la Corrente Artistica che ha Rivoluzionato l’Arte Italiana del Novecento
Giovanni Cardone
Fino al 22 Settembre 2024 si potrà ammirare al Palazzo SUMS Repubblica di San Marino la mostra Transavanguardia. La vitalità del contemporaneo a cura di Alessandro Gea. L’esposizione è organizzata da Segreteria di Stato per l’Istruzione e la Cultura, Dipartimento Turismo e Cultura, Istituti Culturali ed FR Istituto d’Arte Contemporanea S.p.a. in collaborazione con Claudio Poleschi Arte Contemporanea. A 45 anni dalla nascita della Transavanguardia, la Città di San Marino, che custodisce sul suo territorio innumerevoli impronte del passaggio dei “FabulousFive”, celebra l’attualità della corrente artistica che ha rivoluzionato l’arte italiana del Novecento. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla Transavanguardia apro il mio saggio dicendo : In Europa e negli Stati Uniti gli anni che seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale furono caratterizzati da una forte ripresa economica e da un vivace fermento culturale; il periodo di prosperità fu reso possibile da una fortuita congiunzione di fattori. In primis, un ruolo di rilievo ebbe l’affermarsi di un nuovo genere di capitalismo, insieme al quale la democrazia e le aspirazioni popolari riuscirono a convivere pacificamente portando ad un vero e proprio boom economico nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta. Come affermato dallo storico Marcello Flores all’interno del testo Il secolo mondo. Storia del Novecento, a partire dai quindici anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale e fino agli anni Settanta si assistette, poi, alla cosiddetta “transizione demografica”, ovvero una spettacolare crescita della popolazione che poté compiersi grazie a un nuovo clima produttivo: motore di questo incremento delle nascite fu, infatti, soprattutto il miglioramento delle condizioni economico-sociali, dovute dapprima all’attuazione di piani di sostegno internazionali negli anni Cinquanta – come il cosiddetto Piano Marshall – , e poi allo sviluppo di tecnologie avanzate e alla produzione di beni di consumo durevoli che ebbero una straordinaria diffusione in tutto il versante occidentale . In molti paesi si registrò uno sviluppo continuo che si declinò in tutti i settori della società e delle scienze; tra gli altri, vennero potenziati il settore terziario a quello dell’industria chimica, che inserì nel mercato in maniera massiccia materie plastiche, fibre sintetiche e nuovi farmaci (tra cui la pillola anticoncezionale e alcuni psicofarmaci). Gli anni Sessanta furono anche il decennio in cui vennero realizzati i primi trapianti chirurgici e della conquista dello spazio, traguardo di cui massima espressione fu lo sbarco sul suolo lunare della navicella statunitense Apollo 11, avvenuto nel 1969 . Il miracolo economico che aveva investito le nazioni uscite sconfitte dalla Seconda Guerra Mondiale subì una grave battuta d’arresto nel corso degli anni Settanta, a causa del clima politico tutt’altro che disteso che si era venuto a delineare, che vedeva contrapposti il blocco dell’Unione Sovietica e quello fortemente capitalistico degli Stati Uniti. L’episodio che più di tutti segnò la fine del periodo florido dei decenni precedenti fu la crisi petrolifera del 1973. Come viene asserito dal critico d’arte Achille Bonito Oliva all’interno del volume L’arte moderna 1770-1970. L’arte oltre il Duemila, proprio nel 1973 il conflitto, già incandescente, tra Paesi Arabi e Israele deflagrò nella guerra del Kippur, e indebolì inevitabilmente sia l’economia mondiale, sia il clima culturale che si era sviluppato in precedenza, caratterizzato da una grande fiducia nel progresso e una visione positiva e ottimistica dello sviluppo economico . La chiusura del Canale di Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati Arabi contro i paesi occidentali alleati di Israele diedero alla crisi una dimensione globale, con conseguenze di vasta portata sull’economia e sugli equilibri internazionali. La crisi energetica, infatti, danneggiò irrimediabilmente non solo le economie, ma anche i sistemi culturali e politici, causando il crollo della prospettiva di progresso vissuta nei vent’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale . Contrariamente alla rapida crescita registrata negli anni Cinquanta e alle spinte rivoluzionarie – nello specifico quelle della rivoluzione studentesca del 1968 degli anni Sessanta, gli anni Settanta e Ottanta furono invece scanditi da un’instabilità politica ed economica, dal terrorismo e dalla violenza, come viene affermato da Alessandra Cuzzucoli nell’articolo La Transavanguardia, il Postmoderno ed Enzo Cucchi . La crisi petrolifera del ’73, infatti, causò sia danni diretti alle economie, provocando dapprima una stagnazione e poi una violenta inflazione, ma anche danni indiretti, come la crescita esponenziale del tasso di disoccupazione che si mantenne molto alto per tutto il decennio successivo; a rendere meno drammatica questa situazione – specialmente in Europa occidentale fu la presenza di numerosi ammortizzatori sociali, quali i sussidi di disoccupazione e le sovvenzioni statali elargiti alle industrie in difficoltà. Gli storici Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, nel volume Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, sostengono, tuttavia, che, nonostante quanto appena descritto, lo stesso modello del Welfare State, affermatosi nei decenni precedenti come strumento di stabilizzazione economica, oltre che di perequazione sociale, si dimostrò insufficiente a contrastare le difficoltà dal momento che la crescita del debito pubblico obbligò al contempo i governi ad aumentare la pressione fiscale6 . Questo portò al ritorno in auge delle teorie liberiste e a critiche crescenti contro lo Stato assistenziale, che sfociarono, per esempio, nell’elezione di governi conservatori in Gran Bretagna come quello guidato da Margaret Thatcher dal 1979 e repubblicani negli Stati Uniti sotto la presidenza di Ronald Reagan dal 1980. Si assistette, dunque, in maniera generalizzata a una rimessa in discussione della capacità dei grandi sistemi ideologici – soprattutto di quelli che propendevano per una trasformazione rivoluzionaria della società – di fornire delle concrete soluzioni ai problemi del popolo, e ciò condusse alla nascita e alla radicalizzazione di frange estremiste e violente; Tutto ciò portò, in particolare nel contesto dell’ Europa occidentale, alla tragica esplosione del terrorismo politico attuato da piccoli gruppi fortemente militarizzati, tra cui le Brigate Rosse in Italia, la Frazione dell’Armata Rossa in Germania, il gruppo di Action directe in Francia. Gli anni Settanta rappresentarono, tuttavia, anche il decennio in cui iniziò a diffondersi una consapevolezza ecologica sviluppatasi in seguito alla crisi petrolifera, che aveva generato la paura del possibile esaurimento delle risorse naturali del pianeta. La risposta a questa crisi si concretizzò in una protesta “ideologica” contro la società consumistica che si era affermata nel corso dei decenni precedenti, in favore di politiche di sensibilizzazione ecologica e ambientalista: intorno alla metà degli anni Settanta si iniziò a parlare della necessità di utilizzare fonti energetiche alternative ai combustibili fossili. Nel campo sociale, poi, soprattutto in quello dei diritti civili, questo decennio in Italia fu particolarmente ricco di conquiste, tra le quali la legge sul divorzio, entrata in vigore nel 1970 e poi oggetto di referendum abrogativo, fallito, nel 1974 e la legge sull’aborto, confermata nel 1981. Questo clima socio-politico-economico estremamente complesso non fermò il progresso tecnologico; infatti, il principio degli anni Settanta vide lo sviluppo della cosiddetta “rivoluzione elettronica”, evoluzione dei progressi scientifici compiuti negli anni Cinquanta e Sessanta, che portò all’unificazione dei linguaggi e a una notevole circolazione delle informazioni. Tutto questo impattò ovviamente anche sull’industria culturale, influenzata in particolar modo da tale rivoluzione. Nel campo dell’arte, inoltre, gli artisti iniziarono a porre le loro ricerche in relazione con i nuovi mezzi di comunicazione. In generale, si assistette alla moltiplicazione delle imprese multimediali e crebbe, quindi, anche la tendenza alla standardizzazione dei prodotti culturali, pensati ora per un pubblico più ampio . Nonostante questa “rivoluzione tecnologica”, gli anni Settanta e Ottanta vengono spesso definiti con il termine Postmoderno, considerato in questa sede come categoria storica, ad indicare un periodo in cui si assiste al superamento del culto della novità e del progresso sviluppatosi nei decenni precedenti, che, come si è detto, furono caratterizzati da rivoluzioni culturali e tecnologiche. Con il postmoderno cambiò l’approccio nei confronti della modernità.
Come riportato dallo storico e critico britannico Mark Mazower nel proprio testo Dark continent: Europe’s twentieth century, il periodo tra gli anni Settanta e Ottanta diede prova di una vera e propria crisi della modernità, e a sottolinearlo era il forte contrasto con il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta il testo dello storico e critico analizza proprio il concetto di postmodernità da molti punti di vista considerando diversi ambiti di riferimento e rileggendo le teorie di alcuni intellettuali. A tal proposito, secondo il filosofo Jean-Francois Lyotard, che trattò a lungo il concetto di postmoderno cercando di definirne i principi cardine, gli anni Settanta segnarono propriamente la fine della modernità soprattutto dal punto di vista artistico e culturale. Lo storico britannico chiarisce come per Lyotard il termine postmoderno designasse il modo in cui si era evoluta la cultura a seguito delle trasformazioni avvenute in letteratura, nelle scienze e nelle arti dalla fine degli anni Cinquanta; trasformazioni dovute all’avvento della tecnologia, e conseguenti alle modalità di influenza della stessa sulle varie branche della scienza e della cultura . Nel testo di Mazower ritroviamo anche il pensiero del sociologo Göran Therborn, il quale si esprime a proposito del postmoderno affermando come gli anni della postmodernità fossero contraddisti dall’avanzare di una nuova coscienza ambientalista, che portò all’abbandono dell’ottimismo scientifico degli anni Cinquanta per la nostalgia di un passato in maggiore simbiosi con la natura . I politici d’altro canto, riporta lo storico britannico, affermavano come il “lamentoso pessimismo culturale” fosse scaturito dalla “paura della vita, della tecnologia e paura del futuro”. Infatti, la postmodernità, sostiene Mazower, aveva diffuso ovunque, in modo omogeneo, un sentimento di sfiducia personale e una sensazione di insicurezza che portarono le persone a sviluppare uno spropositato attaccamento nei confronti delle radici e delle tradizioni. Tuttavia, secondo lo scrittore Robert Musil, citato all’interno del volume dello storico non vi è una comprensione immediata di cosa distingua la crisi postmoderna da perturbazioni analoghe avvenute in tempi precedenti. Ciò che sicuramente in questa occasione differiva dalle crisi antecedenti era la considerazione della politica, che, come si è visto, negli anni Settanta non venne più ritenuta come il principale campo di realizzazione e di azione personale perché oggetto di profonda sfiducia. Si diffuse un sentimento di apatia e astensionismo dal punto di vista della mobilitazione politica, che si unì al clima di pessimismo e di incertezza, influenzando la sfera sociale ed economica e accrescendo l’individualismo. Mazower sostiene come, a suo avviso, l’unica reazione a questo individualismo dilagante fu un “comunitarismo” volto a resuscitare una moralità civile della comunità locale, ricercando ottimisticamente passate armonie sociali. Altre riflessioni interessanti in merito al postmoderno possono essere individuate all’interno del testo del filosofo, accademico e politico italiano Giovanni Vattimo La fine della modernità. Lo studioso riporta come, i filosofi Friedrich Wilhelm Nietzsche e Martin Heidegger avessero parlato di “postmodernismo” sebbene per ciò che concerne Nietzsche si tratti di una teoria molto precoce, essendo egli vissuto nella seconda metà dell’Ottocento definendone il prefisso “post” come un comune atteggiamento di oblio della società nei confronti dell’eredità del pensiero europeo. Nietzsche e Heidegger misero dunque in discussione tale pensiero, non cercando di mettere in atto un “superamento” critico di quest’ultimo poiché ciò avrebbe significato rimanere ancora ancorati a questo stesso flusso di idee. Nietzsche e Heidegger, come affermava Giovanni Vattimo, asseveravano che “la modernità si può caratterizzare infatti come dominata dall’idea della storia del pensiero come progressiva ‘illuminazione’, che si sviluppa in base alla sempre più piena appropriazione e riappropriazione dei ‘fondamenti’ i quali sono pensati anche come le ‘origini’, di modo che le rivoluzioni, teoriche e pratiche, della storia occidentale si presentano e si legittimano per lo più come ‘ricuperi’, rinascite, ritorni” Secondo loro il concetto di “superamento”, dà per scontato che il corso del pensiero sia uno sviluppo progressivo in cui il nuovo coincide con la mediazione del recupero e dell’appropriazione del fondamento-origine. Nietzsche e Heidegger possono essere considerati come i filosofi antesignani della post-modernità. Infatti, il “post” della postmodernità corrisponde per loro a un allontanamento, un congedo dalle logiche di sviluppo della modernità, asserisce il filosofo Gianni Vattimo ne La fine della modernità . Tuttavia, spesso si possono muovere delle critiche al discorso sulla postmodernità, come ad esempio il suo essere intrinsecamente contraddittorio. Di fatti affermare di trovarsi in un momento successivo alla modernità potrebbe significare ciò che viene affermato dalla stessa modernità, ovvero l’idea di storia, di superamento e di progresso. È dunque difficile capire e spiegare in cosa consiste la differenza filosofica della postmodernità nei confronti della modernità. Se la postmodernità significasse, infatti, solo qualcosa di nuovo rispetto al moderno, consisterebbe nella modernità stessa. Ciò che, quindi, secondo Nietzsche e Heidegger caratterizza il postmoderno è la “dissoluzione della categoria del nuovo”, l’arresto della storia. Perciò i filosofi incitano ad un ritorno alle origini del pensiero europeo, ovvero a una visione dell’essere che non accetta più il divenire in modo apatico, ma l’illusione di una possibilità di ritorno alle origini. Tuttavia, secondo Vattimo ciò significherebbe “ricominciare da capo”. È proprio in queste nuove condizioni di non-storicità, ovvero di post-storicità che Nietzsche e Heidegger hanno posto le basi per realizzare un’immagine dell’esistenza . Interessante considerare anche il pensiero del sociologo Arnold Gehlen, riportato da Vattimo, che trattando la postmodernità le conferì la definizione di post-histoire. Secondo Gehlen, infatti, la postmodernità andrebbe ad indicare la condizione in cui “il processo diventa routine”. Secondo il filosofo, la modernità non è portatrice di valori rivoluzionari, non è impressionante, ma “permette che le cose vadano avanti nello stesso modo”. Come si è visto, gli anni Settanta del Novecento furono decisamente anni di particolare rilevanza per la storia internazionale, caratterizzati da importanti implicazioni politicosociali nell’Occidente del mondo. Questi anni furono contraddistinti da un duplice sentimento; da una parte si sperava in una possibilità di rinascita, dall’altra si vedeva questo periodo come l’inizio di una crisi e disfacimento. Gli artisti operanti negli anni Settanta e Ottanta si trovano a doversi confrontare con i molteplici cambiamenti avvenuti a livello globale che interessarono i diversi aspetti della società e che contribuirono a modificare in maniera pregnante quello che era stato il contesto culturale antecedente. Come viene affermato da Achille Bonito Oliva all’interno del catalogo della mostra “Avanguardia Transavanguardia” a seguito delle crisi che colpirono gli assetti politico, economico e culturale di cui si è trattato in precedenza, anche il sistema dell’arte e la produzione artistica furono investiti da sconvolgimenti che inevitabilmente portarono molti cambiamenti all’interno della pratica artistica. A seguito della sperimentazione messa in atto dalle neoavanguardie del secondo dopoguerra, negli anni Settanta e Ottanta: “la rappresentazione diventa lo strumento attraverso cui l’arte attuale, con felice umiltà, prende atto dall’esaurimento storico di ogni pretesa, quella di darsi quale progetto ed unità di misura, volutamente astratta, di ogni possibile operare”, così afferma Achille Bonito Oliva, e aggiunge come “la tradizione pura e semplice delle avanguardie nascondeva ancora questa speranza” . Un quadro artistico disilluso e sprezzante costituisce un momento di cesura netta con il modo di fare arte del passato, contraddistinto da un approccio speranzoso e ottimistico derivato dal momento di pace e prosperità che aveva contraddistinto il periodo successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La produzione artistica svolta nell’ambito di queste correnti e tendenze rivela la scelta di privilegiare il processo creativo rispetto al risultato, il progetto rispetto all’opera. L’attitudine dell’artista, il suo comportamento, l’azione, prevaricano l’opera d’arte nella sua concretezza. Tra le varie declinazioni di «comportamento» dell’artista, una delle più incisive è quella che coinvolge il corpo come soggetto e oggetto dell’azione artistica: la Body Art, che trova il suo massimo sviluppo proprio in questi anni. L’artista usa il corpo come oggetto di conoscenza, sia personale che politica, ponendolo in rapporto con la propria interiorità ma anche con il mondo, le convenzioni e i condizionamenti sociali: proprio di questo rapporto parlano le opere di artisti come Gina Pane , Marina Abramovic e il compagno Ulay, Rebecca Horn, Luigi Ontani, il duo Gilbert e George attivo dal 1968. La scoperta del corpo viene supportata dall’uso del video, medium che inizia ad essere impiegato frequentemente tra gli anni Sessanta e Settanta. Uno strumento fin troppo «oggettivo», che è ancora difficilissimo manipolare ma, come afferma lo storico dell’arte Marco Meneguzzo nel volume L’arte globalizzata tra i due millenni, sembra realizzare l’utopia della realtà sovrapposta all’arte. Un altro medium molto utilizzato negli anni Settanta è la fotografia, dapprima come strumento adatto a indagare le basi della comunicazione per immagini, poi come mezzo di catalogazione del reale, infine per narrare eventi personali o pubblici, pratica, questa, che va sotto il nome di Narrative Art. Strettamente collegato al successo della fotografia è l’Iperrealismo, tendenza che gioca sull’illusionismo delle tecniche pittoriche e delle inquadrature per creare dipinti estremamente simili alle fotografie. Un’altra accezione di comportamento dell’artista è quella che sta alla base del movimento che va sotto il nome di Land Art. Nata negli Stati Uniti intorno al 1967, la Land Art è una pratica che prevede il totale abbandono di tutti gli strumenti del fare artistico, a favore di azioni dirette sulla natura e nella natura: ne consegue che le opere abbiano un carattere intrinsecamente provvisorio, se non effimero, e rimangano documentate soltanto attraverso fotografie e video. Tra gli artisti più attivi in questo campo si individuano Walter De Maria , Robert Smithson e Richard Long . In Italia molte delle opere di Land Art sono legate strettamente all’esperienza dell’Arte Povera, corrente codificata dal critico d’arte Germano Celant già nel 1967 per designare il gruppo di artisti inizialmente formato da Alighiero Boetti , Luciano Fabro , Pino Pascali , Jannis Kounellis , Emilio Prini e Giulio Paolini, per la prima volta in mostra alla galleria La Bertesca di Genova proprio in quell’anno. Altri artisti imprescindibili per il movimento sono Michelangelo Pistoletto e Mario Merz. Come scrive lo stesso Celant nel contributo Appunti per una guerriglia, l’Arte Povera si pone in antitesi rispetto all’ ”arte complessa” della contemporaneità, proponendo soluzioni che rifiutano il sistema del mercato dell’arte e le aspettative codificate di ogni genere. Questa corrente artistica ha avuto un grande seguito e ha continuato ad apportare il proprio contributo al dibattito critico nazionale e internazionale fino agli anni Ottanta inoltrati. Sempre tenendo in considerazione il contesto italiano, nei primi anni Settanta ci furono, inoltre, gruppi di artisti o artisti indipendenti che intendevano arrivare al pubblico attraverso messaggi diversi: tra questi si ricordano Piero Manzoni si pensi ad esempio alla ricerca infinita della serie delle Linee il gruppo T attivo tra il 1959 e il 1968 e il gruppo N attivo tra il 1960 e il 1966 . Parallelamente sul finire degli anni Sessanta, in un momento quasi esclusivamente rivolto all’analisi degli strumenti del comunicare in cui l’impiego del mezzo pittorico sembra lasciato in disparte, la corrente di Pittura Analitica rivendica per la pratica della pittura uno statuto concettuale. L’artista non solo non rinuncia alla pittura, ma ne analizza scrupolosamente i procedimenti e le componenti materiali (la tela, la cornice, il segno, il colore, la materia pittorica), per arrivare a scoprire anche i propri procedimenti attuativi, le motivazioni personali e sociali del «fare pittura» . Gli anni Settanta, considerati ad ampio spettro sono il decennio della cosiddetta «arte ambientale» che rende lo spazio il «luogo» dell’arte: gli artisti allargano non solo concettualmente, ma anche fisicamente, i limiti dell’opera, coinvolgendo spesso lo spettatore entro i propri confini, spingendolo a mettere in campo tutti i sensi e non solo la vista. La pratica dell’arte ambientale è poi entrata nell’atteggiamento comune degli artisti, nelle varie accezioni di vera e propria trasformazione di uno spazio, di installazione e persino di allestimento . L’esuberanza dell’arte processuale e le novità introdotte con l’arte concettuale erano probabilmente dovute anche alla situazione politica che si viveva in quegli anni, il contesto in cui si svilupparono era infatti caratterizzato da un “ottimismo produttivistico, da un’euforia espansionistica dell’economia che consente all’arte di conservare la speranza di un riscatto, di un futuro migliore”. Tutto questo era dovuto a una tradizionale credenza di concepire la storia come un percorso progressivo legato alla ricerca di un equilibrio economico e sociale. L’arte di questi anni stava ancora conservando il proprio valore funzionale, moralista in relazioni alle ideologie politiche. Naturalmente, in questa sede non si intende stabilire equivalenze tra tendenze nate più o meno contemporaneamente, e apparentemente molto diverse tra di loro, quanto considerare come le idee sull’arte venute a maturazione attorno alla seconda metà degli anni sessanta includendo tra queste anche la Minimal Art, l’Arte Povera, l’Antiform, la Process Art, la Body Art, con i significativi precedenti degli happening e del movimento Fluxus posseggano un sostrato ideale comune attraverso il quale debbono essere lette, e che l’atteggiamento con cui gli artisti affrontano la questione «arte» sia da allora totalmente mutato. Nella seconda metà degli anni Settanta si verificò un vero e proprio cambiamento artistico, quando “al pensiero ‘espansivo’- quello, per intendersi, dell’arte povera e di quella concettual-comportamentista subentra una concezione dell’arte “recessiva” ed “eccessiva” come viene riportato da Livio Billo nel volume Figure della Transavanguardia. L’arte in questi anni ripose sempre meno importanza nell’utilizzo del medium artistico, prediligendo un “ri-azzeramento” dei tradizionali mezzi di espressione e le tradizionali categorie formali. Gli artisti degli anni Settanta, dunque, tentarono di ridefinire lo statuto dell’arte, seguendo quindi una ricerca personale. Con la ridefinizione dello statuto artistico, continua Livio Billo ci fu un “restringimento di campo sia sul versante formale che su quello mediale ed operativo”. A tal proposito lo storico dell’Arte Filiberto Menna afferma come alcuni dei, movimenti attivi negli anni Settanta, tra cui Support-Surfaces, la Minimal Art e l’Art&Language avessero contribuito a spostare l’arte “ dal piano di una pratica ermeneutica a quello di una pratica semiotica: il significato non è più cercato nella relazione tra i segni e le cose ma nella correlazione dei segni tra loro”. Allo stesso modo l’arte concettuale aveva privilegiato un’arte performativa con comportamenti predefiniti ad un’arte fondata sulla sensibilità corporea. Dunque, l’arte di questi anni subì una modificazione del suo paradigma da “l’arte è l’arte” in “l’arte per l’arte”. L’arte aveva quindi perso il suo connotato “sociale” e “naturale”. È proprio questa duplice visione dell’”azzeramento” e dell’”oltre-passamento” che crea una vera e propria rottura tra le avanguardie e tra i nuovi movimenti degli anni Settanta; le prime vedevano nella morte dell’arte un modo per creare del nuovo, mentre i secondi interpretavano questa “fine della storia” come emblema della postmodernità, come un tentativo di “scavalcamento all’indietro, una vera e propria volontà di rinnegare lo storicismo, quasi come affermare di non essere mai nati” . È sul finire degli anni Settanta che si ha ormai la sensazione per gli artisti di poter agire in qualunque modo preferiscano, operare sul corpo, lavorare con l’ambiente, utilizzare i nuovi strumenti tecnologici come la fotografia ed il video, lavorare con il solo esercizio concettuale ed anche tornare all’elementarità della manualità pittorica , afferma lo storico dell’arte Francesco Poli in riferimento alla situazione artistica in essere alla fine del decennio. Poli continua sostenendo come alla fine degli anni Settanta si poté assistere a un indebolimento delle precedenti ideologie e delle grandi utopie rivoluzionarie. Stava prendendo piede una crisi che coinvolse le “istanze emancipatorie e libertarie dell’arte concettuale, dell’astrazione e del mezzo fotografico”. Al contempo cominciò a vacillare la convinzione della sussistenza di una relazione tra sperimentazione e progresso. Tra gli anni Settanta e Ottanta, inoltre, nonostante le evidenti specificità nazionali, si assiste alla diffusione di una tendenza comune che si palesa come espressione di un’estetica disorganica e mutevole. Questa tendenza rinnega le dottrine artistiche contraddistinte da una preminente rigidità e le teorie estetiche eccessivamente concettuali. Questo nuovo approccio si concretizza nella rinascita della figurazione che venne declinata in modo eterogeneo e diversificato. Spesso protagonista di questa nuova figurazione è un passato ripreso e interpretato con grande libertà impiegando mezzi appartenenti proprio alla tradizione della produzione artistica, per dar luogo a opere in cui la componente soggettiva e l’aspetto dell’individualità degli artisti riveste una posizione di assoluto rilievo. La tendenza in questione vede una larghissima diffusione e viene appellata con il nome di neoespressionismo. Mentre gli artisti statunitensi si stanno confrontando con un passato più recente, ovvero quello della tradizione delle neoavanguardie, e solo alcuni rimandi alla storia europea, gli artisti europei si confrontano con il racconto familiare di un tessuto storico-culturale lontano, generando una ripresa del figurativo da parte di alcuni gruppi artistici, come appunto l’Ipermanierismo, il Citazionismo ed infine, quello che ha riscosso maggiore successo, teorizzato dal critico d’arte Achille Bonito Oliva, la Transavanguardia italiana. La Transavanguardia riprese alcuni stili delle avanguardie storiche, utilizzando una modalità aggressiva, alleggerita dalle precedenti gerarchie artistiche, impiegando uno stile pittorico contraddistinto da impasti cromatici ricchi di materia come viene riportato da Chelli . Questa nuova espressione artistica venne contestata da alcuni teorici dell’arte statunitensi. Tra i critici che contrastarono maggiormente la “nuova pittura europea” ci fu Benjamin H.D. Buchloch, che si pronunciò in modo piuttosto ostile nel suo intervento Figures of Authority, Ciphers of Regression: Notes on the Return of Representation in European Painting pubblicato sulla rivista October nel 1981. Per lui come per tanti altri critici questa nuova espressione artistica, questo nuovo modo di intendere la pittura, veniva percepito come manifestazione della decadenza sociale, piuttosto che come un cambiamento dell’approccio nei confronti della produzione artistica. Buchloch riteneva la nuova creatività degli anni Ottanta come “corrente disponibilità storica, non indirizzata verso alcuna reale innovazione della pratica artistica” . È con la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva che alla fine degli anni Settanta si è passati, come afferma lo stesso critico, “a un’arte della rappresentazione in quanto l’opera denuncia volontariamente e con grande naturalezza l’impossibilità di darsi come misura di sé e del mondo” . In questi anni la rappresentazione assunse dunque un ruolo fondamentale nella produzione pittorica degli artisti. Gli artisti attivi sul finire degli anni, così come i transavanguardisti, erano spinti dal desiderio di rivendicare la libertà eclettica di lavorare in autonomia, attingendo alla tradizione figurativa e pittorica senza essere accusati di anacronismo o regressione. Gli artisti di questi anni cercarono di allontanarsi dallo storicismo e dalla politicizzazione di ogni pratica artistica, concentrandosi sulla loro sfera personale. Svilupparono le loro opere intorno agli aspetti del particolare, del frammentario del genius loci, in opposizione con gli ideali delle neoavanguardie di seguire un percorso lineare della storia dell’arte. Dunque, gli artisti, de-ideologizzando l’arte non tentavano di dimenticare la storia, ma vollero anzi rapportarsi con essa in modo diverso dal passato, recuperandone alcuni modelli, come affermato anche da Chelli nel volume Storia dell’arte. Dall’Impressionismo alla Transavanguardia . Come già accennato, in questi anni in Italia si assistette alla formazione e allo sviluppo di nuovi gruppi artistici come appunto la Transavanguardia Italiana, i bolognesi Nuovinuovi, gli Anacronisti di Maurizio Calvesi, ciascuno con caratteristiche proprie e distinte dagli altri. Le città di Roma e Milano diventarono poi i centri focali in cui questi gruppi con la loro opera si misero in netta contrapposizione rispetto alle neoavanguardie. I vari membri dei gruppi realizzavano opere personali, c’era una vera e propria eterogeneità tra le loro opere e tra le loro forme di espressione. La nuova operatività con il ritorno alla figurazione e alle forme tradizionali coincise con una volontà da parte degli artisti di recuperare il vecchio rapporto con il pubblico, ormai abbandonato dalle precedenti pratiche artistiche . Secondo Pierluigi Severi, Prosindaco di Roma negli anni Ottanta, le nuove personalità artistiche di questi anni espressero “non una ma mille culture, diverse tra loro, non necessariamente antagoniste, ma non sicuramente omologhe o assimilabili” . Lo stesso critico teorico della Transavanguardia, Achille Bonito Oliva dichiarò, all’interno del catalogo della mostra da lui organizzata nel 1982 Avanguardia Transavanguardia, che a seguito della sperimentazione messa in atto dalle precedenti neoavanguardie cambiò la mentalità artistica, “più legata alle emozioni intense dell’individualità e di una pittura che ritrova il suo valore all’interno dei propri procedimenti”. In questo clima di de-ideologizzazione gli artisti superarono il problema e la paura dell’inattualità degli strumenti d’espressione, così come avevano fatto per la precedente esigenza di sperimentazione, ritenuta ormai non più prioritaria. L’opera dell’artista di questi anni venne realizzata attraverso una continua relazione di riprese e rimandi, la pittura riacquistava in questo modo una forma di sperimentazione più personale e concreta anziché astratta e impersonale come quella degli artisti delle neoavanguardie .
Gli artisti della fine degli anni Settanta e inizio degli anni Ottanta vivono sotto il segno di un’arte formata da una moltitudine di mezzi espressivi, specialmente l’uso della pittura, l’uso di strumenti del linguaggio e del colore . L’affermazione “arte non più progressista ma progressiva” venne esclamata da Bonito Oliva, che sosteneva che a far perdere l’atteggiamento progressista all’arte era stato il clima storico e politico in cui lavoravano i nuovi artisti, un clima caratterizzato dalla smaterializzazione delle ideologie che aveva portato conseguentemente ad una nuova visione dell’arte. Bonito Oliva affermò a tal proposito “l’artista ha compreso come progressismo significhi alla fine progressione, evoluzione interna del linguaggio, lungo linee di fuga speculari alla fuga utopica dell’ideologia” . Le correnti artistiche degli anni Sessanta come la Body Art, la Pittura Analitica, la Narrative Art, erano di colpo scomparse per la critica degli anni Settanta. Ciò avvenne per mettere in mostra solo due delle correnti che avevano invaso il campo artistico italiano, l’Arte Povera di Germano Celant e la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. Posso affermare che gli artisti del Nuovo Contesto usano indifferentemente la fotografia, il disegno, la pittura, il fumetto, l’installazione senza alcun problema. Qui sta la novità, e non si tratta più di suddividere il loro lavoro per media utilizzati o per procedure di uso delle stesse. anche questi artisti hanno dei padri precisi che si chiamano Schifano, Pascali, De Dominicis, Aldo Mondino e tanti altri erano della stessa generazione. Clemente ha cominciato anni fa con altre cose, anche Chia, poi anche il loro critico è di un’altra generazione, diversa dalla mia. Chia e Clemente circolavano già nel ‘69-’70 e facevano parte dell’ambiente romano. Un altro teorico molto attivo in questo periodo che io preso molto in considerazione in questo mio percorso storico- critico, è Maurizio Calvesi, che con la mostra ‘Buon giorno, fantasmi’, analizza e raggruppa gli artisti che hanno della citazione un’idea più estrema. È l’inizio di una maniera di dipingere che trova nel passato tema e interlocutore, e che negli anni a seguire sarà etichettata con svariati epiteti: Anacronismo, Pittura Colta, Ipermanierismo, Nuova Maniera Italiana ecc. Negli anacronisti c’è molta ricerca che si muove in direzione di una singolare forma di re-invenzione dell’arte del passato, dove il modello storico che parte dal rinascimento passando per il manierismo per il barocco fino ad arrivare al neoclassicismo e romanticismo sembra rispondere ad una funzione uguale e contraria a quella che nei pittori delle avanguardie storiche, poteva avere il modello primitivistico, gli anacronisti riconoscono nella pittura o scultura occidentale dei grandi secoli trascorsi, e nel classicismo, la forma più rigogliosa di manifestazione dell’immaginario mitico un repertorio da rivisitare e rivivere, nell’incontro tra memoria e coscienza. La tradizione, o l’accademia che essi rifiutano è la tradizione, divenuta accademica, delle avanguardie . Motivo conduttore in tutte le manifestazioni artistiche finora incontrate, e nel contempo diviene un legame fortissimo con la pittura del tempo e con la sua concettualità, un connubio dovuto ad un’eredità, ovunque presente, ricevuta dagli anni ‘60-’70, la citazione diventa quasi un ready-made del passato. Per il solo fatto che l’artista sceglie attua un’operazione artistica. La citazione però può a sua volta diventare spuria, un’imitatio, alla latina, che porta in sé i segni di un’elaborazione che fa differire l’oggetto scelto e rappresentato, come in L.H. O.O.Q. di Duchamp. Le operazioni concettuali dei decenni precedenti sembrano finalmente avere liberato la pittura dai fantasmi del manifesto, della riconoscibilità e della coerenza tecnica e formale. Poi ci fu l’arrivo della Transavanguardia che come tutti noi sappiamo i punti di riferimento sono le principali mostre che via a via fecero conoscere gli artisti e infine decretarono il successo del gruppo in Italia e in Europa, e gli inquadramenti affidati agli interventi in catalogo dei curatori delle mostre stesse. Descriverò la “poetica” ovvero la parola che sempre fu sempre rifiutata dai transavanguardisti, contenute nei testi prodotti, a stretto contatto con i momenti espositivi, da Achille Bonito Oliva, il riconosciuto teorico del gruppo. L’impostazione mi sembra la più adatta a un primo approccio al tema mentre le più vaste implicazioni teoriche connesse al rapporto tra la Transavanguardia e la cosiddetta “condizione postmoderna” che verranno affrontati dai tentativi che saranno condotti storiograficamente da alcuni critici americani di indagare i rapporti tra estetica e postmodernità. Premetto un solo dato a indicare la necessità di questo allargamento non è un caso che proprio nel 1979, anno cruciale nel percorso di identificazione della Transavanguardia, venga pubblicato il saggio che segnala l’ingresso delle società occidentali in una fase storica nuova ovvero, la condizione postmoderna di Jean Francois Lyotard. Tutto questo forse mi permette di puntualizzare meglio la ricostruzione storica e critica del percorso espositivo degli artisti transavanguardisti va dalla fine degli anni settanta e metà anni ottanta ovvero tra il 1978 e il 1984, cioè dalla “preistoria” del movimento fino alla sua definitiva e dell’affermazione internazionale. Il percorso prende avvio per iniziativa di due coraggiosi galleristi, Emilio Mazzoli e Gian Enzo Sperone. E’ proprio Mazzoli a curare la pubblicazione di quello che si può considerare il primo testo teorico del gruppo,questo testo farà da tramite per la prima importante sortita all’estero di alcuni dei futuri transavanguardisti. Si tratta della mostra che si apre a Colonia nel 1979 presso la galleria di Paul Maenz col titolo ‘Arte Cifra’. vengono presentati sei artisti italiani tra cui : Sandro Chia, Francesco Clemente, Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nino Longobardi ed Ernesto Tatafiore, che insieme a Cucchi formeranno il gruppo di artisti della Transavanguardia . Questa mostra segna una tappa molto importante nel cammino del movimento non solo perché ne avvia l’esordio europeo con la presentazione del curatore Wolfang Max Faust che propone un’interpretazione di notevole impatto critico da cui le successive elaborazioni non prescinderanno . Riassumiamone i punti fondamentali evidenziando le opposizioni che li costituiscono innanzitutto il non costituirsi di questi artisti in un gruppo ed il conseguente rifiuto di considerarsi una Nuova-avanguardia denotando un’opposizione con le avanguardie storiche. Quindi l’emergere di un “soggettivismo estremo” nel “volgersi verso la propria persona quale luogo e centro di partenza del proprio linguaggio”. Questo percorso verso la soggettività va, secondo Faust, contestualizzato: esso nasce da una “latente coscienza della crisi”, dalla sensazione della fine di un’epoca della storia mondiale, una crisi che si innesta sulla consapevolezza dei limiti dello sviluppo capitalistico, ma anche delle illusioni di un suo possibile rovesciamento . La parola chiave diventa “desiderio” come frutto di concatenazioni complesse e ambivalenti di cui Faust non nasconde i pericoli di atteggiamenti “regressivi”. Sul più stretto terreno della storiografia artistica Faust stabilisce un’altra delle opposizioni fondanti delle teorie transavanguardistiche “in fieri”: quella con l’Arte concettuale che aveva dominato gli anni sessanta e con la sua specifica configurazione italiana ovvero l’Arte Povera . “Concettualità” e “poverismo” sono infatti ancora legate a una prospettiva progressista e illuminista, anche se un “illuminismo poetico”, guardano “in avanti”, perseguono una “volontà di verità” che non cessa di postulare un utopico “telos”. Verità e finalità rifiutate da questi artisti: all’ “intenzionalità” si oppone ‘l’intensità’, tutta giocata nel “qui ed ora” dell’investimento pulsionale, capace di suscitare flussi energetici. A livello segnico loro strumento è la cifra. Ma che cosa intende Faust con “cifra”? Un segno che si pone al di là della tirannica antitesi fra mimetico e simbolico. “La cifra permette un’arte che non è né apparenza , né conoscenza nascosta ma libero gioco di intensità e di ideali” . Dobbiamo prendere in accurata e attenta considerazione questa definizione di Faust, vedremo, infatti, come questa componente ludica verrà ampiamente sottolineata da Achille Bonito Oliva e come, aspetto ancora più importante, questa libertà si traduca in immagini sconcertanti e sorprendenti che giocano con figurazioni oniriche ed esperienze quotidiane, con concetti artistici e con variazioni iconografiche. “Alla rigidità programmatica dell’arte concettuale l’Arte Cifra oppone opere in cui forme espressive esagerate si accompagnano a simboli resi convenzionali, elementi allegorici a gesti figurativi astratti”, è individuato qui un altro superamento: quello della antitesi astratto/figurativo. Infine, concetto fra i più importanti, Faust indica l’aspetto che, nella sua inattualità, era destinato a suscitare in alcuni critici la più violenta opposizione: il ritorno alla pratica della pittura e del disegno. Disegnare e dipingere, la ripresa del rapporto artigianale con il materiale, permettono, secondo il critico, una spontaneità che in larga misura manca ai mezzi tecnici quali il video, il film o la fotografia.
Contemporaneamente, questi procedimenti manuali permettono l’elaborazione di una produzione artistica che in un processo continuo, unisce tra loro testa e mano, sicché l’opera appare come un riflesso immediato di una coazione all’espressione. La guerra alla tradizione duchampiana era apertamente dichiarata. Nello scritto di Wolfang Max Faust sono, a mio avviso, già delineate, a tutti i livelli socio-politici, culturali, estetico-formali, le categorie teoriche fondanti in cui si collocherà in maniera estesa e compiuta la Transavanguardia. Un’ultima considerazione che Faust evochi a conclusione della sua pertinente analisi, come sfondo dell’Arte Cifra, strategie e aspetti delle politiche della sinistra italiana mentre la terza via,ovvero il femminismo e l’ emancipazione delle minoranze appare atteggiamento dettato dalla cautela preventiva di chi teme di essere tacciato come reazionario, cosa che puntualmente avvenne. In questo senso, come cautela di critico d’arte, va interpretato secondo me il richiamo a Mario Merz, capofila dell’Arte Povera, come autore con cui l’Arte Cifra istituiva un confronto critico. La mostra di Colonia può essere considerata la riuscita entrata in scena europea di alcuni artisti destinati ad entrare stabilmente nel novero dei transavanguardisti. Come abbiamo visto Arte Cifra è il nome che Faust elabora per gli artisti in mostra, “Transavanguardia” è la definizione che venne coniata di lì a poco dal critico che diverrà il suo più acuto e appassionato sostenitore, Achille Bonito Oliva. Le personalità artistiche che faranno parte stabilmente della Transavanguardia italiana furono: Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino. Il testo può ben considerarsi il “manifesto” della Transavanguardia come movimento. Questa definizione che sarebbe certamente rifiutata dal critico poiché rimanda immediatamente alle pratiche delle avanguardie novecentesche, costituisce senza dubbio il punto di riferimento decisivo per l’approccio teorico al fenomeno. “Ancora oggi l’intervento, il cui ruolo fu anche quello di legittimare teoricamente l’incedere dei successivi eventi espositivi, viene indicato dalla critica quale espressione quintessenziale della ideologia artistica della Transavanguardia”. Innanzi tutto quello che emerge fin dall’inizio è il tono di chi vuole proclamare una svolta ma, si badi bene, non in avanti, come proponeva l’avanguardia, bensì, all’indietro verso le “ragioni costitutive” dell’opera artistica. E’ la riconquista di un “pericoloso piacere”: quello di “tenere le mani in pasta”, di un movimento nomadico che rifiuta un approdo definitivo, che non si reprime davanti a niente, neppure davanti alla storia. Segue un attacco estremamente duro all’arte povera, almeno nelle sue espressioni teoriche, definita “repressiva e masochista”, incapace di sottrarsi alla censura imposta dalla dominante psicoanalisi freudiana. Non “povera” ma “opulenta” deve essere l’arte, ricca cioè di quella materia immaginale che procede come un flusso, zigzagante e discontinuo. Tale flusso è ora sottratto a quella “coazione al nuovo” di cui l’avanguardia è stata vittima, prodotto di un “darwinismo linguistico” e di un evoluzionismo culturale perseguito con rigore puritano. A questa cattiva spinta in avanti la Transavanguardia oppone un percorso fatto di accelerazioni e rallentamenti, si volge ad un’autonoma evoluzione interna. Alle poetiche di gruppo si sostituisce la ricerca individuale come salutare antidoto ai sovrastanti sistemi a vocazione totalitaria: ideologie politiche, psicoanalisi, scienze. Di fronte all’austera immobilità del concetto produttivo, la Transavanguardia, afferma Achille Bonito Oliva, tende a far valere la soggettività dell’artista espressa attraverso le modalità interne del linguaggio: è, in sintesi, una “creatività nomade” che non rifugge dal ricorso alle tecniche tradizionali, alla manualità sperimentale al richiamo al patrimonio del passato. Per questa arte vale l’affermazione di Nietzsche: “Zarathustra non vuole perdere nulla del passato dell’Umanità, vuole gettare ogni cosa nel crogiolo.” Si tratta di una nuova temporalità estetica che conduce a non avere nostalgia di niente, in quanto tutto è continuamente raggiungibile senza più categorie gerarchiche di presente e passato, come invece avveniva secondo la concezione lineare del tempo che era proprio delle avanguardie. La sintesi perfetta della posizione teorica espressa, può riassumersi in questa frase: “Trans-avanguardia significa assunzione di una posizione nomade che non aspetta nessun impegno definitivo, che non ha alcuna etica privilegiata se non quella di seguire i dettami di una temperatura mentale e materiale sincronica all’istantaneità dell’opera l’arte degli anni settanta tende a riportare l’opera nel luogo di una contemplazione appagante, dove la lontananza mitica, la distanza della contemplazione, si carica di erotismo e di energia tutta promanante dall’intensità dell’opera”. Il movimento aveva ora un nome e i suoi componenti erano stati definitivamente individuati, infatti l’articolo si conclude con una rassegna critica dei cinque artisti che avevano esposto alla collettiva di Acireale, la sua piattaforma era ora definita, seppure in prima battuta, con notevole forza teorica. In linea con quanto detto ad apertura di capitolo non ne indagherò qui i presupposti estetico-filosofici, una sola anticipazione: non si può non avvertire nel testo di Achille Bonito Oliva la presenza di due autori in quegli anni assai in voga: G. Deleuze, il cui L’anti-edipo. da cui proviene l’idea del liberatorio superamento del modello psicanalitico freudiano, nonché l’affermazione di una soggettività “nomade” o “rizomatica” e R. Barthes da cui proviene l’idea della necessità di ristabilire un rapporto di piacere fra l’opera e il lettore o l’osservatore, un piacere che non nasca dalla percezione della “unicità” del segno, ma piuttosto da quella della pluralità di codici che intersecandosi ne determinano la forma. Ancora a Roland Barthes e in particolare al breve saggio L’immaginazione del segno comparso nel 1962 sulla rivista Arguments, rimanda la propensione transavanguardista verso una produzione di segni “metonimici” piuttosto che “metaforici” . Così strutturato il movimento poteva riprendere con nuovo impeto il suo percorso espositivo all’estero. Ciò avvenne nuovamente in Germania dove troviamo l’esistenza di fenomeni artistici affini. Artisti quali Anslem Kiefer, Georg Baselitz, Markus Lüpertz, A. R. Penck, e Jorg Immendorf, di una generazione più anziana rispetto ai trans-avanguardisti, e i cosidetti Neuen Wilden mostrano una produzione assimilabile a quella della Transavanguardia italiana. I cosiddetti “Nuovi Selvaggi” tra i quali Helmut Middendorf, Rainer Fetting, Salomé, e i pittori più anziani che vengono etichettati come neo-espressionisti, saranno spesso compagni di strada degli artisti italiani nelle mostre all’estero e in patria, proprio per le affinità e le scelte di mezzi di produzione, disegno e pittura, come per il contenuto visivo delle opere. Si tratta di una mostra itinerante, le città in cui si espose furono Bonn, Wolfsburg, Groningen fra Gennaio e Luglio 1980. La mostra, esclusivamente dedicata al disegno, viene curata da Margarethe Joachimsen, autrice assieme a Wolfang Max Faust e Achille Bonito Oliva dei saggi raccolti nel catalogo. Vi compaiono appunto disegni di quattro dei cinque transavanguardisti: Chia, Clemente, Cucchi e Paladino, l’unico assente dunque è De Maria. La mostra reca l’inquietante ed enigmatico titolo ‘Die Enthauptete Hand’ seguito dal più tranquillizzante sottotitolo 100 Zeichnungen aus Italien. Tradotto in italiano, il titolo è ‘La mano decapitata’ sottotitolata 100 disegni italiani. Va subito messa in luce una caratteristica che differenzia questa mostra da Arte Cifra in quest’ultimo caso la presenza di artisti che in seguito avrebbero seguito percorsi diversi, non consentiva la precisa individuazione di un gruppo. La mostra che si apriva a Bonn, invece, fatta salva l’assenza di De Maria, poteva farlo e lo dichiarava apertamente nel sottotitolo italiano ‘La Transavanguardia’ nel disegno. C’è anche da rilevare che all’altezza cronologica di Arte Cifra il movimento non aveva ancora ricevuto una definizione che lo identificasse e difatti i suoi presupposti estetici erano delineati per la prima volta, all’ estero, nel catalogo stesso della mostra. Ora invece esisteva una denominazione, nonché una più solida premessa teorica, rappresentata dall’articolo scritto da Bonito Oliva sulla rivista “Flash Art”. Ognuno degli artisti presenti esponeva venticinque lavori, tutti su supporto cartaceo: acquarelli, inchiostri, pastelli, oli, polimaterici e soprattutto disegni. Questa precisa scelta offre l’occasione di inquadrare con più precisione una fondamentale caratteristica della pratica creativa degli esponenti della Transavanguardia, a cui si è fin qui solo accennato. Si tratta invece di una delle più vistose opzioni in opposizione alle varie declinazioni dell’arte concettuale: il “riprendere in mano il pennello”, il recupero delle pratiche pittoriche tradizionali come reazione al predominio dei mezzi tecnici extra-artistici di specie fotoelettronica. Un atteggiamento che oppone alla “coazione innovativa” il recupero della tradizione, con annesso ricorso alla citazione, alla retrospezione e a quella che Renato Barilli chiamerà “ripetizione differente”. Un’operazione che il critico bolognese paragona a quella compiuta da Giorgio De Chirico negli anni trenta del Novecento e che viene analizzata, all’interno della dialettica delle opposizioni bipolari, teorizzata da Heinrich Wolfllin, come una sorta di inevitabile movimento pendolare nella dialettica della forma artistica. “In una situazione di progressivo cambio di rotta, la necessità di ripristinare e riqualificare una pratica disegnativa neo-iconica, si configurava certamente quale antagonistica risposta a molta ormai svigorita cultura concettuale scegliere di esordire collettivamente mediante una simile tecnica significava porre in evidenza i fondamenti linguistici e l’alfabeto segnico che avrebbero costruito il linguaggio dell’imminente sensibilità, le cellule che avrebbero fornito il corpo della nuova pittura. E’ un punto che va ribadito a rischio di incorrere in qualche ripetizione, la Transavanguardia persegue la riqualificazione di formule espressive iconiche e dei tradizionali media tecnici. Lo fa inoltre non per amore di contrapposizione ma perché quelle tecniche sono coerenti con un ritrovato desiderio di individualità e con la ricerca espressiva di una soggettività ovviamente declinata, come si è già notato, secondo il paradigma “nomadico” o “rizomatico” di derivazione deleuziana. In effetti il disegno garantiva “la possibilità di pervenire a quel microcosmo, a quella sensibilità intima e privata che si palesa all’artista su una superficie di contenute dimensioni”. L’adozione poi dell’antichissima tecnica del disegno “è caratterizzata da un atteggiamento non restaurativo, anzi spiccatamente antiaccademico, in cui il carattere di fugace intuizione, di spontaneo spirito vitale e dionisiaco sono divenute cifre qualificanti”. In questa mostra si confrontano artisti di diversa provenienza, non può essere considerata una tappa nel cammino espositivo della Transavanguardia. Emergono poi dai disegni della ‘Mano decapitata’ altri concetti fondanti e in particolare quello dell’opera come frammento irriducibile a qualsiasi totalità e in particolare a quelle aborrite totalità rappresentate dalle ideologie politiche o dalla psicanalisi freudianamente intesa. Immagini dunque “costruite a sbalzi”, fuori da ogni prestabilita progettualità, esenti da ogni “arrogante volontà di restituire una qualsiasi visione unitaria del mondo”. Veniamo ora al problema posto dal titolo della mostra ‘La mano decapitata’. Un problema infatti perché questa metafora sembra in contraddizione con la dichiarata volontà di recuperare la manualità nell’operare artistico, più volte affermata da Bonito Oliva: “Questi artisti hanno dovuto farsi ricrescere le mani e imparare a utilizzarle”. Ne consegue che il suo senso andrebbe paradossalmente rovesciato: il taglio della mano è via per l’acquisizione di “molteplici mani” rappresentanti di una salutare volubilità e incoerenza. Con un’altra sfumatura interpretativa si può intendere la metafora come indicazione di una liberazione dai vecchi fardelli e recupero di una manualità aperta al piacere del libero gioco pulsionale e quindi liberata dal controllo razionale (de/capitata appunto). Va, tuttavia, detto che il nostro critico conclude con la cauta affermazione secondo cui “La mano decapitata continua a porsi come metafora cangiante e notturna, ambigua e sfuggente ” Avendo ampiamente utilizzato il testo di Belloni in quanto capace di cogliere con precisione il senso e il valore della mostra, mi limiterò ora ad alcuni accenni ai due contributi contenuti nel catalogo e dovuti ad Achille Bonito Oliva e W.M. Faust. L’intervento di Achille Bonito Oliva dal significativo titolo di Una nuova soggettività con ironico rovesciamento dell’etichetta della corrente avanguardista tedesca “Nuova oggettività” ripercorre concetti basilari della “non-poetica” della Transavanguardia soggettività, frantumazione, accidentalità, transitorietà, mobilità, pulsione, piacere, rifiuto di ogni blocco ideologico, compresenza di comico e drammatico. Sembra utile piuttosto che soffermarci su questi concetti citare per intero un brano in cui, applicando la sua nozione di “critica creativa”, Achille Bonito Oliva sottopone il testo a un impulso bulimico e ludico che pare rimandare a certi cataloghi joyciani è un autore del resto caro al nostro critico e da lui spesso contrapposto nel consueto gioco di antitesi al meno amato Proust. “Il disegno nei lavori di Chia, Clemente, Cucchi e Paladino è segno, frego, immagine, effigie, linea, abbozzo, arabesco, paesaggio, pianta, diagramma, profilo, silhouette, vignetta, illustrazione, figura, scorcio, stampa, spaccato, bozzetto, calco, caricatura, chiaroscuro, graffito, incisione, mappa, litografia, pastello, acquaforte, xilografia. Gli strumenti possono essere: carboncino, matita, penna, pennello, lapis, compasso, tiralinee, squadra, pantografo, regolo, riga, sfumino, stampino. Il processo può essere: arabescale, calcare, comporre, copiare, cancellare, correggere, lucidare, ricavare. Nel catalogo W. M. Faust ripropone come elemento unificante delle opere esposte il concetto di “Cifra”, nozione, come abbiamo visto, coniata dal critico per il suo intervento nel catalogo della mostra di Colonia e qui ulteriormente investigata come quel segno in cui confluisce “una forza emozionale-intellettuale che come tale non può essere né vissuta né esperita dall’osservatore”. La “Cifra” è il segno in cui si esprime “l’economia del desiderio” e il portato di un’attività estetica resa necessaria da un’impellenza quasi biologica e qui il critico tedesco convoca come garanti Deleuze, Guattari, Foucault e, per la prima volta, Lyotard il teorico della “condizione postmoderna”. Questa apertura all’ “economia del desiderio” si esplica in una pluralità nomadica degli stili che non esita a rivolgersi al patrimonio antico-museale: “il repertorio delle forme di espressione possiede una sconcertante immortalità alle forme figurative del passato si affiancano elementi figurativi dell’estetica del presente l’eclettismo è apertamente contrapposto a un concetto consunto di originalità anche il principio dell’innovazione è in larga misura abrogato”. Abrogazione dell’unità dell’opera e dell’unità del soggetto vanno di pari passo. La trasferta tedesca segna un ulteriore passo in avanti nella consapevolezza degli artisti del gruppo. La loro notorietà è in crescita, la base teorica si va ampliando e definendo mentre si sta poi compiendo l’aggancio con quelle correnti del pensiero europeo che partendo dalla rivalutazione di Nietzsche e Martin Heidegger conducono una serrata critica dello storicismo verso esiti di decostruzionismo e di pensiero debole. Si tratta di un clima generale a cui in maniera generica verrà applicata l’etichetta di “postmodernità”. Nell’ambito del postmoderno, si stabilisce un clima generale che trascina il giovane movimento verso la sua definitiva consacrazione in patria. Essa non si fa attendere e si realizza nello stesso 1980 della Biennale di Venezia. Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann curano, ai Magazzini del sale a Dorsoduro, una mostra che presenta la nuova generazione artistica sotto l’etichetta Aperto, si tratta in realtà di una sezione della mostra generale denominata L’arte negli anni ’70. Aperto abbina artisti di diverse nazionalità e si erge come un una nuova iniziativa, una sezione speciale per giovani artisti che verrà ripetuta in molte edizioni successive. Proprio in questa sezione fecero la loro apparizione alla Biennale i cinque protagonisti della Transavanguardia, Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Domenico (detto Mimmo) Paladino. Bonito Oliva sintetizza il senso dell’esposizione in un intervento pubblicato nel catalogo XXXIX Biennale di Venezia denominato curiosamente ‘Aperto ’80’ e quindi orientato verso il nuovo decennio. Nel testo il critico riconduce il senso dell’ esposizione alla concezione da lui stesso delineata nella costruzione delle teorie a sostegno della Transavanguardia. La nuova tendenza è costituita dalla produzione artistica avviata negli anni settanta che, alla soglia degli anni ottanta, si manifesta come il superamento dei procedimenti legati alla tradizione dell’avanguardia e allo sviluppo lineare da essa propugnato. Si propone invece un attraversamento incessante di attualità e inattualità, con il recupero dell’immagine secondo modalità prevalentemente metonimiche prodotte con gli strumenti tradizionali dell’arte. “Negli ultimi anni è subentrata una diversa mentalità, più legata alle emozioni intense dell’individualità e di una pittura che ritrova il suo valore all’interno dei propri procedimenti”. Bonito Oliva enfatizza l’utilizzo dell’espressione, di una vena ironica e giocosa, e infine individua nel “transavanguardismo” il carattere prevalente nella situazione italiana. Dicendo :“Il carattere antropologico dell’arte europea comporta un lavoro che non tiene conto della dimensione dell’opera, a favore di un prodotto che si dà come frammento, come sintomo di un’identità, quella dell’artista, che certamente non si lascia catturare dal linguaggio adoperato. La situazione europea trova delle differenziazioni ulteriori a seconda dell’area geografica e culturale. La situazione italiana è caratterizzata dalla “Transavanguardia” che assume l’opera come luogo della transizione, del passaggio da uno stile all’altro, senza mai fissarsi su uno schema fisso”. Da questa premessa egli instaura una decisa contrapposizione fra artisti europei e artisti americani. Se i primi, grazie al possesso di una storia dell’arte più stratificata e differenziata possono assumere verso il linguaggio “un rapporto più mobile e meno poggiante sull’identificazione”, i secondi sono caratterizzati in relazione alla loro tradizione puritana, da una Maggiore identificazione col proprio spazio operativo. A questo punto Bonito Oliva fa una diversificazione nell’arte americana e la definisce a seconda di due aree di influenza ed afferma che: “L’area americana è divisa da uno spartiacque che delimita la produzione dell’East coast da quella della West coast. L’arte californiana, aveva per molti anni prodotto lavori giocati sulla manualità e sulla plasticità, ora è rivolta prevalentemente verso la ricerca ambientale, giocata sulle istallazioni e su nuove relazioni spaziali. L’arte newyorkese ha smaltito il surplus di geometria e riduzionismo legato alle esperienze concettuale e minimal. Ora è indirizzata verso il recupero della manualità pittorica, della figurazione, della decorazione e della ripetizione ornamentale”. Come possiamo notare il critico italiano è ben informato sulle vicende artistiche di oltreoceano, il confronto di queste con l’arte europea non gli è nuovo. Nel lontano 1976 Bonito Oliva aveva scritto un saggio chiamato Europe/America, the different Avant-garde. Nel testo l’autore esaminava le ricerche artistiche europee e americane dagli anni del secondo dopoguerra fino ad arrivare a Beuys e Warhol. Si trattava allora di confrontare la creazione artistica di entrambi i continenti e ricavarne le differenze. Nella Biennale del 1980, si presentano nel padiglione americano una serie di artisti che troveremo accostati ai transavanguardisti italiani in mostre e articoli a venire sulle pagine di riviste e quotidiani specializzati. Possiamo citare Susan Rothenberg e Robert Zakanich. Inoltre c’è anche una grande retrospettiva di un importante artista pittore, Balthus. E infine nel padiglione Tedesco sono presenti Anselm Kiefer e Georg Bazelitz. Quindi le scelte espositive della mostra evidenziano l’interesse dei curatori a dare spazio a correnti pittoriche. In conclusione vorrei riassumere questo complesso concettuale in una serie di opposizioni binarie, in cui il primo termine caratterizza il clima artistico dominante negli anni sessanta e il secondo quello dominante nella seconda metà degli anni settanta per poi esplodere nella Transavanguardia. In questo percorso espositivo tante sono le personalità differenti, in dialogo fin da quegli anni fianco a fianco nelle grandi mostre internazionali; dalla Biennale di Venezia a Documenta di Kassel o in mostre che hanno segnato la storia dell’arte a partire dagli anni Settanta. Va ricordato, in questo frangente, come gli Anni Ottanta assistano alla nascita di un nuovo “sistema dell’arte” che unisce le grandi gallerie di New York, Colonia, Zurigo alle gallerie delle città italiane come Modena, Napoli, Milano o Torino in un tessuto italiano particolarmente vitale ed attivo, anche nella sua provincia. Con dei contraltari di natura trasversale, di quel milieu legato alle grandi sperimentazioni e alla cultura “altra” milanese, la mostra dà conto anche del rientro in Italia di protagonisti di quegli anni come Mimmo Rotella o Valerio Adami o di quella figura di grande intellettuale, traduttore, critico che fu Emilio Tadini. Infine penso ad Enrico Baj la mostra dedica un’intera sala costruita su quattro rari dipinti che fanno parte della collezione Intesa Sanpaolo, realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che accompagnano il visitatore in una maturazione del linguaggio pittorico e del meccanismo creativo dell’artista, per condurlo poi allo spettacolare Il mondo delle idee: una tela di 19 metri di lunghezza, dipinta a spray, quasi un graffito contemporaneo eseguito nel 1983 e oggi di sorprendente attualità. Contemporaneamente alla mostra verrà pubblicato e distribuito un numero speciale della rivista “Flash Art”, che in nuova veste riunirà articoli, interviste, documenti legati agli artisti in mostra e che restituirà la ricchezza critica di quegli anni Ottanta di cui come rivista fu uno degli strumenti fondamentali della cultura artistica italiana ed internazionale. Il percorso espositivo comprende una cinquantina di opere di Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino. Dipinti e sculture selezionate che offrono un’ampia testimonianza delle ricerche condotte negli anni Ottanta, in piena Transavanguardia, includendo inoltre realizzazioni più recenti, che attualizzano, senza smentirle, le basi del movimento, gettate da Achille Bonito Oliva quasi mezzo secolo fa.
Principio cardine che collega le opere in mostra è il primato della soggettività dell’artista, che attua una ricerca individuale e libera. Ad unire gli autori in mostra, differenti per esperienze e linguaggio, è il desiderio di riportare l’opera d’arte alla sua centralità, riscoprendo il piacere di essere artisti, in opposizione a un’arte fortemente ideologizzata e politica. Avvalendosi di mezzi tradizionali e tornando alla figurazione, intesa come segno e colore, gli artisti giungono ad una nuova forma di espressione, il cui nucleo non è logico e razionale, ma poetico ed evocativo. La Repubblica di San Marino è storicamente legata allo sviluppo della Transavanguardia e ritrova nel suo territorio innumerevoli impronte di un passaggio fondamentale per la storia dell’arte. Già nel 1982 San Marino dedicò al movimento, che si stava diffondendo anche nel resto d’Europa, un’esposizione con catalogo a firma di Achille Bonito Oliva, dal titolo La Transavanguardia tedesca. La Prima Bella Mostra Italiana di Sandro Chia ed Enzo Cucchi, inaugurata a San Marino nel 1996, ne è stata poi l’ideale continuazione. A testimonianza di queste importanti esperienze, nella Repubblica del Titano rimangono oggi due opere fondamentali: il dipinto Prima Bella Mostra Italiana (1995), realizzato a quattro mani da Chia e Cucchi e conservato presso la Galleria Nazionale, e l’opera Scala Santa (1987), dipinta ad encausto da Enzo Cucchi su una parete della Cappella della Scala Santa presso il Monastero di Santa Chiara.
Palazzo SUMS Repubblica di San Marino
Transavanguardia. La vitalità del contemporaneo
dal 2 Giugno 2024 al 22 Settembre 2024
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