Giovanni Cardone
Fino al 30 Giugno 2024 si potrà ammirare a Palazzo delle Paure Lecco la mostra Informale. La pittura italiana degli anni Cinquanta a cura di Simona Bartolena . Il ciclo espositivo diPercorsi nel Novecento, programma ideato dalla Direzione del Sistema Museale Urbano Lecchese e affidato per la sua progettazione e realizzazione a ViDi Cultural che, fino a novembre 2024, analizza la scena culturale italiana del XX secolo. L’esposizione è prodotta e realizzata da ViDi cultural, in collaborazione con il Comune di Lecco e il Sistema Museale Urbano Lecchese, travel partner Trenord, presenta più di 60 opere di artisti quali Afro, Tancredi, Chighine, Fontana, Moreni, Burri, Morlotti e molti altri la cui cifra espressiva ruota attorno al segno, alla materia, al colore, al gesto. In una mia ricerca storiografia e scientifica sull’Informale in Italia e la Pittura degli anni cinquanta apro il mia saggio dicendo : Posso affermare che con il termine onnicomprensivo di ‘Informale’ tutta una serie di esperinze verificatesi negli Stati Uniti e in Europa tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni sessanta. E’evidente che, nello spazio di tempo di un quindicennio, in una situazione tanto articolata e vasta quanto quella intercontinentale presa in esame, non ha quasi senso parlare di ‘un’ solo ‘movimento artistico’; ed evidente che le sfaccettature sono tante e molteplici da risultare in alcuni casi incomprensibili tra loro. Dobbiamo pensare che in questo periodo vennero battezzate numerose etichette che solo oggi comprendiamo lo stesso termine: Action Painting e Abstract Expressionism in America , ovvero: ‘Pittura Materica o gestuale’ in Italia ‘Tachisme’ in Francia ecc…E’ ovvio in questo senso, che non solo il termine ‘Informale’, come verrà qui usato, ha un suo valore ‘riassuntivo’ rispetto a queste esperienze diverse limitiamoci per ora a constatare delle differenze che sono solo fondamentalmente di orientamento e di scelta puramente formale dividendo tra gestuale, materica e segnica. Possiamo dire che l’Informale risolve il suo approccio all’arte apparentemente in modo formale con un ritorno al quadro, alla pittura, e alla scultura. Questo ritorno alla pittura consiste quindi nel coprire la superficie della tela con materie colorate questa distinzione tradizionale tra fondo e figura e tra forma e spazio che era sopravvissuta in linea di massima in ogni caso tutto è cambiato c’è quasi un’aggressione al quadro ed inoltre la pittura ‘veloce’ come l’informale richiedeva una trasformazione tra ‘forma e dinamica’ tutto diviene un movimento tralasciando la staticità che c’era nella tradizione astratta. La pittura è un’attività ‘autografica’, quindi quasi una ‘scrittura’, privata del pittore, determinata nel tempo ( che coincide col tempo, in genere veloce, di esecuzione del quadro ), una pulsione interna che viene espressa attraverso il gesto oppure attraverso una sequenza di gesti. Alla base c’è il gesto questa è la novità della nuova ‘pittura’, che si unisce al concetto di ‘improvvisazione’ come avviene anche nella musica ‘jazz’. Poiché la superficie del dipinto si presenta come un insieme in cui non sono realmente distinguibili figura e sfondo, il disegno, quando compare, non si presenta come contorno di una campitura ben delineata, ma come ‘struttura di segni’, che innerva la superficie del dipinto, così come il colore non riempie nessuna forma,ma si contrappone liberamente ad altri colori, facendosi esso stesso disegno,‘figura’, o superficie, o tutte e tre le cose contemporaneamente. In effetti tutti i residui di illusionismo spaziale che è dato di cogliere sono dovuti alla libera contrapposizione dei colori tra loro. Dato che la superficie è alla base del nuovo percorso comunicativo dell’artista e nel contempo si denota una differenza tra l’astrazione e la pittura informale alla base, c’è un linguaggio lirico di ascendenza espressionista. In Italia per la maggioranza degli artisti , l’Astrazione e l’Informale sono punti di arrivo , dopo un tentativo di percorrere a tappe forzate un percorso di aggiornamento, altrove più scontato, attraverso una figurazione neocubista o picassiana , e una fase di iniziazione -sperimentazione su nuovi materiali della pittura, spesso basata su suggerimenti provenienti dalla Francia o dall’America .
Questo premessa non deve tuttavia far pensare a una situazione povera e provinciale. In effetti l’Italia vive, nell’immediato dopoguerra, un’intensa stagione creativa, che la porta in pochi anni a un dialogo intenso e alla pari con altri paesi europei. Come si è detto, molti dei futuri pittorici informali attraversano, durante e subito dopo la guerra, una fase figurativa : alcuni come Morlotti, non la lasceranno mai, dando vita a un curioso ‘linguaggio ibrido’. Artisti provenienti dal clima della scuola romana, come Afro e gli scultori Leoncillo e Mirko che era il fratello di Afro, dopo una fase ‘figurativa e neocubista’ , affogheranno sempre più le loro suggestioni figurative in linguaggio astratto e, in seguito, informale, che tocca il suo apice creativo tra la metà degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta . Artisti origine o formazione veneziana, come Vedova o Turcato daranno una visione nuova all’informale in Italia. Lo stesso succederà in seguito con Lucio Fontana con i suoi concetti spaziali e Alberto Burri che nella sua arte la materia diviene la sua pittura. Posso affermare che la sua pittura di Afro e in particolar modo quella giovanile fu tutta spesa in affreschi e in composizioni a tempera, da cavalletto: sui muri, scene ispirate a miti o a temi di fantasia; su tavola, gli stessi temi o, per lo più, paesaggi e ritratti, dei quali fece un’esposizione alla Galleria della Cometa nel 1936. In tali dipinti colore e disegno si compiacevano a vicenda con una libera espansione di mezzi e insieme con una serrata fuga coloristica, che denunciavano del pittore interessi immediati e per lui indiscutibili; direi di quantità d’estro, tutti giocati nelle architetture, negli spazi che le figure traevano da quelle architetture. Il pittore vi arrischiava le vicinanze più disparate: Tintoretto, Veronese, Magnasco e certi capricciosi minori della sua patria friulana, che genialmente riassunti sortivano effetti di calligrafia barocca, assolutamente personali. Era una concertazione liberissima, ampiamente riuscita per una capacità del suo istinto che andava ormai allenandosi sulla via del carattere. Con queste affermazioni precise e calibrate, il poeta e animatore culturale Libero de Libero ricordava, molti anni dopo la sua conclusione, il periodo più fecondo dell’attività decorativa di Afro, tutta compressa tra la seconda metà degli anni Trenta e l’inizio del decennio successivo. Dal 1936, l’anno delle pitture murali realizzate per l’atrio d’ingresso del collegio dell’Opera Nazionale Balilla a Udine tale attività si sviluppava attraverso gli interventi di Casa Cavazzini a Udine, dell’Albergo delle Rose e della Villa del Profeta a Rodi nel 1938 per giungere ai lavori, purtroppo mai eseguiti, progettati per il complesso architettonico dell’E 42 a Roma. Si tratta di pochi episodi, ma particolarmente significativi, che traducono nella dimensione individuale del fare artistico da un lato il dibattito teorico in corso nell’Italia di quegli anni sul rapporto tra l’architettura e la pittura murale e il nuovo ruolo sociale che quest’ultima andava acquisendo, dall’altro permettono di registrare i passaggi salienti di un’evoluzione personale che riguardò il linguaggio pittorico di Afro in quel periodo di intensa concentrazione creativa. Le esperienze a cui ci si riferisce, furono sviluppate a livello regionale e non solo ma mostrano di incardinarsi strettamente con quanto andava avvenendo nel teatro assai più vasto dell’arte italiana dell’epoca, ancora alla ricerca di un linguaggio unitariamente rappresentativo dell’identità nazionale. Nella prospettiva indicata, riconsiderare la decorazione murale di Afro significa sostanzialmente passare da una rilettura neoquattrocentesca del “primordio” inteso nell’accezione di Corrado Cagli, per giungere all’elaborazione di un linguaggio originale modulato sulla rimeditazione dei testi pittorici sei e settecenteschi, veneti in particolare. Nell’arco cronologico rappresentato dagli anni Trenta, segnato dal trasferimento a Roma, dalla frequentazione degli ambienti legati alla Scuola di via Cavour prima e alla cosiddetta Scuola Romana poi, nonché dai viaggi a Milano e dai continui e reiterati rapporti con la provincia udinese, si assiste nel pittore di origini friulane alla maturazione di modalità artistiche nuove. Esse paiono debitrici tanto allo studio dei modelli quattrocenteschi quanto all’adesione al tonalismo di matrice romana per attestarsi infine sul confronto con i grandi maestri antichi da El Greco, a Rubens e Rembrandt, per non parlare di Veronese, Tintoretto e Tiepolo. Un filo rosso ininterrotto collega, dunque, le tempere dell’atrio d’ingresso nel collegio dell’ONB, solo parzialmente esistenti e frutto di un recupero risalente al 1989, alle altre ancora perfettamente conservate e oggi inserite nel percorso espositivo del nuovo museo di arte moderna e contemporanea cittadino, ospitato stabilmente a Casa Cavazzini dall’ottobre del 2012 . Nel breve volgere di tempo tra il 1936 e il 1938, Afro porta a maturazione il suo originale stile pittorico, nutrito delle esperienze più diverse e tutto orchestrato sul libero armonizzarsi del colore lasciato fluire sulle superfici a ricomporre i temi di un racconto che, solamente nel corso degli anni Quaranta, diverrà superfluo alle esigenze espressive dell’artista. Esulano da questo tracciato evolutivo solo le progettate decorazioni per il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi del mai realizzato complesso architettonico dell’E 42 a Roma. Pensate nei minimi dettagli sin dal 1939, queste ornamentazioni furono soggette a tante e tali pressioni e richieste della committenza governativa da apparire, nei risultati finali oggi documentati dai bozzetti, dai modelli e dalle foto d’epoca esistenti del tutto snaturate rispetto alla più genuina vena creativa di Afro. Esse, infatti, subirono nel corso del tempo, dal momento in cui l’incarico fu assegnato all’artista fino alla preparazione dei cartoni che precedono la realizzazione dell’opera, un processo di normalizzazione stilistica che si desidera focalizzare nel presente intervento con il ricorso a nuovo materiale documentario rintracciato in occasione di una recente mostra . Gli antefatti di questi pur importantissimi interventi rimasti allo stato progettuale, devono dunque essere individuati nei lavori di pittura murale già menzionati in precedenza e che si inquadrano nel contesto raccolto intorno alla VI Triennale di Milano del 1936 e al VI Convegno Volta, tenutosi a Roma in Campidoglio nell’ottobre dello stesso anno . Intorno ai due distinti eventi si era sviluppato il dibattito relativo ai rapporti tra pittura murale e architettura con una accentuazione, da parte del governo fascista, dell’attenzione rivolta alla decorazione monumentale, intesa sempre più come un veicolo privilegiato di propaganda. A tutte queste discussioni era seguita un’impennata retorica dei contenuti e dello stile che si attestò sul recupero di elementi fortemente realistici, uniti a una componente simbolica delle forme, funzionale alla dittatura e ai suoi scopi promozionali. Fu questa fase del dibattito e i suoi riverberi nella lontana provincia a consigliare, in ambito locale, la cancellazione dei lavori portati a termine da Afro presso l’edificio dell’ONB a Udine. Nel loro complesso le tempere, distrutte nel 1938, documentavano la piena fascinazione dell’artista per la pittura dell’amico Cagli, aiutato e affiancato nel portare a compimento imprese importanti tra cui quella dei pannelli decorativi per il Padiglione italiano alla Esposizione Universale di Parigi del 1937 . A testimoniare la fervente ammirazione di Afro per il pittore marchigiano interveniva la mostra che, nell’aprile di quello stesso anno, il giovane artista friulano aveva allestito alla Galleria della Cometa a Roma, presentato personalmente da Libero de Libero . Molteplici furono i commenti a questa personale che includeva, tra gli altri, il dipinto raffigurante il Ritratto di Aldo Merlo del 1937. Tra apprezzamenti e note d’interesse, l’esposizione fu accolta anche da qualche critica focalizzata soprattutto sull’influenza cagliesca che taluni intesero preponderante nei saggi pittorici di Afro, a scapito della sua autonomia creativa.
A rispondere, tra gli altri, a queste osservazioni non troppo benevole era Luigi Aversano che dalle pagine de “La Panarie” annotava: “Qualche reminiscenza cagliesca in questa ben selezionata raccolta, si può riscontrare ancora in qualche composizione di soggetti; ma è reminiscenza di gusto: ché la pittura, la materia sonora trasparente viva, è ben sua” . A fronte di questi rilievi su cui probabilmente Afro ebbe modo di riflettere, la sua pittura cominciò ad arricchirsi di echi diversi e ad irrobustire la sua vena storicistica tornando a riflettere sui testi pittorici della sua formazione veneziana con un’attenzione particolare per il manierismo e il barocco tra Tintoretto e Veronese, non senza palesi richiami a Tiepolo. Ma non solo. È in questo momento che egli tornò a servirsi del disegno come strumento d’indagine e di ricerca, mentre la sua biblioteca cresceva con l’acquisto di volumi che rivelavano il suo rinnovato interesse per artisti come Velazquez, Rubens, Rembrandt, per non parlare di El Greco, già acquisito quale modello pittorico nel più recente passato, ma che si prestava ora a più approfondite meditazioni formali .
Risalgono a questo periodo una serie di disegni e di piccoli dipinti che si qualificano come copie di questi antichi maestri o elaborazioni formali sulla scorta di quegli stessi exempla. Le fonti sono tutte libresche e facilmente rintracciabili tra i volumi ancora facenti parte della sua biblioteca: sugli scaffali trovavano posto, ad esempio, la monografia dedicata a Velazquez da G. Rouches nel 1935 e quella di J. Allende Salazar edita in Germania nel 1925, ma che una nota ci dice acquistata nel 1937; su El Greco Afro possedeva il volume di L. Goldscheiber del 1938, su Tiziano la monografia del Suida risalente al 19369 . Gli effetti di questi studi e di questi nuovi rovelli espressivi non si tradussero subito in immagini, ma continuarono ad agire in maniera sotterranea, rispuntando qua e là, inaspettatamente nelle occasioni più diverse. Se dei lavori compiuti nella Centrale Idroelettrica di Salisano non rimane più traccia e quindi è impossibile esprimere un giudizio sulla loro veste compositiva, i pannelli realizzati per il Carcere minorile di Roma, noti solo da alcune foto d’epoca, esibiscono ancora influssi caglieschi, benché temperati da una tavolozza più ricca e densa di impasti cromatici. Completamente rinnovati, invece, dovevano presentarsi i pannelli murali esposti alla Mostra autarchica del Minerale Italiano nel 1938. Tale inversione di tendenza, che non raccoglieva il consenso di tutti, fu segnalata con toni entusiastici da Cesare Brandi che in un articolo dedicato ad alcuni giovani artisti tra cui compariva Afro, del suo dipinto raffigurante i minatori in una miniera di carbone scriveva di “un filone abbandonato e solenne della tradizione veneta quella che si onora dei nomi di Tintoretto e di Bassano; chi l’ha vista, quella tempera violenta e abbondante, deve per forza accorgersi che, non fosse altro, è roba di casa nostra. E deve anche accorgersi che non risulta da una detrazione museografica, ma da un continuo e nuovo documentarsi, da una riassunzione libera e disincagliata, da una padronanza di mezzi che non è affatto facilità”. Nel fare riferimento a Tintoretto e a Bassano il critico coglieva acutamente le nuove fonti d’ispirazione a cui il pittore friulano mostrava di guardare, ricollegandosi a quella che era stata la sua formazione veneziana degli anni giovanili. Per quanto in questa fase della sua pittura ed è ancora il commento di Brandi Afro dimostrasse di aver rinnegato gli iniziali richiami a Giotto, Paolo Uccello e Mantegna che pur avevano contraddistinto il periodo precedente, la rielaborazione della tradizione del passato rimaneva assolutamente valida anche se usciva dai canoni indicati dal più avveduto filone della critica novecentista. Ma è nella dimensione privata e familiare delle tempere murali per Dante Cavazzini che Afro portò a piena maturazione la svolta stilistica già segnalata. Nella primavera del 1938, il giovane artista fu chiamato a intervenire sulle pareti dell’appartamento padronale che il commerciante udinese aveva appena fatto ristrutturare da Ermes Midena. In questo caso il tema è ispirato alla vita in campagna e in città, tra attività quotidiane e stagionali, giochi e momenti di svago. A dominare, qui, è la pittura nel senso più profondo del termine, una pittura tutta rielaborata sul rapporto con la tradizione del passato, veneziana essenzialmente, che rintraccia i proprio punti di riferimento tra Veronese e Tiepolo. A rilevarlo per primo fu Licio Damiani che scrivendo di questo ciclo decorativo ne sottolineava appunto la matrice “veronesiana e tiepolesca” sulla quale “si modella il ritorno idealizzato e idilliaco alla vita campestre friulana. È un ritorno, se si vuole, intellettuale, compiaciuto delle citazioni erudite e di un lessico che ama la rarità e i preziosismi, ma motivato da un sentimento che è di panica gioiosità, in cui è la stessa storia della pittura a diventare oggetto di poesia”. Come già era avvenuto nei lavori per il Collegio dell’ONB qualche anno prima, Afro affrontò la composizione a parete senza progettarla in anticipo, ma tracciando veloci e sommarie sinopie immediatamente sotto la superficie cromatica e procedendo poi speditamente a stendere, in pennellate fratte e ravvicinate, la sontuosa materia pittorica intrisa di luce e di aria. Analoghe influenze storicistiche si evidenziano nei dipinti che Afro lasciò nell’Albergo delle Rose e nella Villa del Profeta a Rodi, risalenti all’estate del 1938. A segnalare il nome dell’artista era stato Cesare Brandi in virtù del suo ruolo e dei suoi rapporti con la Soprintendenza all’arte dell’isola. Sui pannelli di cui si compongono i due distinti cicli decorativi, Afro dispiegava il racconto di un tempo mitico e attuale insieme, vivificato dalla stessa opulenza cromatica che aveva contraddistinto già l’intervento a Casa Cavazzini. Nelle decorazioni della Villa del Profeta, scene di vita campestre si alternavano a rievocazioni bibliche con incursioni nel mondo mitologico legato all’antichità classica. Nel frattempo a chiudere l’esperienza muralista era intervenuto l’episodio legato alla realizzazione, mai portata a compimento, del complesso architettonico dell’E 42 a Roma. Di quell’impresa, distinta in fasi diverse, ci rimangono oggi alcuni bozzetti e un modello che costituiscono un importante arricchimento alla storia di quelle decorazioni mai realizzate. Insieme alle foto d’epoca degli ultimi modelli è possibile ricostruire le vicende di quella sfortunata impresa, partita nel 1939, con l’assegnazione ad Afro di un incarico che nel tempo si tramutò nella richiesta di un grande mosaico raffigurante le Attività umane e sociali per l’Atrio posteriore del Palazzo dei Congressi. La vicenda costituisce, nel suo insieme, un addendum importante benché virtuale al catalogo di Afro e rappresenta, al contempo, un’occasione mancata che avrebbe potuto avere sviluppi inaspettati anche sull’evoluzione personale dell’artista. Nel 1939, dunque, Afro eseguì una serie di bozzetti finalizzati alla decorazione dell’Atrio dei Ricevimenti, nel Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi del futuro e mai portato a termine complesso dell’E 42 a Roma. A darne notizia ufficiale fu un periodico udinese che, commentando il primo premio del concorso “Si fondano le città” assegnato proprio al pittore friulano, sottolineava le rare capacità pittoriche di quest’ultimo a cui era stato affidato “proprio in questi giorni di illustrare un grande portico in un edificio della E 42”. La notizia risale alla primavera del 1939 e permette di collocare cronologicamente i primi contatti tra Afro e Cipriano Efisio Oppo che, in tempi abbastanza precoci, avrebbe richiesto all’artista una prima idea per la serie di affreschi destinati agli ambienti di rappresentanza di uno dei più importanti edifici del complesso architettonico all’Eur. La commissione, che giungeva senza l’effettuazione di alcun concorso si basava sui rapporti personali tra i due, rapporti mediati verosimilmente dal fratello di Afro, Mirko. A testimoniare di questa prima fase dell’impegno, intervengono tre bozzetti interpretabili come rappresentazioni di fasi diverse della Civiltà di Roma (collezione privata). Nel loro complesso le tre opere documentano il passaggio stilistico che interessò la pittura di Afro in quel torno di anni in cui superato il richiamo al primordio egli si volse progressivamente al filtro museale costituito dal repertorio cinque e seicentesco, non solo veneto. Queste proposte, però, non dovettero essere accolte con favore per il loro carattere scarsamente retorico e celebrativo. I documenti conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato e pubblicati da Simonetta Lux nel 1987 hanno permesso di dimostrare che il ciclo di affreschi fu infine affidato ad Achille Funi, mentre Afro fu incaricato della realizzazione di un grande mosaico per l’Atrio posteriore del Palazzo dei Congressi. Le ornamentazioni avrebbero dovuto comporsi di una serie di figure allegoriche in riferimento alle attività umane e sociali. Anche in questo caso l’incarico giunse all’artista friulano sulla base di rapporti personali e implicò nuovi contatti che risalgono certamente alla fine del 1940 quando egli eseguì un bozzetto sul tema assegnatogli. Fino a questo momento la concezione compositiva di tale lavoro era conosciuta soltanto da alcune foto della piccola tavola conservate presso il fondo relativo all’E 42, esistente presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e rese note da Simonetta Lux nel contributo già citato. Alle immagini d’epoca si può oggi affiancare l’originale modelletto dipinto da Afro in quella circostanza, opera conservata in una collezione privata. La piccola tavola, che aggiunge un tassello importante all’attività murale e monumentale di Afro al principio degli anni Quaranta, rispetta fedelmente quello che era il dettato dello “schema per le decorazioni ad affresco” datato 11 ottobre 1940 a firma dell’architetto Adalberto Libera. Secondo le indicazioni, il disporsi sequenziale delle figure doveva avere al ““centro filosofia ed arte = civiltà (raziocinio ed istinto) Uomo Donna (numero e amore = universo (Pitagora)” e come nucleo della scena centrale una “fiamma della civiltà”; la sequenza delle allegorie da rappresentarsi è la seguente: eroismo; scena costeggiante il riquadro della porta sulla scala, con “canto”, “teatro”, “poesia”, “danza”; stampa, navigazione, industria, lavoro, commercio, diritto, astronomia, geografia, fisica, matematica, filosofia e, simmetricamente dall’altro lato: arte, genio inventivo, chimica, storia, medicina, ordinas, religione, artigianato, agricoltura, scienze naturali, scolastica e intorno all’altro riquadro della porta scala architettura, scultura, cinematografia, pittura; nell’ultimo riquadro a destra virtù familiari”. Come evidenzia il confronto fra bozzetto e testo scritto, Afro si attenne scupolosamente alle prescrizioni anche se le foto conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato mostrano una versione ancora diversa della composizione, frutto forse di un fotomontaggio di altre tre scene allegoriche che furono poi eliminate. In apertura a sinistra, compare l’episodio dedicato all’eroismo, figurato iconograficamente con la citazione di Davide che sta per mozzare la testa del gigante Golia, episodio già inserito nelle decorazioni di Casa Cavazzini anche se con toni completamente differenti. A seguire compaiono tutte le allegorie richieste, mentre a chiusura, nell’immagine riferita alle virtù familiari, Afro riprende la scena della filatrice già dipinta a Udine nella sala da pranzo di Casa Cavazzini. Rispetto ai primi tre bozzetti presentati per l’Atrio dei Ricevimenti, la pittura dell’artista sembra dismettere i toni rubensiani e tintoretteschi per schiarire la tavolozza e inondarla della luce argentea che pervade di sé la scena di Si fondano le città del 1939. Le figure che precedentemente sembravano quasi perdere consistenza nel colore, si ricompongono pur continuando a mantenere riferimenti barocchi nel modo di atteggiarsi. Il senso di movimento presente nei primi modelli si raffredda qui nel dispiegarsi paratattico delle figure, con una accentuazione ben evidente del loro significato didascalico. La tavola raffigurante Il Commercio sotto le spoglie del dio Mercurio fa parte del medesimo ciclo decorativo e costituisce il modello in scala di una delle figure allegoriche inserite nella serie delle Attività umane e sociali. Essa ripropone, con buona approssimazione, la stessa allegoria del bozzetto di collezione privata con minime varianti nella posa della figura e nella foggia dell’elmo alato. Come il Mercurio di più piccole dimensioni, il soggetto di questo dipinto sta versando denaro da una cornucopia sopra la silohouette di una città che non è possibile identificare. Sulla base di questi rilievi, si può ipotizzare che il modello appartenga alla fase intermedia dei lavori commissionati ad Afro nel 1940, datazione questa che appare plausibile anche per la tavola in questione. Il contratto per la realizzazione delle decorazioni fu sottoscritto da Afro il 17 giugno 1941; con esso il pittore si impegnava a seguire la direzione e a consegnare bozzetti e cartoni per l’esecuzione di un grande mosaico policromo raffigurante appunto le Attività umane e sociali che avrebbe avuto le ragguardevoli dimensioni di 73×8,35 metri. Stando ai documenti, Afro consegnò regolarmente tutti i materiali richiesti in via preliminare, ma l’esito finale di quel processo creativo doveva risultare ancora diverso rispetto a quanto inizialmente prospettato. In un promemoria datato 20 maggio 1942, infatti, Adalberto Libera avanzava alcune osservazioni sul progetto decorativo di Afro, riflessioni che dovettero avere un peso sulla successiva elaborazione degli ultimi bozzetti, individuabili con i tre oggi conservati presso l’Ente Eur a Roma. Questa ulteriore fase esecutiva rimane documentata anche in una serie di fotografie d’epoca che ci mostrano i modelli in scala presentati in dirittura finale. Il risultato è un ridimensionamento complessivo del progetto e un mutamento dello stile che appare ora molto più sintetico, mentre alcune figure allegoriche sono completamente cambiate: Davide è ora raffigurato con la testa mozza di Golia in una mano, la spada sguainata nell’altra e un’espressione del viso sovranamente indifferente alla grande impresa compiuta: un’immagine ben diversa da quella inserita nel contesto decorativo di Casa Cavazzini a Udine solo qualche anno prima, trionfante di virile eroicità. Le Virtù famigliari, dal canto loro, si sono trasformate in una matrona romana con il fuso in mano e il figlio accanto: un velo di banalizzazione sembra essere calato sulle allegorie, allineate come diligenti scolaretti a esibire gli attributi da cui appaiono identificate. Sulla rappresentazione originaria, testimoniata dal bozzetto di collezione privata, sembra essere intervenuta una normalizzazione visiva, un processo di sintesi formale che rende la teoria di figure simile a un corteo paleocristiano. In effetti l’iconografia dell’opera attinge a piene mani al repertorio romano e tardo-antico e come è stato giustamente sottolineato da Simonetta Lux il complesso decorativo rimanda all’esempio delle pitture della Villa dei Misteri a Pompei. Evidentemente i condizionamenti imposti dalla committenza e dall’architetto Libera influirono pesantemente sull’operato di Afro e coincisero, fatalmente, con la crisi che egli stava affrontando in quel preciso momento del suo percorso artistico. Negli anni tra il 1938 e il 1941, infatti, il pittore andava ormai orientando il suo linguaggio espressivo in direzione dell’antica matrice veneta risalente agli anni della sua formazione, ma la veste iconografica degli ultimi modelli presentati alla committenza palesano tutt’altri riferimenti stilistici rendendone i risultati figurativi completamente eccentrici nella produzione di Afro in quel periodo. La divergenza stilistica che allontana il primo pensiero per queste opere dall’esecuzione dei modelli che avrebbero dovuto essere utilizzati per l’ingrandimento della composizione sulla parete non è assolutamente ricomponibile in unità e si spiega solo con le enormi pressioni subite da Afro nel corso della vicenda. L’imbambolata fissità delle figure allegoriche che avrebbero dovuto essere tradotte infine in mosaico non ha nulla in comune con le stesse allegorie pensate da Afro pochi anni prima con diversa freschezza e libertà creativa nel bozzetto di piccole dimensioni qui presentato, segno che l’imposizione della “ragion di stato” fascista aveva compiuto il suo corso. Muovendosi attraverso nuclei originali di ricerca, il percorso inizia con i primi disegni di Afro, appartenenti agli inizi degli anni Trenta, e ispirati a Rubens, El Greco, Velázquez, e con le sue pitture d’esordio, tra queste il Cristo morto da Mantegna, una delle opere provenienti da Casa Cavazzini di Udine (che conserva inoltre un importante ciclo di affreschi di Afro). Particolarmente coinvolgente e scenografica la sezione in mostra che approfondisce l’intervento di Afro per i lavori dell’Eur a Roma, anche attraverso video, documenti, fotografie e riviste. Tra i prestiti dell’Archivio Centrale dello Stato e di EurS.p.A. i grandi cartoni preparatori (di altezza 6 metri ciascuno), rappresentanti le Scienze e le Arti, insieme al prezioso bozzetto preparatorio per Le attività umane e sociali, risalgono la genesi dell’opera che era stata progettata dall’artista per il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi del complesso architettonico dell’E42 di Roma. I cartoni preparatori in mostra, grazie al contributo di Magonza, con la Galleria dello Scudo di Verona, sono stati oggetto di restauro. Di rilievo internazionale la presenza inoltre dei dipinti, tra cui il Ciclo delle Stagioni, che arrivano, dal Comune di Rodi, e che saranno esposti per la prima volta in assoluto, grazie anche all’intercessione dell’Ambasciata d’Italia ad Atene. Afro si recò nell’isola di Rodi con Cesare Brandi nel 1938 e lì realizzò due cicli decorativi tematicamente differenti ma stilisticamente affini, presso la Villa del Profeta e il Grande Albergo delle Rose. Il passaggio al linguaggio astratto e informale di Afro è testimoniato dalla Fondazione Archivio Afro che, attraverso il prestito di opere, bozzetti e documenti, permetterà anche di ricostruire nella parte finale della mostra la vicenda legata alla realizzazione del grande murales dipinto da Afro per la sede dell’UNESCOa Parigi nel 1958, il quale sancisce, in relazione alle altre opere in esposizione, una nuova stagione della ricerca artistica del pittore, che si svilupperà tra gli anni Cinquanta e Settanta. Mentre Lucio Fontana nasce a Rosario di Santa Fé. Il padre Luigi, italiano, in Argentina da una decina d’anni, è scultore e la madre, Lucia Bottino, di origine italiana, è attrice di teatro. A sei anni si stabilisce con la famiglia a Milano, dove, nel 1914, incomincia gli studi alla Scuola dei maestri edili dell’Istituto Tecnico ‘Carlo Cattaneo’. Interrompe gli studi e parte per il fronte come volontario, ma la sua guerra dura poco: viene ferito e presto giungono il congedo ed una medaglia al valor militare. Nel 1927 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera e segue i corsi di Adolfo Wildt. È di questi anni il suo esordio come scultore originale: ‘Melodías’ (1925) ‘Maternidad’(1926), monumento a Juana Blanco a Rosario(1927). Nonostante la lontananza, continua a mantenere intensi contatti con il Sudamerica, dove effettua frequenti viaggi e dove apre uno studio di scultura. Si diploma all’Accademia di Brera nel 1930, e comincia a partecipare regolarmente alle esposizioni, continuando però a realizzare sculture di concezione commerciale. Realizza monumenti funerari e commemorativi.
Stringe rapporti con il gruppo degli architetti razionalisti, collaborando ai loro progetti con sculture e rilievi. Un’attività che porterà avanti per buona parte della sua vita. Nel 1934 Fontana entra in contatto con l’ambiente dell’astrattismo lombardo legati alla galleria milanese ‘Il Milione’. L’anno dopo, si lega al gruppo parigino ‘Abstraction-Création’. Alterna opere astratte, come le tavolette graffite o le sculture in ferro filiformi, con le ceramiche ‘barocche’, che realizza presso le fornaci di Albisola e Sèvres. Nel 1939 prende parte alla ‘Seconda mostra di Corrente’. Lucio Fontana torna a Buenos Aires nel 1940, dove frequenta i gruppi d’avanguardia e partecipa alla stesura del ‘Manifesto Blanco’ del 1946, che segna la nascita dello ‘Spazialismo’. Nel 1946 è di nuovo in Italia. Qui riunisce subito attorno a sé numerosi artisti e pubblica il ‘Primo Manifesto dello Spazialismo’. Riprende l’attività di ceramista ad Albisola e la collaborazione con gli architetti. Il 1948 vede l’uscita del ‘Secondo Manifesto dello Spazialismo’. Nel 1949 espone alla Galleria del Naviglio ‘L’ambiente spaziale a luce nera’ suscitando al tempo stesso grande entusiasmo e scalpore. Nello stesso anno nasce la sua invenzione più originale quando, forse spinto dalla sua origine di scultore, alla ricerca di una terza dimensione realizza i primi quadri forando le tele. Nel 1950 esce il ‘Terzo manifesto spaziale’. L’anno successivo alla IXº Triennale, dove per primo usa il neon come forma d’arte, legge il suo ‘Manifesto tecnico dello Spazialismo’. Partecipa poi al concorso indetto per la ‘Quinta Porta del Duomo di Milano’ vincendolo ex-aequo con Minguzzi nel 1952. Firma poi con altri artisti il ‘Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione’, ed espone in modo compiuto le sue opere spaziali alla ‘Galleria del Naviglio di Milano’. Scatenando di nuovo entusiasmo e sgomento, oltre a forarle, Fontana dipinge ora le tele, vi applica colore, inchiostri, pastelli, collages, payettes, gesso, sabbia, frammenti di vetro. E’ ormai noto e apprezzato anche all’estero. Passa poi alle tele dipinte all’anilina e alle sculture spaziali su gambo. Sul finire del 1958 realizza le prime opere con i ‘tagli’, che riproporrà nel 1959 su tela, con il titolo ‘Concetto spaziale’. Del 1959 sono anche le sculture in bronzo ‘Natura’. Nel 1960, parallelamente alle tele con i tagli, avvia il ciclo di tele con i cosiddetti ‘Crateri’, squarci prodotti nella tela, spalmata di colore ad olio. Nel 1962 è la volta dei ‘Metalli’, lastre di ottone o acciaio squarciate. Nel 1963 appare la notissima serie della ‘Fine di Dio’, grandi tele ovali verticali monocrome, recanti squarci. Nel 1964 è la volta dei cosiddetti ‘Teatrini’, tele con buchi, incorniciate da bordi sagomati in legno che simulano una quinta teatrale. Rientrano nell’intensa attività espositiva di questi anni, la retrospettiva del Walker Art Center di Minneapolis e il Gran Premio per la pittura della Biennale di Venezia, entrambi del 1966. Dell’anno seguente sono le ‘Ellissi’, le sculture in metallo verniciato e le scenografie del Ritratto di Don Chisciotte per la Scala di Milano. Poco dopo essersi trasferito a Comabbio, in provincia di Varese, dove restaura la vecchia casa di famiglia e installa il suo nuovo studio, Lucio Fontana muore il 7 settembre 1968. Mentre Emilio Vedova proviene da una famiglia operaia e si forma come pittore prevalentemente autodidatta. Tenta svariati mestieri: in fabbrica, presso un fotografo, da un restauratore. A metà degli anni Trenta inizia a disegnare e a dipingere con grande intensità, privilegiando, come soggetti, prospettive, architetture, figure e molti autoritratti. Nel 1936-37 è ospite di uno zio a Roma dove frequenta la ‘Scuola Libera di Nudo’ di Amedeo Bocchi, quindi trascorre un periodo a Firenze frequentando con poca assiduità una scuola libera. Nel 1942 espone tre quadri al Premio Bergamo e aderisce al gruppo milanese ‘Corrente’. Il movimento di Corrente si preparò tra 1934 e 1937 e si costituì intorno alla rivista Vita giovanile -poi Corrente di vita giovanile e infine ‘Corrente- edita’ a Milano nel gennaio 1938 da Ernesto Treccani: fu punto di incontro per Renato Birolli, Renato Guttuso, Bruno Valenti, Emilio Vedova. In seno al movimento, gli artisti adirono a una fitta comunicazione (nuovo fu lo stretto contatto con la critica) e a un certo grado di organizzazione.
Al di là dell´entusiasmo per il Picasso di Guernica, fu assunta a modello la pittura di Van Gogh, Gauguin, Ensor e degli espressionisti tedeschi, ricca di accesa emotività. La tendenza fu di proporre alla cultura un forte rinnovamento, con il sostegno di filosofi, poeti e letterati, da Banfi a Ungaretti a Vittorini. I giovani della generazione che succedeva a quella dei metafisici esprimevano la volontà di riunirsi alla tradizione europea. L´opposizione al ‘neoclassicismo novecentesco’ e ufficiale, per ritrovare la libertà dell´arte, avvenne mediante accentuazioni espressioniste verificabili in incrementi nella libertà di ‘ductus’ e nelle tensioni e problematiche germinanti nell´opera. Il movimento significò la costituzione di una vera ‘militanza politica’ d´opposizione al regime, allo scopo di riconquistare l´indipendenza ideologica. La rivista fu soppressa nel maggio 1940 ma l´azione proseguì con edizioni d´arte e letteratura e un´attività espositiva che, iniziata presso la ‘Bottega di Corrente’ in via Spiga 9, diretta da Duilio Morosini, trovò il sostegno del collezionista Alberto della Ragione. Il gruppo espresso dalla mostra nazionale del dicembre 1939 a Milano, dal coevo Premio Bergamo (che vide partecipare all´edizione del 1942 con la Crocefissione di Guttuso tutti gli artisti di Corrente) e nelle stesse ‘Gallerie di Corrente’ che ospitarono le personali di molti artisti del gruppo e varie rassegne di gruppo, negli anni tra 1939 e 1943, risulta assai allargato. Si considerano, accanto ai citati, i nomi di Broggini, Cantatore, Cherchi, Fontana, Grosso, Lanaro, Levi, Mafai, Mantica, Manzù, Mucchi, Paganin, Panciera, Pirandello, Ponti, Prampolini, Scipione, Tomea, e ancora, Bo, Ferrata, Lattuada, Gatto, Malipiero, G.Labò, Quasimodo, Rebora, Sereni. Nel 1944 il gruppo di Corrente era disperso. Molti dei suoi componenti animarono le file della resistenza. Birolli e Guttuso documentarono nei loro cicli grafici, con il secco ‘disegno realista’, la crudeltà della guerra. La maggior parte degli autori portò a nuovi sviluppi la propria attività creativa nel dopoguerra. Un´ampia rassegna rievocativa del movimento di ‘Corrente’ in tutti i suoi aspetti è stata allestita a Palazzo Reale di Milano nel 1985. L’anno seguente Vedova tiene una mostra di disegni alla galleria La Spiga, subito chiusa dalla polizia segreta fascista. Negli anni 1944-45 partecipa attivamente alla Resistenza e nei lavori di questi anni si nota già un segno più vigoroso. Nel 1946 firma a Milano il ‘Manifesto del realismo’ (Oltre Guernica) ed è a Venezia tra i fondatori della ‘Nuova secessione italiana’, poi ‘Fronte nuovo delle arti’. Inizia la partecipazione ad una serie di mostre collettive internazionali, tra cui la Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950, la Biennale di San Paolo nel 1951, ancora la Biennale veneziana nel 1952, Documenta di Kassel nel 1955. A rassegne come la Biennale di Venezia e Documenta di Kassel parteciperà in diverse altre edizioni. Si associa al ‘Gruppo degli Otto’ (1951), promosso da Lionello Venturi, dal quale si dissocia due anni più tardi con una dichiarazione pubblica nel corso del convegno ‘Alta Cultura’ alla Fondazione Giorgio Cini. Crea collages materici e assemblages e lavora in ambito informale con un’intensa gestualità sulla scala cromatica dei bianchi e dei neri, con inserimento dei rossi. Realizza il Ciclo della protesta e il Ciclo della natura. Nel 1954 partecipa alla II Biennale di S. Paolo del Brasile e gli viene conferito un premio che gli permette di trascorrere tre mesi in Brasile. Qui viene fortemente colpito dalla realtà delle zone interne del Sudamerica e dal Carnevale di Rio. Nel 1956 ha luogo la prima personale in Germania, a Monaco. Nel 1958 inizia un intenso lavoro litografico e ottiene il Premio Lissone. L’anno seguente espone il primo Scontro di situazioni, un ciclo con tele disposte ad angolo, all’interno della mostra Vitalità nell’arte, allestita nel veneziano Palazzo Grassi e curata da Carlo Scarpa. Nel 1960 viene insignito del Gran Premio per la pittura alla XXX Biennale di Venezia, assegnatogli da una giuria internazionale di soli esperti. Dai primi anni Sessanta lavora ai Plurimi, realizzazioni polimateriche ampiamente articolate nello spazio ed estensibili, esposti in una prima mostra alla ‘Galleria Marlborough’ di Roma e presentati da Giulio Carlo Argan. Diverse università americane lo invitano a tenere delle ‘lectures’ sui suoi Plurimi.
Avvia una serie di esperienze didattiche alla Sommerakademie für bildende Künste di Salisburgo, dal 1965, e all’Accademia di Venezia, dal 1975. Costantemente rivolto all’innovazione nella ricerca, crea lastre in vetro in collaborazione con la fornace muranese di Venini, Spazio-plurimo-luce, lavora ai cicli di Lacerazioni e Frammenti, realizza i Dischi e i Cerchi, inoltre collabora con Luigi Nono alle scenografie di Intolleranza ’60 e Prometeo. La sua forte volontà creatrice si manifesta anche nella produzione incisoria attraverso sperimentazioni sulle varie tecniche. Tra le ultime mostre personali si ricordano quelle alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Torino nel 1996, al Castello di Rivoli nel 1998, alla Galleria Salvatore e Caroline Ala di Milano nel 2001. Muore a Venezia il 25 ottobre 2006. Infine posso dire che Alberto Burri è l’artista italiano, insieme a Lucio Fontana, ad aver dato il maggior contributo italiano al panorama artistico internazionale di questo secondo dopoguerra. La sua ricerca artistica è spaziata dalla pittura alla scultura avendo come unico fine l’indagine sulle qualità espressive della materia. Ciò gli fa occupare a pieno titolo un posto di primissimo piano in quella tendenza che viene definita ‘informale’. Nato a Città di Castello in Umbria, segue gli studi di medicina e si laurea nel 1940. Arruolatosi come ufficiale medico, viene fatto prigioniero a Tunisi dagli inglesi nel 1943. L’anno successivo viene trasferito dagli americani in un campo di prigionia in Texas. Qui inizia la sua attività artistica. Tornato in Italia abbandona definitivamente la medicina per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Sin dall’inizio la sua ricerca si svolge nell’ambito di un linguaggio astratto con opere che non concedono assolutamente nulla al figurativo in senso tradizionale. Le prime opere che lo pongono all’attenzione della critica appartengono alla serie delle ‘muffe’, dei ‘catrami’ e dei ‘gobbi’. Questa opere, che esegue tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono costruite secondo la logica del quadro. Le immagini, ovviamente astratte, sono ottenute, oltre che con colori ad olio, con smalti sintetici, catrame e pietra pomice. Nella serie dei ‘gobbi’ introduce la modellazione della superficie di supporto con una struttura di legno, dando al quadro un aspetto plastico più evidente. Alla prima metà degli anni cinquanta appartiene la sua serie più famosa: quella dei ‘sacchi’. Sulla tela uniformemente tinta di rosso o di nero incolla dei sacchi di iuta. Questi sacchi hanno sempre un aspetto ‘povero’: sono logori e pieni di rammenti e cuciture. Al loro apparire fecero notevole scandalo: ma la loro forza espressiva, in linea con il clima culturale del momento dominato dal pessimismo esistenzialistico, ne fecero presto dei ‘classici’ dell’arte. Con alcune mostre tenute da Burri19 in America tra il 1953 e il 1955 avviene la sua definitiva consacrazione a livello internazionale. La sua ricerca sui sacchi dura solo un quinquennio. Dal 1955 in poi si dedica a nuove sperimentazioni che coinvolgono nuovi materiali. Inizialmente sostituisce i sacchi con indumenti quali stoffe e camicie. La sua ricerca è in sostanza ancora tesa alla sublimazione poetica dei rifiuti: degli oggetti usati e logorati ne evidenzia tutta la carica poetica come residui solidi dell’esistenza non solo umana ma potremmo dire cosmica. Dal 1957 in poi, con la serie delle ‘combustioni’, compie una svolta significativa nella sua arte, introducendo il ‘fuoco’ tra i suoi strumenti artistici. Con la fiamma brucia legni o plastiche con i quali poi realizza i suoi quadri. In questo caso l’usura che segna i materiali non è più quella della ‘vita’, ma di un’energia che ha un valore quasi metaforico primordiale – il fuoco – che accelera la corrosione della materia. Nella sua poetica è sempre presente, quindi, il concetto di ‘consunzione’ che raggiunge il suo maggior afflato cosmico con la serie dei ‘cretti’ che inizia dagli anni Settanta in poi. In queste opere, realizzate con una mistura di caolino, vinavil e pigmento fissata su cellotex, raggiunge il massimo di purezza e di espressività. Le opere, realizzate o in bianco o in nero, hanno l’aspetto della terra essiccata. Anche qui agisce un processo di consunzione che colpisce la terra, vista anch’essa come elemento primordiale, dopo che la scomparsa dell’acqua la devitalizza lasciandola come residuo solido di una vitadefinitivamente scomparsa dall’intero cosmo. Nell’opera di Burri l’arte interviene sempre ‘dopo’.
Dopo che i materiali dell’arte sono già stati ‘usati’ e consumati. Essi ci parlano di un ricordo e ci sollecitano a pensare a tutto ciò che è avvenuto nella vita precedente di quei materiali prima che essi fossero definitivamente fissati nell’immobilità dell’opera d’arte. La poetica di Burri, più che il suo stile, hanno creato influenze enormi in tutta l’arte seguente. La sua opera ha radicalmente rimesso in discussione il concetto di arte, e del suo rapporto con la vita. L’arte come finzione mimetica che imita la vita appare ora definitivamente sorpassata da un’arte che illustra la vita con la sincerità della vita stessa. La rassegna racconta la generazione di autori usciti feriti dalla Seconda guerra mondiale, che sperimentò nuovi linguaggi e nuovi stili capaci di narrare una situazione drammatica e complessa. Dubbiosi sul ruolo pubblico dell’arte, scelsero una via solitaria che non prevedeva confronti con l’altro né manifesti o testi teorici che dichiarassero una strada comune. Anche il critico francese Michel Tapié, al quale si deve il termine Informale, rifiutò sempre di confinare la tendenza in codici troppo serrati e definiti, allontanandosene quando essa assunse connotazioni troppo precise. Le vie dell’Informale furono molteplici e variegate, figlie di altrettante personalità autonome e originali, le cui ricerche trovarono solo alcuni aspetti tra loro comuni, come la spontaneità, l’istinto gestuale, il rifiuto di qualsiasi legge e geometria, l’improvvisazione. L’onda dell’Informale si diffuse in tutto l’Occidente come alternativa alla figurazione tipica dell’epoca dei regimi totalitari, come rabbiosa risposta alle violenze di cui l’uomo si era dimostrato capace; in Italia, gli anni Cinquanta assistettero all’evoluzione di questa forma d’arte, che si manifestò in molteplici versioni. In contrasto con la pittura figurativa, soprattutto quella impegnata socialmente e politicamente, fermamente sostenuta anche dal nuovo governo, si affermarono artisti quali Afro, Chighine, Vedova,Burri, che impiegavano la materia e il colore come mezzi espressivi liberi e potenti, o pittori che reinterpretarono la figurazione sotto una nuova luce, come Ennio Morlotti e Mattia Moreni o gli esponenti del Realismo esistenzialequali Mino Ceretti e Bepi Romagnoni, chiusi nel loro doloroso nichilismo. Accompagna la mostra un catalogo realizzato da Ponte43 per le edizioni ViDi cultural.
Palazzo delle Paure Lecco
Informale. La pittura italiana degli anni Cinquanta
dal 15 Marzo 2024 al 30 Giugno 2024
Martedì dalle ore 10.00 alle ore 14.00
Mercoledì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso