precarietà che in parte il misurato equilibrio esprime con la sua apparente forma con la fragilità dell’essere ‘Artista’.
Casina Vanvitellina di Bacoli
ParentesiSi di Sergio e Fabio Spataro
dal 18 Luglio 2024 al 1 Settembre 2024
dal Venerdì alla Domenica dalle ore 17.00 alle ore 23.00