Giovanni Cardone
Tantissime volte ho recensito Bill Viola ho visto la sua ultimo mostra due anni fa a Roma a Palazzo Bonaparte le opere di questo grande maestro della Video Arte davano una dimensione spirituale orientale con quella occidentale, la storia dell’arte con la sperimentazione video, la sua riflessione sulla cristianità con lo zen, si confrontava con la città di Roma in un luogo non convenzionale per il mondo dell’arte contemporanea l’artista ha cercato da sempre di approfondire il rapporto tra uomo e natura, nel contempo ispirandosi sempre all’iconologia classica. Io penso nel rammarico della perdita di questo grande maestro di guardare le opere Bill Viola con una prospettiva storico artistica diversa, ho dedicato tanto a Bill Viola vi ripropongo una mia analisi, un mio saggio. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Bill Viola che è divenuta seminario universitario ho cercato di analizzare questo artista così dibattuto perché io penso che ci dobbiamo rifare alle origini dell’installazione che derivano dagli sviluppi di arti classiche avvenuti durante la prima metà del Novecento. Pensiamo per esempio all’artista russo El Lissitzky o al tedesco Kurt Schwitters e al suo Merzbau cioè una casa trasformata con i materiali che usava nelle sue opere. Schwitters aveva sviluppato la tecnica del collage rendendola tridimensionale integrando oggetti nell’opera per farne una specie di installazione in miniatura, detta assemblage egli voleva unire varie forme di espressione artistica in una sola opera d’arte. Il termine francese collage ‘incollare’ indica la forma d’arte in cui le opere sono realizzate mediante una tecnica che prevede la sovrapposizione di carte, fotografie, oggetti, ritagli di giornali. Queste opere sono realizzate con l’utilizzo di materiali diversi incollati su un supporto generalmente rigido. Al momento dell’invenzione della carta in Cina, intorno al 200 a.C, è stato utilizzato il collage ma è rimasto molto limitato fino al X secolo in Giappone dove i calligrafi cominciarono ad applicare le loro poesie. La tecnica del collage è apparsa poi in Europa medievale nel XIII secolo. Pannelli di foglia d’oro hanno iniziato ad essere applicate nelle cattedrali gotiche intorno al XV e XVI secolo. Pietre preziose e altri metalli preziosi sono stati applicati ad immagini sacre, icone e stemmi. Nonostante l’utilizzo, prima del XX secolo, di tecniche di applicazione simili al collage, secondo alcuni critici dell’arte il collage non è emerso fino a dopo il Novecento, insieme alle prime fasi del Modernismo. La tecnica del collage è stata adottata dai cubisti nel primo Novecento per creare opere d’avanguardia in particolare da Picasso, che lo adottò dal 1912 con i papiers collés, usando molti altri materiali oltre alla carta. Il collage sfociò da un lato nel Futurismo e nell’Astrattismo di tendenza geometrica, dall’altro in un collage a tre dimensioni, chiamato assemblage, molto usato nei movimenti Neodada, nella Pop Art e nel Nouveau Realisme. John Heartfield nel 1924 presentò questa forma d’arte al pubblico usandola come arma satirica contro Hitler e il Nazismo, usando materiale fotografico. Tra gli altri precursori ricordiamo Raoul Hausmann, Hanna Höch, Paul Citroen, Michael Mejer, Max Ernst, e tutti gli artisti di movimenti come Bauhaus, Dada e Surrealismo. Il collage viene utilizzato anche dai futuristi italiani e da altri artisti come Robert Rauschenberg, uno dei principali maestri di questa tecnica, detta combines nella Pop Art, che mette in evidenza oggetti e frammenti della vita quotidiana nello spirito del movimento. Questi artisti usavano materiali poveri o quotidiani per comporre le loro opere. Questa tendenza si riscontra spesso anche nelle installazioni odierne. Un’altra forma artistica fondamentale da cui poi si svilupperanno le installazioni è il ready-made di Marcel Duchamp, dal quale l’installazione ha preso la sua impronta concettuale. L’artista lascia nei suoi scritti il progetto di quella che potrebbe essere considerata la prima installazione fu una cascata d’acqua che venne l’illuminata dal gas fu costruita tra il 1946 e il 1966 dove al pubblico viene richiesto di sbirciare attraverso i fori di una porta di un fienile per fruire l’opera. Marcel Duchamp con i suoi ready-made ha messo in crisi il concetto di arte, esponendo come opere d’arte oggetti comuni come la ruota di bicicletta, lo scola- bottiglie, l’orinatoio, la porta di rue Larrey, dando vita ai primi esempi di installazioni. Oltre al collage, anche lo Spazialismo di Lucio Fontana fondato nel 1947 che vuole unire l’opera d’arte all’ambiente l’Assemblage, il Nouveau Réalisme, gli impacchettamenti di Christo Javacheff, la Pop Art gli oggetti giganteschi di Oldenburg, Futurismo e Costruttivismo, dimostrano che il significato di un’opera non è contenuto nei limiti della tela o della forma, ma esce da esse e si espande nello spazio. La forma d’arte dell’installazione prevede di disporre oggetti e materiali in un ambiente, coinvolgendo tempo e spazio. Nicolas de Oliveira, Nicola Oxley, Michel Petry, Michel Archer, autori di Installation, l’art en situation, fanno un’analisi del fenomeno, anche se è difficile definire un fenomeno che è in continua evoluzione. Gli autori definiscono così l’installazione: “E’ uno spettacolo, ma senza la scena di un gioco, ma anche un business quotidiano, un significante, ma anche significato la scena del carnevale, dove non c’è scena, senza ‘teatro’, è allo stesso tempo palcoscenico e vita, il gioco e il sogno e il talk show”. Ma nella storia dell’installazione ha maggiore importanza l’opera del già menzionato Kurt Schwitters, artista prima cubista e futurista, poi rivoluzionario, con le sue opere Merz, dove Merz è un pezzo della parola ‘kommerz’ che compare in un pezzo di giornale usato in un collage, per questo detto Merzbild le Merz sono la prima pietra di una complessa costruzione artistica che comprende i Merzzeichnungen e i Merzbilder collages e assemblages, i Merzplastiken ovvero sculture, le poesie Merz e il Merzbau, grandiosa installazione che Schwitters inizia a costruire nel 1923 e che sarà l’opera della vita. Successivamente nel 1960 gli artisti Larry Bell, Dan Flavin, Donald Judd, Sol Le Witt, Robert Morris, Tony Smith, danno vita al Minimalismo in America settentrionale, che vede i mezzi espressivi limitati a forme geometriche elementari e primarie, per creare opere che occupino lo spazio, innescando legami tra esse e l’ambiente: sono composizioni di grande semplicità e purezza, solide grandi definite da Robert Morris come “forme più semplici che creano forti sensazioni di gestalt”. Spesso Istallazione è collegata alla Video Arte dato che il video è uno dei media più utilizzati, e se viene usato l’opera prende il nome di Videoinstallazione. La Videoinstallazione è un tipo di installazione che usa uno schermo uno o più monitor o una o più proiezioni per creare e rappresentare, mediante un video, una realtà surreale e artefatta per provocare nello spettatore particolari emozioni fruite in un particolare contesto. Si sviluppa negli anni Sessanta in relazione ai primi esperimenti con il video. Negli anni Novanta acquisisce una dimensione digitale e interattiva, grazie all’evoluzione tecnologica. La rappresentazione è tridimensionale e muovendosi continuamente coinvolge l’utente rendendolo protagonista di questa realtà parallela ma parte integrante dell’opera. Lo spettatore non è distaccato di fronte all’opera ma è proiettato in essa, come se si trovasse in una realtà fantastica. Come per la classica installazione, il pubblico e il luogo della proiezione sono le due caratteristiche fondamentali anche della videoinstallazione. Se queste cambiano, cambia anche l’installazione, a seconda dei luoghi e dei fruitori. Cambiano anche gli esiti dell’opera e le sue possibilità di lettura. Quando il monitor è inserito in opere e costruzioni scultoree, o viene confrontato con sculture in metallo, pietra o legno, si usa il termine “videoscultura”: uno dei più celebri videoscultori è il francese César. Le prime tipologie di videoinstallazioni sono quelle a circuito chiuso che usano la telecamera collegata ad un monitor e l’immagine differita per creare rapporti tra lo spettatore e la sua immagine suscitando vertigini spaesamento, giochi visivi e spaziali, cose che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso non erano usuali e scontate come lo sono oggi. Una videoistallazione classica ma sempre sorprendente è Live-taped video corridor di Bruce Neuman del 1970,qui il visitatore avanza in un corridoio stretto e lungo al cui termine ci sono due monitor, uno che trasmette l’immagine del corridoio vuoto, l’altro trasmette l’immagine del visitatore ripreso alle sue spalle. Più il visitatore si avvicina alla meta, più la sua immagine sfugge. Il visitatore vive una sensazione destabilizzante di perdita della connessione tra il proprio corpo e la propria immagine. In questi tipi di installazioni il visitatore è protagonista dell’opera, fruitore e attore vive nell’opera esperienze caratterizzate da sinestesia e transensorialità attraversamento di vari tipi di percezione. Le videoinstallazioni possono essere anche povere la prima è un televisore con una statua di Buddha di fronte la seconda è una candela accesa dentro un televisore vuoto oppure possono essere architetture imponenti composte da molti monitor e percorsi complessi, come le opere di Francisco Ruiz de Infante o quelle di Irit Batsry. Altre volte invece sono composte da una o più proiezioni allestite in uno spazio in cui l’immagine si sviluppa in continuità come un grande quadro in movimento, come nelle ultime opere di Bill Viola ispirate alla pittura, e in quelle di Robert Cahen, che usa lo schermo in verticale e una cornice di legno, per ricordarci un quadro. La videoinstallazione dice Bill Viola che ho creato per il festival Fiabesque fa parte di questa categoria di videoinstallazioni. Mentre le altre installazioni sono sculture animate dall’immagine in movimento che passa nei monitor, ma senza inclusione fisica dello spettatore. È il caso di Heaven and Earth del 1992 dove in un monitor che scende dall’altro e in uno che sale dal basso fissati a sostegni in ferro e legno, vediamo il volto di un neonato in un monitor e il volto di una anziana sofferente nell’altro, a creare una sovrapposizione di nascita e morte grazie al potere riflettente della superficie del monitor. Bill Viola nella sua Sanctuary del1989 ha piantato degli abeti illuminati dall’alto in uno spazio industriale e in un monitor posto al centro passano le immagini e i suoni di una donna che partorisce. Si crea un costante confronto tra dimensioni reali e dimensioni metaforiche. Con l’evoluzione delle tecnologie negli anni Novanta le installazioni trasformano l’interattività del circuito chiuso lo spettatore catturato e protagonista dell’opera in un rapporto diretto tra fruitore e immagine. Si arriva così alle istallazioni interattive basate sulla realtà virtuale in cui il fruitore è coinvolto interamente nell’opera grazie a sensori, guanti, caschi. Importante per l’uso dell’interattività è il gruppo Studio Azzurro che crea il concetto di ambiente sensibile. L’ambiente sensibile è una videoinstallazione interattiva fatta da spazi sensibili alla presenza dello spettatore, ma senza far uso della tecnologia. Vengono usati piccoli proiettori e sensori, ma il tutto è bel nascosto per creare un dialogo quasi naturale tra autore e opera. Le installazioni video sono caratterizzate dalla partecipazione dello spettatore e dalla compresenza di media diversi: suoni, immagini, oggetti e video vengono usati insieme e creano un contesto complesso che ridefinisce l’ambiente nel quale l’installazione prende vita. A volte si allontanano o avvicinano tra loro immagini di media diversi per creare affetti ancora più sconvolgenti. Le videoinstallazioni più complesse realizzano una dimensione spazio-tempo che porta lo spettatore a identificare il proprio punto di vista. Le videoinstallazioni, che utilizzano pochi o molti monitor per moltiplicare le immagini e usarle in varie combinazioni, oggi spesso si uniscono a oggetti o immagini realizzati con altri media. In questo si differenziano le realizzazioni degli anni Settanta, dirette contro la televisione, da quelle odierne. Per comprendere il ruolo delle videoistallazioni bisogna studiare la ricerca artistica degli anni Settanta. L’espansione della spazialità interna all’opera d’arte visiva che avviene a fine anni Settanta è dovuta alla voglia di abbandonare l’arte istituzionale. La spazialità complessa è resa viva dall’artista e dallo spettatore, protagonista anch’esso dello spazio. Ma l’espansione nello spazio non è un’operazione di semplice crescita geometrica. Frank Popper, che ha studiato la nuova disposizione spaziale, ha messo in rilievo queste le seguenti caratteristiche ovvero : la socialità, l’istallazione non nega gli elementi diretti della comunicazione, ma accresce la loro forza e li estende; la realtà, la spazialità non è illusoria, comprime e mette a nudo una dimensione estetica che è nelle immagini come limite di un universo concreto prima ancora di essere visibile; l’umanità, realizzata dall’attivazione e la sintesi di diverse esperienze e dei loro corollari. Dalla fine degli anni Sessanta, sia in Europa che in America, accanto alle gallerie e alle stazioni televisive, si affiancano i musei e i gruppi politici: il video è usato nella comunità come strumento d’arte e di lotta. Risalgono a questo periodo le prime videoinstallazioni nelle quali lo spettatore è coinvolto fisicamente, costretto a reagire e a modificare il proprio comportamento; basata su una dislocazione di tecnologie televisive varie nello spazio espositivo, la videoinstallazione mette in gioco come elemento fondamentale dell’opera il luogo fisico in cui essa si svolge. In virtù del potere illusionistico dell’immagine televisiva, le coordinate spazio-temporali dell’ambiente espositivo subiscono profonde modifiche: si trasformano le regole tradizionali della rappresentazione, sovvertendole dall’interno nella videoinstallazione non si assiste a una imitazione del mondo reale ma si entra davvero in quel mondo e lo si vive come proprio. Nam June Paik crea, nel 1974, la videoinstallazione TV Garden, dove numerosi televisori con lo schermo rivolto verso l’alto diffondono immagini che generano un mix disorientante di astratto e concreto. Lo spazio virtuale creato dai monitor funziona solo quando lo spettatore ne varca la soglia, egli è quindi determinante per la riuscita dell’opera. L’opera vera e propria consiste perciò nella situazione che si crea, via via diversa a seconda delle reazioni dello spettatore, che viene perciò utilizzato dall’artista come “materiale” del proprio lavoro. L’inserimento del corpo dello spettatore all’interno delle videoinstallazioni, infine, offre la possibilità di un confronto tra il tempo reale e quello registrato. Nella videoinstallazione Present Continuous Past del 1974 di Dan Graham, invece, lo spettatore sperimenta lo smarrimento di vedersi attraverso lo sguardo dell’altro, tramite un gioco di monitors e specchi che determinano una sorta di sdoppiamento del corpo dello spettatore. Inoltre nelle nuove disposizioni spaziali si ha una forte “messa in evidenza” del tempo. La rappresentazione del tempo è una caratteristica di ogni videoinstallazione. Il tempo viene rappresentato sotto aspetti diversi, come tempo costruito nel monitor o come tempo necessario a percepire le immagini e ordinarle. Il tutto viene poi riunito sul piano della percezione, secondo una strutturazione-destrutturazione degli elementi dell’insieme. Ambiente e video si incontrano e si fondono. L’artista crea una interazione fra l’immagine video che presenta una grande intensità luminosa, e un campo dello spazio circostante. La videoinstallazione determina un ordinamento creativo indicando un insieme di strade che permettono di riconoscere il tempo attraverso le immagini, immobili e mutevoli, ma costanti nell’interazione con l’ambiente.
Lo spazio è chiuso, non definito, gli sbocchi possibili dipendono dall’idea che l’osservatore si è fatto dell’opera, in cui si è riconosciuto oppure estraniato. Questa dimensione spaziale è un punto di riferimento dell’immagine dinamica e della continuità temporale, che creano strade e svolgimenti possibili. Negli anni Ottanta, anni di trasformazioni nel mondo delle arti visuali, lo strumento video ha perfezionato le proprie strutture linguistiche e operative. Una volta superata l’opposizione alla televisione degli anni Settanta, la video arte è diventata più soft, grazie ai nuovi sistemi tecnicamente più sofisticati. Negli anni Ottanta viviamo nelle arti visuali anche un ritorno alla pittura. Anche il carattere temporale della scultura è evidente per l’osservatore, non solo a livello di visione ma anche di contatto fisico. Le capacità di vedere e toccare una scultura per coglierne il significato si fondono insieme. Il carattere corporeo del video-materiale, definito dalla sua materialità fluida e luminosa, i suoi componenti temporali, il suo tempo di formazione che ha la stessa durata del tempo della fotografia, e la capacità di reagire con l’ambiente circostante, dimostrano le relazioni fra video arte e scultura e diventano ancora più evidenti nelle videoinstallazioni in questo periodo. Se noi comminiamo in museo oppure in una galleria vediamo che il fruitore diventa spettatore, rapito dall’estasi della rappresentazione. Ciò avviene non solo contemplando un dipinto, ma anche seguendo uno spettacolo, oppure ascoltando una musica. Lo spettatore ha il ruolo di ricettore passivo con l’unica funzione di stare a vedere o ascoltare. In una videoinstallazione invece, il fruitore dell’arte viene coinvolto fisicamente in un’esperienza che lo rende protagonista costringendolo a reagire e a modificare il proprio comportamento. La Videoinstallazione trasforma le regole tradizionali della rappresentazione, nelle installazioni video la tecnica adottata dall’opera non è la mimesi, ma la simulazione. In una videoinstallazione non si assiste a un’imitazione del mondo ben fatta da sembrare vera, ma si entra in quel mondo e lo si vive. Lo spettatore è racchiuso in un insieme di immagini, testi e suoni, dove può spostarsi, mentre la sua ricezione dell’evento non avviene solo sul piano della contemplazione, poiché il passaggio delle immagini e dei concetti attraversa varie dimensioni, coinvolgendolo a livello percettivo. A differenza della videoscultura, in cui l’opera dalle valenze plastiche è l’oggetto televisore unito ad altri materiali la videoinstallazione è la messa in atto di una situazione l’evento che prende corpo grazie allo spettatore, evento fatto per essere vissuto e non solo guardato. La videoinstallazione è costruita per essere fruita dallo spettatore come un’esperienza reale, nella quale deve sperimentare fisicamente la mediazione della realtà esercitata dalle immagini, a causa delle sollecitazioni percettive alle quali deve rispondere. La contemplazione dell’opera d’arte diventa un’esperienza condizionata dall’ambiente illusorio ma reale creato dall’installazione. Lo spettatore decodifica l’immagine bidimensionale del video in un contesto tridimensionale ed è coinvolto in un’esplorazione concettuale del significato dell’immagine e in un’esperienza senso-motoria attraverso lo spazio creato dalle immagini video. Il tempo che usa per completare il suo percorso tra oggetti e schermi, quello che occorre al video per arrivare alla fine, il tempo personale di riflessione riguardo all’installazione da parte dello stesso spettatore, oltre al tempo complessivo risultante dalla messa in relazione di tutti questi fattori, costruiscono ogni volta in modo diverso un evento che è creato attraverso la simulazione, grazie alla presenza dello spettatore. Lo spettatore reagisce in relazione a ciò che vede, e si confronta con le proprie certezze spaziotemporali e d’identità. Egli si deve misurare a livello percettivo con le informazioni audiovisive che riceve, in ambienti che mettono in crisi la sua percezione di sé e dello spazio circostante. La telecamera, lo schermo su cui sono videoproiettate le immagini, e lo spettatore che attraversa l’installazione sono tutti elementi dell’opera necessari, poiché decidono la struttura complessiva dell’opera stessa. Negli anni Settanta e Ottanta le videoinstallazioni sono viste come spazi critici e trasgressivi che sovvertono le forme della rappresentazione e della fruizione artistica, propongono nuovi statuti dell’immagine e dell’opera d’arte, e ridefiniscono il ruolo del pubblico. Tra gli anni Ottanta e Novanta lo sviluppo della tecnologia digitale rende più accessibile agli artisti l’esplorazione artistica dell’interattività. Il videoambiente interattivo usa la tecnologia digitale diventando un sistema aperto ed esplora le possibilità dell’interattività, proponendo nuove esperienze nel dialogo uomo macchina e uomo-macchina-uomo, creando spazi agibili e fruibili da più persone che attivano l’opera. Fanno parte di queste forme artistiche opere come The Tree of Knowledge di Bill Viola e l’esperimento Screen di Noah Wardrip Fruin. Dagli anni Settanta Bill Viola artista statunitense fra i più apprezzati nella Videoarte, ha utilizzato il video per esplorare il fenomeno della percezione usato per conoscere se stessi. I suoi lavori si basano sulle esperienze universali dell’uomo, come la nascita, la morte, la coscienza, e trovano ispirazione nella produzione artistica umana. Egli è stato uno sperimentatore innovativo nella creazione dei video come forma vitale dell’arte contemporanea e ha aiutato a espandere tutto questo in termini di tecnologia e ricchezza storica. Bill Viola afferma che: “…sono la macchina e lo spettatore insieme che formano questo sistema che si chiama video. Mi resi conto che era importante conoscere anche la ‘tecnologia’ degli esseri umani, la ‘tecnologia’ di noi stessi: quindi cominciai a studiare come funziona l’occhio, come funziona l’orecchio e come il cervello integri queste funzioni…”. Bill Viola fa una ricerca sull’espressione nel corpo umano e sulla dinamicità dell’arte. Secondo Viola bisogna studiare come funzioniamo per studiare gli strumenti. Egli sostiene che ci riscriviamo attraverso l’interazione con la macchina. Avviene un recupero dell’arte sottoforma di esplorazione della mente. Viola afferma anche che “non bisogna opporsi ai cambiamenti che avvengono nelle evoluzioni dell’alfabeto, della scrittura, perché se siamo noi a cambiare non c’è nessuna perdita. E anche le macchine riflettono la nostra evoluzione”. Lo spettatore entra in un corridoio lungo e stretto che termina con uno schermo con proiezione dove si vede un albero. Quando lo spettatore va verso lo schermo, i cambiamenti della struttura diventano sempre più drammatici. Ogni passo nel corridoio è correlato ad un momento temporale diurno, annuale e biologico del ciclo di vita di un albero. In ogni punto del loro percorso lineare ma reversibile, i visitatori possono fermarsi in un momento dello sviluppo della pianta.
L’albero, con un design che riprende tutte le caratteristiche stagionali, simboleggia le varie fasi della vita. Il corridoio è la metafora del cammino che l’uomo compie attraverso la vita. I lavori di Bill Viola presentati a Palazzo Bonaparte si dispiegano in un percorso espositivo unico, in aperto dialogo con lo spazio, rileggendolo, e riproponendolo da una prospettiva nuova, così come gli stessi video dell’artista vengono qui riletti e reinterpretati dalla dimensione spaziale che questi prendono. Un gioco di passati ricostruiti e futuri anticipati, di temporalità espanse, grazie al lavoro particolare di Viola già concepito come un lavoro all’interno dell’immagine (il video in sé) ma anche esterno (il video come medium ibrido e come apertura al dialogo con lo spazio in cui è installato). A differenza degli altri artisti della sua generazione, Bill Viola già dai primi anni Settanta inizia ad annullare il troppo tecnologismo sperimentale, tornando agli elementi di base della tecnologia video (il monitor e la telecamera) fino addirittura a superare il medium arrivando allo studio degli elementi naturali di base che rendono possibile l’avvento di qualsiasi immagine come la luce, il tempo, lo spazio. Il video diventa con Viola uno dei media a disposizione dell’arte contemporanea, un nuovo mezzo attraverso il cui linguaggio poter indagare una più profonda conoscenza dell’uomo e il suo rapporto con l’ambiente, gli intrecci tra tradizione orientale e occidentale, l’importanza iconica degli elementi naturali, e molte altre tematiche a cuore dell’artista. Un passaggio che ci fa capire quanto Viola, riletto oggi, possa essere una figura chiave non solo per la storia della videoarte, ma anche per la storia dell’arte più in generale. Un artista attraverso cui poter comprendere gli ultimi quarant’anni di cultura visiva. I temi trattati sono visibili in mostra già dalla prima proiezione The Reflecting Pool tra 1977 e il 1979. Come in una metafora della nascita e della creazione, un uomo (l’artista stesso) sta in piedi al bordo di una piscina immersa nella natura e il suo riflesso nell’acqua: due temporalità (quella dell’immagine riflessa nell’acqua e l’ambiente intorno), due mondi (uno reale/virtuale e uno virtuale), due culture (uomo e natura); ma anche Oriente e Occidente, lo Yin e Yang, un lavoro sugli intrecci e le relazioni degli opposti. La foresta, gli alberi, le piante, sono protagonisti nel video Study for The Path del 2002.
L’ambiente, il bosco, è fisso, ciò che cambia è il continuo passare di persone che da sinistra attraversano il video verso destra. Famiglie, uomini, donne, bambini, camminano in un processo continuo in cui il concetto di inizio e fine viene a dissolversi. Un altro passaggio di stadi esistenziali, un altro lavoro su quella linea sottile che divide gli opposti fisici, spirituali, naturali. Observance (2002), uno studio della perdita e del dolore nelle sue molteplici espressioni personali, va concepita come una pittura in movimento, lentamente delle persone si avvicinano allo schermo guardando lo spettatore con aria sofferente. Non è più il fruitore dell’opera a guardare, ma è quest’ultimo l’oggetto guardato. In questo modo l’artista amplifica ulteriormente il processo di identificazione emotiva e, non a caso, l’opera è parte della serie “Passions”. La tradizione pittorica italiana, fonte di ispirazione per l’artista, è qui riletta in chiave moderna: a passare davanti allo schermo sono persone vestite con abiti contemporanei. La mostra continua con un’opera, poco conosciuta al grande pubblico e non immediatamente ascrivibile al classico lavoro dell’artista americano: Unspoken (Silver & Gold) del 2001. Qui l’artista fa uso espressivo del volto umano concepito ancora una volta come soglia fra un esterno (ciò che noi vediamo del volto) e un interno (il nascosto delle emozioni). Unspoken – attraverso l’uso di una delicata proiezione su due pannelli (uno in foglia d’argento e l’altro in foglia d’oro) – riflette in proiezioni in bianco e nero le emozioni di due persone in una relazione separata dalle loro cornici. Entrambi i pezzi, Observance e Unspoken, sono della serie “Passions”, opere che ritraggono emozioni al rallentatore estremo, incarnando l’umanesimo dei dipinti del Rinascimento. Alla fine degli anni Ottanta Viola si trova di fronte a un grande periodo di crisi creativa ed è qui che l’artista inizia a pensare a una nuova composizione dell’immagine attraverso la costruzione di vere e proprie scene, quasi cinematografiche, ispirate alla tradizione storica artistica occidentale. Un approccio cinematografico nel vero senso della parola: ambientazioni, attori, set, disposizione delle luci, fotografia, una vera e propria regia, quindi. Da qui il famoso e fondamentale The Greeting del 1995, qui esposto, ispirato alla Visitazione del Pontormo (1528-9). Due donne che parlano vestite con abiti del ‘500, come nel dipinto originale, interrotte da una terza donna che entra nella scena abbracciando e salutando. Il tutto con movimenti lenti all’interno di un’ambientazione che richiama quella del dipinto del Pontormo, ma che lo stesso artista definisce “industriale”. Un evento che si svolge in 45 secondi è esteso a oltre 10 minuti. Come osserva Kira Perov nella sua prefazione al catalogo: “Il tempo è malleabile nelle mani di Bill Viola, dove ogni dettaglio del movimento e dell’espressione del viso e del corpo è visibile, dove un momento diventa eternità.” Da qui in poi il lavoro di Bill Viola verrà sempre più identificato da questo stile in cui una parte determinante prenderà la formalizzazione dell’emozione, uno dei centri del suo lavoro. Lo vediamo questo in Ascension (2000), che riprende il tema dell’acqua come elemento naturale, sperimentazione della natura ciclica della nostra esistenza e simbolo di nascita e di rinascita, per la cultura Occidentale, ma anche di purificazione nella cultura giapponese. Allo stesso modo Three Women del 2008 riprende il tema dell’acqua e, in questo caso, non come immersione (come in Ascension), ma come passaggio da una forma all’altra. Una madre e due figlie passano attraverso un muro d’acqua, una linea di confine tra vita e morte, luce e ombra, da una forma di esistenza immateriale a una in carne e ossa. Dagli anni Novanta, il lavoro di Viola si sviluppa sempre più all’interno di una dimensione performativa, in cui il corpo dell’attore diventa fondamentale. Lo vediamo nella serie dei “Water Potraits” del 2013. Attori sott’acqua con espressioni rilassate, in pace con il mondo, attraversate dall’acqua, da quell’acqua che è per Viola l’elemento base della vita. Come l’immagine video, l’acqua fluisce e modifica, metafora del tempo in continuo cambiamento. Figure subacquee che non aprono gli occhi, e non prendono fiato, fluttuanti tranquille, sospese nel tempo. Gli elementi naturali tornano prepotentemente nei video della serie “Martyrs” del 2014.
Biografia di Bill Viola
E’ stato un pioniere nello sviluppo del video come mezzo principale di arte contemporanea. Da oltre 40 anni realizza lavori che si rivolgono costantemente alla vita, la morte e il viaggio intermedio. Nato a New York City, Viola si è laureato nel 1973 presso il College of Visual and Performing Arts della Syracuse University, dove ha studiato musica elettronica, performance art e film sperimentali e ha creato il suo primo video funziona con la tempestiva invenzione della videocamera/registratore portatile nel 1967. Dopo la laurea, Viola ha trascorso 18 mesi a lavorare a Firenze, dove per la prima volta respira l’arte e l’architettura Rinascimentale. I suoi viaggi lo portano anche in terre lontane, come nelle Isole Salomone nel Pacifico meridionale e in Australia. In seguito, insieme a Kira Perov, sua moglie e collaboratrice, vive in Giappone dal 1980 al 1981, studiando la filosofia buddista Zen e sperimentando l’architettura, la calligrafia, il teatro Noh e molti altri aspetti della cultura giapponese che hanno influenzato il suo lavoro. Insieme si trasferiscono poi nel sud della California, sebbene lunghi viaggi continuino a portarli in luoghi come i monasteri buddisti tibetani di Ladakh nel nord dell’India, nelle Isole Fiji per filmare le cerimonie di camminata sul fuoco indù, ma anche nei siti archeologici dei nativi americani nel sud-ovest degli Stati Uniti con una spedizione di cinque mesi. Tra le molte altre mostre personali, Viola ha rappresentato gli Stati Uniti nel 1995 alla Venezia Biennale, e due anni dopo, una sua importante rassegna organizzata dal Whitney Museum of American Art di New York ha viaggiato a livello internazionale. Attualmente Bill Viola e Kira Perov vivono a Long Beach, in California.