Contemporanei
Giovanni Cardone
Fino 21 Luglio 2024 si potrà ammirare a Palazzo Strozzi Firenze la mostra dedicata ad Anselm
Kiefer. Angeli caduti a cura di Arturo Galansino. L’esposizione è promossa e organizzata dalla
Fondazione Palazzo Strozzi, in collaborazione con il Comune di Firenze, Regione Toscana, Camera
di Commercio di Firenze. Fondazione CR Firenze, Comitato dei Partner di Palazzo Strozzi. Main
Partner: Intesa Sanpaolo. Con il contributo di Città Metropolitana di Firenze. Con il supporto di
Gagosian. Si ringrazia Maria Manetti Shrem e Fondazione Hillary Merkus Recordati. Una nuova
grande mostra ideata e realizzata insieme a uno dei più importanti artisti tra XX e XXI secolo: un
percorso fra lavori storici e nuove produzioni, inclusa una nuova grande opera creata in dialogo con
il cortile rinascimentale. Una grande mostra concepita appositamente dall’artista che attraverso
venticinque opere storiche di recente produzione tra cui un lavoro immersivo composto da sessanta
tele di dimensioni ci vuole raccontare come egli concepisce l’arte che nelle sue opere abbraccia
pittura, scultura, installazione e fotografia. L’espressione “angeli caduti” indica gli angeli cacciati
dal Paradiso a seguito della loro ribellione contro Dio. Quest’immagine simbolica, rappresentazione
dell’intera umanità, diventa punto di partenza della mostra a Palazzo Strozzi: un viaggio attraverso
allegorie, figure e forme che riflettono sull’identità, la poesia, le vicende storiche, i diversi pensieri
filosofici. Utilizzando pittura, scultura, installazione e fotografia, l’arte di Kiefer propone un
percorso di introspezione sull’essere umano, esplorando le connessioni tra passato, presente e
futuro. Con l’uso audace di diversi materiali e tecniche, Kiefer crea lavori celebri per una forte
presenza fisica e tattile, stabilendo una connessione immediata e autentica con lo spettatore.
Profondamente interessato al loro valore alchemico, Kiefer trasforma materie grezze come piombo,
cera, semi, terra, fiori, sabbia e cenere in opere imponenti e suggestive, fatte di dense stratificazioni.
Utilizzando l’elettrolisi o il fuoco, ad esempio, i materiali sono sottoposti a reali trasformazioni
fisiche. I diversi strati visivi, le sedimentazioni, offrono una lettura multipla, rivelando sempre
nuovi dettagli e significati all’osservatore. Ogni produzione artistica di Kiefer esprime il rifiuto del
limite, non solo nella monumentalità o nella materialità ma soprattutto nell’infinita ricchezza di
risorse con le quali sonda le profondità della memoria e del passato. L’artista ha esordito nella scena
tedesca alla fine degli anni Sessanta con opere che, tra le prime, hanno segnato una riflessione sulla
storia della Seconda guerra mondiale e sull’eredità emotiva e culturale della Germania. Da qui è
iniziato un percorso artistico in cui si uniscono mito, religione, misticismo, poesia, filosofia. In una
mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura Anselm Kiefer apro il mio saggio dicendo : E la
seconda volta che vedo le opere di Kiefer e pensavo ad Emanuele Severino il quale evidenzia bene
nel suo percorso la fine del mondo o meglio la fine dell’uomo : Ponendosi in contrapposizione al
punto di vista tecnicistico, che tende a negare la possibilità che la filosofia si occupi della tecnica, la
riflessione di Emanuele Severino intende sottolineare l’esistenza di una stretta connessione fra le
due forme di sapere. La tecnica infatti è tanto più potente proprio quanto più ascolta la voce della
filosofia del nostro tempo, che ha dimostrato l’impossibilità dell’esistenza di un ordinamento
assoluto, assolutamente vero, lasciando così allo sviluppo tecnologico un universo in cui non
esistono limiti inoltre passabili e inviolabili. Se la progressiva simbiosi fra pensiero filosofico e
operatività tecnica determina così il balzo in avanti inarrestabile di quest’ultima, Emanuele Severino
ha però posto l’accento sul problema cruciale della destinazione della società tecnologica,
soprattutto in relazione all’uomo. La tecnica, infatti, costituisce lo strumento utilizzato dalle grandi
forze che guidano la nostra civiltà per realizzare e affermare la propria concezione di uomo. In
questo conflitto è però inevitabile che i confliggenti tendano sempre più ad aumentare la potenza
dello strumento e a non intralciare il suo funzionamento. Quando questo accade allora lo scopo di
questa forza diventa ciò che dapprima era il mezzo di cui essa intendeva servirsi. In questo modo
l’uomo, che era lo scopo del marxismo, del cristianesimo, dell’illuminismo o della democrazia, per
fare alcuni esempi, diventa ora mezzo, e in quanto tale muore. In questo senso Emanuele Severino
parla di «morte dell’uomo», affermando però al contempo la coincidenza dell’ «essenza della
tecnica» con «l’umanità della tecnica». Se infatti si assume la definizione di uomo soggiacente alle
diverse concezioni, come centro cosciente capace di organizzare i mezzi in vista della produzione di
scopi, questa concezione di umanità trova il suo inveramento proprio nella tecnica, nella forza cioè
oggi dominante per organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, o meglio ancora scopo
essa stessa di questo meccanismo. In questo modo la tecnica oggi diviene quello che Dio era ieri, e
cioè la potenza suprema alleandosi alla quale l’uomo si salva. È possibile, secondo Emanuele
Severino, indicare un’ulteriore definizione di uomo alternativa sia a quella delle ideologie che a
quella della tecnica: una definizione che si ponga al di sopra della volontà di potenza che tecnica e
Dio hanno in comune. E quello che fa Kiefer con le sue opere e con il suo linguaggio ovvero : la
fine di cui ci occupiamo è la fine di un mondo, più o meno definibile, che ha ruotato intorno
all’industrializzazione e ai suoi prodotti e che oggi possiamo chiamare Occidente. Questo mondo è
oggi caratterizzato da cambiamenti sempre più rapidi e imprevedibili, messi in moto da azioni
umane, che si manifestano nella forma di alterazioni del clima, perdita della biodiversità,
degradazione del suolo, esaurimento delle risorse terrestri. In una parola questa situazione è stata
definita Antropocene, un termine coniato negli anni ’80 da Eugene Stoermer , ma reso celebre solo
nel 2002 da Paul Crutzen . Egli propose di introdurre l’Antropocene quale nuova era geologica che
metterebbe fine all’Olocene, sulla base della definizione formulata e pubblicata per la prima volta
insieme a Stoermer nel 2000 secondo la quale a partire dalla Rivoluzione industriale di fine XVIII
secolo l’attività umana iniziò a modificare il funzionamento del Sistema Terra a causa delle
emissioni di anidiride carbonica provocate dall’utilizzo di combustibili fossili. La nozione di
Antropocene cerca di dare un nome a questi ultimi secoli di dominio dell’anthropos sulla natura, ma
ha suscitato numerose critiche come vedremo più avanti. La stessa presunta data di inizio di questa
nuova era geologica è questione di dibattito; è stato proposto di anticiparla all’epoca della comparsa
dell’agricoltura nella Mezzaluna fertile intorno a 11 000 anni fa, o di posticiparla agli anni seguenti
la fine della Seconda Guerra Mondiale, periodo definito Grande Accelerazione per via
dell’intensificazione di alcuni processi caratteristici della modernità quali l’industrializzazione e
l’urbanizzazione. La constatazione principale dei fondatori del concetto Antropocene riguarda la
portata dell’azione umana la quale si è rivelata in grado di influenzare la composizione e le funzioni
della sistema Terra: l’impresa umana moderna lascerà la sua traccia nelle rocce. A causa del grande
impatto antropico sul funzionamento dell’ecosistema, assistiamo oggi alla presenza di numerosi
processi i cui effetti potrebbero essere potenzialmente molto negativi per la vita della specie umana
così come la conosciamo oggi. Questi processi, che comprendono il riscaldamento globale,
l’acidificazione degli oceani, la desertificazione del suolo, la perdita della biodiversità ecc.
potrebbero condurre verso una catastrofe climatica, mettendo l’umanità di fronte alla possibilità
della sua fine. Tuttavia, ai fini del nostro discorso, verrà preso in considerazione il mondo
occidentale, in quanto mondo culturale che, essendo portatore di quei modi di stare al mondo che
rischiano di causare il collasso, risulta particolarmente soggetto alla possibilità di finire. La nostra
intenzione è analizzare le modalità e le forme secondo cui tale finire è pensato, immaginato e
rappresentato. Si tratta dunque della fine di una collettività, a causa dell’impossibilità di continuare
ad abitare il mondo secondo la propria cultura e i modi finora utilizzati. Il più influente contributo
per un discorso sulla fine del mondo, nell’accezione che interessa a noi ossia inteso come mondo
culturale, è senza dubbio quello di Ernesto De Martino. Nel 1964, durante una delle poche
presentazioni orali del suo progetto sull’analisi delle apocalissi culturali, pubblicato poi nell’opera
postuma La fine del mondo, De Martino pone una questione accolta come provocatoria; dato che il
convegno si svolgeva su questioni relative al mondo di domani, egli si fermò a riflettere anzitutto se
quel mondo avrebbe avuto un domani, un futuro. Problema più che legittimo ed essenziale, per noi
adesso, ma allora appariva alquanto inappropriato e apocalittico. Inoltre De Martino rende subito
chiaro in che modo secondo lui il mondo, tale come lo si conosce, può finire; ciò che potrebbe
venire meno è la possibilità della cultura, dunque la possibilità per un gruppo umano di ordinare il
mondo e abitarlo, a causa della perdita di senso dei valori intersoggettivi sui quali lo stare al mondo
proprio di una cultura si fonda; la possibilità che questa perduri dipende esclusivamente dalle scelte
umane. De Martino distingue due sensi secondo i quali è possibile concepire la fine di un mondo
culturale ordinato: «come tema culturale storicamente determinato, e come rischio antropologico
permanente» . Nel primo senso la fine del mondo rientra nell’immaginario mitico di una comunità e
si declina sulla base della visione del tempo e della storia propria di tale comunità. Nel secondo
senso, la fine corrisponde al rischio, sempre presente, di «non poterci essere in nessun mondo
culturale possibile, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori». Ora, la
cultura, al fine di preservare se stessa, deve porsi come antidoto a tale rischio. Nelle parole di De
Martino: « come il rischio radicale contro cui appunto la cultura si costituisce nella più specifica
qualità di esorcismo solenne da rinnovare incessantemente».
Nel nostro caso, la fine che
prenderemo in considerazione maggiormente è intesa nel senso di rischio antropologico. La cultura
occidentale contemporanea sembra aver dimenticato o tralasciato il suo ruolo fondamentale di
esorcismo che scongiuri il rischio del crollo dell’ordine mondano. Tale cultura infatti, a partire dalla
modernità ha intrapreso un percorso che rischia di condurla verso la propria fine, la quale rischia di
essere definitiva, esperita come fine del vissuto e impossibilità di risanare il mondo. Prima di agire
l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo
mortale. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di
palombaro, per affrontare così, in pari tempo protetto e trasfigurato, il problema del presente. La sua
vita ritrovava in tal modo la propria espressione e il proprio senso. La mitologia del suo popolo non
era soltanto per lui convincente, aveva cioè un senso, ma era anche chiarificatrice, vale a dire dava
senso. La mitologia è uno degli strumenti utilizzati dalle culture per svolgere la loro funzione
protettrice nei confronti del rischio di apocalisse culturale. Per De Martino, il mito rappresenta una
tecnica per uscire dalla storia, dal momento presente e dai problemi che esso comporta. «Il senso
del mito è nella sicurezza che derivava dal suo tecnicismo, e così pure il senso delle cose che dal
mito procede. Stare nella storia come se non ci si stesse» . Il mito svolge un ruolo di paragone, di
esempio per l’azione e inoltre dona un orizzonte agli eventi e alla storia, portando l’attenzione e la
riflessione sulle origini e sul senso del mondo. Nell’Occidente contemporaneo i miti sembrano
essere stati dimenticati o aver perso la loro forza, a eccezione del mito del progresso quale
strumento che giustifica il meccanismo capitalista senza però fornire un orizzonte di senso.
L’assenza di miti impedisce per esempio la rigenerazione dell’ordine mondano esistente e la sua
purificazione. La società occidentale non conosce più gli strumenti per uscire dalla storia e dal
mondo dunque vi rimane intrappolata; nel momento della crisi quindi non sarà possibile alcuna
operabilità mondana. Il progetto della collassologia, come vedremo, è in parte sulla stessa linea
d’onda di quello di De Martino; porsi il problema della fine del mondo, il nostro, ha lo scopo di
renderci consapevoli della possibilità che un giorno il mondo potrebbe subire delle trasformazioni
considerevoli e i nostri schemi culturali potrebbero non essere più adeguati per orientarsi nel
paesaggio circostante. Il vantaggio di prepararsi, innanzi tutto nel pensiero, a tale eventualità, sia
singolarmente sia collettivamente risulta dal fatto che «coloro che si stanno preparando non
troveranno la prova facile, ma hanno meno probabilità di essere schiacciati dalla crisi rispetto a
coloro che rifiutano di pensarci». A causa dei cambiamenti climatici, in un prossimo futuro, un
numero sempre crescente di persone sarà costretto a migrare abbandonando il proprio luogo di
origine (Brown 2008). In uno scenario del genere possiamo immaginare che uno dei rischi
principali per il singolo e per le comunità sia quello di non poter contare più sul proprio modello
culturale perché la sua tenuta potrebbe non essere più assicurata. A questo seguirebbe dunque un
senso di smarrimento, quando non addirittura una crisi della presenza come teorizzata già allora da
De Martino che, se estesa alla collettività, assumerebbe la forma di apocalisse culturale. Sullo
sfondo dei mutamenti climatici il tema della fine del mondo assume un nuovo aspetto, diventando
sempre più reale, più empirico. Il rischio di una catastrofe generato dal cambiamento ambientale è il
simbolo di un mondo che si confronta con il pericolo di perdersi, di finire senza la possibilità di
rigenerarsi. De Martino all’epoca degli studi sulle apocalissi culturali raccolse numerosi documenti
provenienti dalla letteratura e dalle arti figurative sul tema apocalittico; in questi campi si registrava
infatti la fragilità della società moderna, in primo luogo nella forma del rischio di una guerra
nucleare che apriva allora prospettive catastrofiche per il mondo occidentale che talvolta De
Martino chiama “euroamericano”. Se nella storia dell’Occidente il tema della fine ha trovato posto
in narrazioni mitiche, basti pensare al filone escatologico all’interno della tradizione
ebraicocristiana, nella contemporaneità la fine non è più motivo di riflessione collettiva e tema di
prospettive di salvezza. Da qui l’importanza di ritornare a pensare alla fine, soprattutto all’interno di
una cultura quale quella occidentale che vive nel rischio concreto di apocalisse culturale che può
sfociare in un bruto finire senza capacità di reintegrazione, data l’impossibilità della cultura di porsi
come antidoto e di svolgere una funzione protettrice. Sulla base del latino collapsus, nel 2015 Pablo
Servigne e Raphael Stevens introducono il termine collapsologie nel loro libro Comment tout peut
s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes per indicare una
nuova ed essenziale branca di studi, interdisciplinare e non sistematica, per pensare il futuro
prossimo del nostro mondo. La presa di coscienza dei dati circa la situazione climatica,
caratterizzata da rapidi mutamenti, può provocare reazioni diverse a seconda del soggetto; reazioni
che, quando si manifestano sottoforma di trauma (recentemente è stato introdotto il termine
“climate despair”), devono essere lavorate, rielaborate. Alla luce dei dati, il futuro prossimo sulla
terra, per noi occidentali, appare confuso e tale confusione rischia di generare ansia da fine del
mondo catastrofica o apocalittica. La collassologia intende intervenire per pensare ed immaginare
fin da subito in quale modo i mutamenti climatici e tutti i rischi ad essi correlati potrebbero
condizionare e modificare il futuro che abbiamo sostanzialmente sempre immaginato uguale al
nostro presente. I cambiamenti climatici, di origine antropica, hanno messo in moto delle reazioni e
dei processi irreversibili i cui effetti, una volta superato il punto di non ritorno, risultano
imprevedibili. Dato che tali processi interessano molteplici aspetti della vita, gli autori succitati
hanno ipotizzato uno scenario di possibili numerosi effondrements, ossia collassi declinabili in
ambito economico, politico, ecologico, alimentare ecc.. Il viaggio interdisciplinare di Servigne e
Stevens prende avvio da un’analisi della civiltà occidentale contemporanea definita innanzi tutto
come industriale. Per spiegarne la storia utilizzano la metafora di un’automobile che ha iniziato la
sua corsa all’inizio dell’era industriale, mantenendo una velocità limitata fino alla fine della
Seconda Guerra Mondiale, quando, all’improvviso ha iniziato ad accelerare (periodo che è stato
appunto definito Grande accelerazione). Avendo proseguito la sua corsa ad alta velocità,
attualmente la lancetta sul tachimetro della velocità sta vacillando e non sappiamo se si
ristabilizzerà, se scenderà o se continuerà ad aumentare. Sappiamo però che la corsa
dell’automobile incontrerà dei limiti, alcuni insormontabili, e dei confini che se attraversati la
faranno uscire di strada, senza possibilità di rimettersi in carreggiata e continuare la sua corsa come
prima. I limiti insuperabili per l’automobile, dunque per la nostra civiltà, sono rappresentati
dall’esaurimento delle risorse non rinnovabili quali energie fossili e minerarie e dalla scarsità di
risorse quali acqua, legname, cibo che, seppur rinnovabili, seguono dei ritmi che rischiano di essere
compromessi dal nostro consumo predatorio.
I confini o le soglie che la civiltà rischia di oltrepassare sono rischiosi perché meno evidenti,
dunque si corre il pericolo di superarli senza accorgersene; questi sono per esempio il clima, gli
ecosistemi, i cicli del sistema Terra ecc., fattori che mantengono in equilibrio e permettono il
funzionamento della civiltà termo-industriale, una civiltà sostenuta infatti dall’energia, quale fonte
di movimento; e senza movimento questa società non potrebbe esistere. Attualmente l’automobile
prosegue a velocità sostenuta ed è sul punto di uscire di strada, ma il volante è bloccato, la direzione
non può essere cambiata; il viaggio è comunque confortevole, ma il prezzo da pagare per poter stare
seduti tranquilli nell’abitacolo senza curarsi del paesaggio che scorre fuori dal finestrino non viene
messo in conto. Intraprendere un discorso sulla fine in anticipo serve innanzi tutto per permetterci di
reagire attivamente e non subire gli eventuali collassi che potrebbero condurre verso la fine
dell’Occidente così come lo conosciamo. Non si tratta di essere pessimisti e attendere il peggio
restando inattivi. Pensare la fine, immaginarla, deve servire soprattutto a progettare un nuovo inizio,
ad essere pronti per il dopo. Non significa però nemmeno focalizzarsi solo sul futuro e abbandonare
il momento presente, bensì decidere, sulla base della fine, quale nuovo senso dare all’oggi, agli
eventi della vita che pur continua. Immaginare in anticipo l’eventuale fine o apocalisse culturale del
nostro mondo è per noi un’esigenza urgente; anche se non possiamo prevedere in modo certo quale
forma potrà assumere tale fine, ciò che importa è prendere in considerazione tale possibilità prima
che essa si verifichi, poiché nel momento critico di crisi della presenza collettiva, molto raramente
si riuscirà a inventare un’alternativa efficace al mondo che sta crollando. È particolarmente urgente
perché giorno dopo giorno viene in mostra sempre più palesemente la fragilità del nostro mondo e
la sua tossicità nei confonti degli umani che lo abitano. Ci riferiamo innanzi tutto ai dati circa il
mutamento climatico, la cui causa è antropica, ma non dell’anthropos in generale, bensì di quel
prodotto antropico che è la modernità occidentale, termoindustriale, capitalista, colonialista…
Dunque uno dei tanti modi di vivere e costruire un mondo, il quale si sta rivelando fallimentare,
sotto tanti aspetti, e autodistruttivo. Non sarebbe certo il primo mondo a finire, ma la sua fine
rischia di essere esperita come fine definitiva del mondo. Ciò che è fondamentale sottolineare e
comprendere è che il mondo che finisce è solo il nostro, e che tale fine non coinciderebbe con la
fine di ogni mondo o della storia o del tempo. A lungo abbiamo escluso dal nostro pensiero la
presenza di altri mondi credendo che il nostro fosse l’unico possibile ed esistente. Così facendo
l’orizzonte del reale si è appiattito sull’orizzonte dei confini del nostro mondo. In questa prospettiva
dunque la fine del nostro mondo sarebbe vissuta come il venir meno della possibilità di ogni
mondanità e dunque lo sarebbe. L’intenzione è quindi intraprendere una metamorfosi verso un
differente modo di fare mondo, prima che il cielo ci cada sulla testa (Kopenawa 2018) e nessuno più
sia in grado di alzarlo di nuovo. Proprio il fatto di non poter sapere di preciso quando si
verificheranno tali collassi ci dovrebbe spingere a reagire da subito, vivendo il presente in modo
consapevole e preparandosi ad un futuro in cui abbiamo la possibilità di portare il meglio del nostro
mondo, se solo ci prepariamo fin d’ora. L’immaginario dell’occidente contemporaneo è pieno di
narrazioni sulla fine del mondo, per lo più di tipo apocalittico e catastrofico e quindi come in un
circolo vizioso il nostro pensiero non riesce a immaginare una fine che non sia catastrofica, perché
per troppo tempo non l’ha pensata. Ma quanto questo immaginario è condizionato dal mito del
progresso su cui è fondata la nostra civiltà? Tale mito non prevede una fine, la crescita deve
procedere ad infinitum. Quando non si riesce a trovare o a mettere in pratica un’alternativa a questo
mondo, costruito su un unico mito che esclude ogni contraddizione, si abbandona la speranza e si
attende la fine, considerata quale unica soluzione per ottenere un cambiamento, e immaginata però
nella forma della catastrofe o dell’apocalisse. È arrivato il momento di impegnarsi ad immaginare
una fine diversa, che sia un momento di passaggio e non un punto di arrivo o una brusca
interruzione del nostro mondo. Prima che questa avvenga, nelle forme più varie che potrebbe
assumere (potrebbe anche non accadere), occorre costruire narrazioni diverse da quelle
catastrofiche, che la anticipino e ci rendano preparati ad accoglierla. Il mio discorso prende in
considerazione seriamente la possibilità della fine della civiltà capitalista termoindustriale, con la
consapevolezza che questa potrebbe assumere molteplici forme, anche imprevedibili. Qualunque sia
la modalità di tale fine o effondrement, e ne discuteremo più avanti, riteniamo che tale fine debba
essere considerata come un’opportunità, una possibilità di cambiamento radicale, che altrimenti,
forse, sarebbe impossibile da attuare. In un certo senso per poter sopravvivere come specie e per
non provocare l’estinzione di altre specie e della biodiversità in generale, dobbiamo abbandonare
questo mondo, farlo finire. Prima ancora di impegnarsi nel progettare la vita del après-
effrondement, occorre conoscere le cause che hanno portato a questa situazione, non tanto per
cercare di frenare il collasso, ma innanzitutto per superare la paura e il trauma e ritornare a vivere.
La notizia della fine del nostro mondo può esserci arrivata attraverso varie vie, poiché molti sono i
segni, sparsi dappertutto, che da tempo ci mostrano le fragilità e i rischi del nostro modo di stare al
mondo, se solo ci fossimo fermati un momento ad ascoltarli… Potrebbe per esempio esserci giunta
nella forma della imminente catastrofe climatica. Dappertutto si parla di crisi climatica o crisi
ecologica, ma raramente quei dati freddi sull’acidificazione degli oceani, sull’effetto serra o il
riscaldamente globale sono in grado di giungere veramente all’uomo della strada, ai non addetti ai
lavori. L’Occidente contemporaneo è costruito su certe basi e presupposti che ne determinano la
tenuta e l’eventuale collasso. Prima ancora di definirlo come civiltà termoindustriale e capitalista
occorre portare alla luce l’ontologia stessa alla base di tale mondo. In questo ci viene in aiuto il
lavoro di Philippe Descola; egli infatti ha cercato di identificare e schematizzare in quattro classi le
organizzazioni ontologiche (modi di organizzazione degli esseri, dell’essere) alla base delle culture
da lui studiate. Il mondo occidentale, l’unico che pone una differenza tra natura e cultura, viene
classificato all’interno del naturalismo. Attraverso un lungo percorso iniziato in Grecia si è venuta
formando l’idea di Natura, fino ad assumere le caratteristiche attribuitele dalla modernità. I primi
passi verso tale concezione della natura vengono mossi dai filosofi greci e in particolare da
Aristotele; egli infatti opera un’oggettivazione dei fenomeni e degli esseri che esistono per natura
(physis), intendendo con questa quel «principio che produce lo sviluppo di un essere che contiene
esso stesso l’origine del suo movimento e della sua immobilità, principio che lo porta a realizzarsi in
un certo modo». Avendo oggettivato gli esseri naturali, questi possono essere studiati e compresi in
quanto seguono delle regole precise e che si ripetono, proprio come la polis è sottoposta al nomos.
Con l’avvento del cristianesimo si compie un ulteriore passaggio in quanto l’essere umano viene
escluso dalla Natura e rispetto ad essa si considera superiore; egli dipende infatti dalla grazia divina
ed è trascendente al mondo naturale. Tuttavia l’idea di Natura acquista un senso nuovo all’epoca
della rivoluzione scientifica del XVII secolo che rende la natura un puro procedimento meccanico
costruito su delle leggi fisse e perciò una volta conosciute queste, comprensibile in ogni sua parte.
Per far questo non c’era bisogno di invalidare le teorie scientifiche concorrenti, ma di eliminare il
finalismo aristotelico e della scolastica medievale, relegarlo al dominio della teologia e mettere
l’accento, come fece Cartesio, sulla sola causa efficiente; certo, questa è ancora rapportata a Dio, ma
un Dio puramente motore, contemporaneamente fonte originale di un movimento conosciuto in
termini geometrici e garante della sua conservazione costante. L’intervento divino diviene più
astratto, investe meno nel funzionamento degli ingranaggi della macchina del mondo, confinato ai
misteri della fede o alla spiegazione del principio di inerzia . La Natura diventa quindi una zona di
dominio dell’essere umano, da manipolare e sfruttare poiché nulla ha in comune con l’umano.
Inoltre, come conseguenza della separazione tra essere umano e Natura, gli occidentali pongono una
separazione tra umani e non-umani. Là dove potrebbe esserci una continuità essi vedono – hanno
imparato a vedere – una rottura. Questo allontanameto dagli esseri non-umani determina un
particolare rapporto di dominazione dei primi nei confronti dei secondi; ritenuti inferiori in quanto
appartenenti al mondo naturale, dunque manchevoli di ogni capacità tipicamente umana, i non-
umani possono essere sottomessi dall’essere culturale che è l’uomo. Tale concezione non prevede
alcun sentimento di solidarietà o rispetto nei confronti degli esseri “naturali” ed ha portato alle
conseguenze sempre più visibili che caratterizzano l’Antropocene. All’interno del paradigma del
naturalismo, la perdita di biodiversità, per esempio nella forma dell’estinzione di alcune specie
animali o di specie vegetali, in un primo momento viene accolta come la scomparsa di entità molto
più simili ad oggetti che a noi umani. Difficilmente riusciamo a porci nella prospettiva di altre
specie animali, a meno che non siano i nostri animali domestici, addomesticati appunto per
sembrare sempre più simili a noi. Ancora meno ci è possibile immedesimarci nelle piante,
nonostante abbiamo appreso che anch’esse sono intelligenti, sempre come noi. Eppure una specie
che si ritrova a rischio di estinzione sta affrontando un collasso della propria comunità; quali sono le
reazioni ai pericoli degli appartenenti a tale specie? Quali le strategie messe in atto per
sopravvivere? In che modo collaborano tra di loro? Tutte queste sono domande che dovremmo
porci nel momento in cui il collasso della nostra comunità sembra ogni giorno più concreto. La
concezione della Natura come elemento da sfruttare ha permesso lo sviluppo dell’apparato
capitalista fondato sulla disponibilità di risorse illimitate, o per lo meno ritenute tali, quali mezzi per
garantire alla macchina di procedere nella sua produzione ad un ritmo sempre più accelerato.
Tuttavia il progresso alla base del capitalismo è letale per il capitalismo stesso; la crescita infinita
indispensabile per la sopravvivenza del capitalismo è garantita dalla disponibilità di materie prime
gratuite fornite dall’ecostistema terrestre quali il petrolio, l’acqua, il legname ecc. Queste risorse
fanno parte di quelli che vengono definiti servizi ecosistemici. Il problema sorge nel momento in
cui le risorse vengono prelevate o esaurite troppo in fretta senza lasciare il tempo all’ecosistema di
rigenerarsi, superando così la biocapacità (quantità di prodotti e servizi che un ecosistema è in grado
di produrre in un dato periodo) e causando danni all’ecosistema stesso. L’accelerazione che
caratterizza il consumo di materie prime e altre risorse almeno dal periodo definito appunto Grande
Accelerazione, ha coinvolto quasi ogni aspetto della vita all’interno della civiltà occidentale: in
quanto accelerazione tecnica ha permesso di effettuare spostamenti sempre più rapidi provocando
un restringimento dello spazio, a livello sociale ha determinato un’accelerazione nel cambiamento
delle abitudini con una conseguenze accelerazione del ritmo della vita il cui risultato è l’assenza di
punti di riferimento stabili, la precarietà, la depressione. Il punto rilevante di questa struttura che ha
assunto il mondo occidentale sta nel fatto che l’accelerazione di tutti questi processi non ha avuto
come scopo il miglioramento della vita delle persone, bensì il semplice mantenimento dello status
quo che, all’interno della logica capitalista, sarebbe impossibile rallentando la produzione . Dove sta
il limite per un sistema che si basa sull’assenza di limiti? Si tratta di quelle frontiere o confini che si
rischia di superare senza accorgersene, ma che servono a mantenere in equilibrio la biosfera e la
stessa civiltà occidentale; il clima, le risorse non rinnovabili, l’acqua non possono essere trattati
come beni di consumo perché rappresentano le condizioni di possibilità del nostro mondo.
Un’analisi dell’Occidente moderno e contemporaneo è presente nelle opere di Bruno Latour,
antropologo, sociologo e filosofo o come meglio preferisce definirsi: sociologo,
antropologo…«delle scienze e delle tecniche», per tentare di ricomporre nella definizione della
propria posizione la separazione tra natura e cultura. Separazione sulla quale l’Occidente si fonda e
nella quale crede, senza riuscire però a starci fino in fondo, vista la grande proliferazione di ibridi
che sempre più vengono prodotti: embrioni congelati, fiumi inquinati e altre entità che non si riesce
a classificare né nell’ambito naturale né in quello culturale. L’andamento della modernità
occidentale è descritto da Latour come il movimento dal locale al globale, verso una
mondializzazione quale nuovo orizzonte della cultura. L’occidente contemporaneo, come abbiamo
visto, è l’esito di più di duemila anni di storia, in cui si sono succeduti eventi, popoli, idee, conflitti,
che hanno plasmato il mondo occidentale così come lo viviamo oggi. Tra le radici più salde e
durature vi sono quelle affondate dalla tradizione ebraico-cristiana. Nessun discorso sulla fine,
considerata nel suo senso di «tema culturale storicamente determinato», elaborato da una
prospettiva occidentale, potrebbe prescindere dalla concezione ebraicocristiana della fine. Inoltre,
nel momento in cui interrogarsi sulla fine del nostro mondo appare sempre più urgente, data la
gravità dei dati sul mutamento climatico e gli scenari che questi lasciano presagire, l’escatologia,
quale discorso sulle cose ultime (dal greco ἔσχατος “ultimo”), torna ad acquisire un ruolo centrale.
Possiamo individuare un ritorno sulla scena dell’escatologia già nel XX secolo, in pensatori come
Karl Barth e Rudolf Bultmann. Il nuovo significato assunto dall’escatologia non riguarda tanto la
speranza di salvezza dopo la fine dei tempi, quanto piuttosto la rilevanza che l’imminente fine della
storia assume nella vita quotidiana delle persone, in particolare nell’attribuzione di un senso al
proprio presente. L’escatologia ebraico-cristiana si è sviluppata per lo più attraverso la forma
dell’apocalisse, intesa quale genere letterario caratterizzato da una visione che mostra ad un uomo
scelto (spesso un profeta) delle cose nascoste, segrete. Il termine apocalisse sta infatti ad indicare
una rivelazione, uno svelamento di una verità prima nascosta. Il termine apocalisse compare per la
prima volta nel Nuovo Testamento nel libro dell’evangelista Giovanni intitolato appunto Apocalisse
sulla base della prima frase del libro. Lo scopo dello scritto di Giovanni è promettere la venuta del
Regno di Dio alle sette Chiese dell’Asia minore che all’epoca subivano le persecuzioni da parte
dell’Impero romano. Giovanni racconta la sua visione dell’avvento dell’anticristo e della sua
sconfitta cui segue il giorno del giudizio e l’instaurarsi della Gerusalemme celeste. L’Apocalisse di
Giovanni è il principale testo apocalittico della tradizione cristiana, ma non è l’unico della Bibbia. Il
genere dell’apocalittica era presente già nell’ebraismo; all’interno del canone biblico (ebraico) il
testo più importante con contenuti apocalittici è il Libro di Daniele, nel quale sono narrate alcune
sue profezie; una di queste in particolare racconta una visione riguardo la risurrezione e la fine dei
tempi. Tuttavia occorre precisare che le apocalissi della tradizione ebraico-cristiana non
costituivano soltanto visioni escatologiche sulla fine dei tempi e la vita nel regno celeste; i temi
delle rivelazioni erano molto vasti e comprendevano la risurrezione, il giudizio finale, il paradiso, la
lotta contro il male… Nella cultura secolare però il termine “apocalittico” ha finito per indicare
quasi esclusivamente le visioni sulla fine del mondo e dei tempi. La tradizione teologica ebraico-
cristiana è la base su cui si è costruita successivamente la filosofia della storia occidentale, la cui
matrice teologica è sempre presente, anche se in modo carsico. Una prima grande formulazione di
teologia della storia è dovuta ad Agostino; appropriandosi dell’escatologia cristiana egli formula
una storia nei termini di storia della salvezza che fa da cornice alla storia profana: «il divenire
storico acquista senso solo all’interno di una storia escatologica della fede, una storia segreta entro
quella secolare, sotterranea ed invisibile per chi non crede» . Questa storia della salvezza è regolata
dalla Provvidenza, segno di Dio sempre presente nella storia. Inoltre Agostino rifiuta la visione
ciclica del tempo propria del paganesimo e introduce una suddivisione della storia in sei epoche
(come i giorni della creazione). La ciclicità risulta per lui incompatibile con gli eventi della nascita
e morte di Cristo, i quali segnano una cesura nella storia. La prima epoca comprende il periodo da
Adamo al Diluvio, «la seconda da Noè ad Abramo, la terza da Abramo a Davide, la quarta da
Davide fino alla cattività babilonese, la quinta da quest’ultima fino alla nascita di Cristo. La sesta ed
ultima epoca si estende infine dalla prima venuta di Cristo fino al suo ritorno alla fine del mondo».
La visione agostiniana della storia perdura fino all’Illuminismo ed influenza particolarmente la
formazione della filosofia moderna della storia. Infatti, questa si caratterizza come la
secolarizzazione della tradizione teologica, in cui all’idea di Provvidenza viene sostituita l’idea di
progresso. Viveiros de Castro e Danowski -2017 hanno proposto una riflessione sulle paure della
fine, raccogliendo alcune varianti del tema della fine del mondo tra gli occidentali e presso altre
culture quali quelle amerindie. Tale approccio antropologico è da noi condiviso, perciò riportiamo
qui alcune teorie escatologiche che gli autori ci suggeriscono. Per esempio, numerose formulazioni
sulla fine in ambito amerindio si fondano sulla profezia della caduta del cielo.
All’interno di una prospettiva di periodici cicli di distruzione e rigenerazione del mondo e
dell’umanità, si ipotizza che l’invecchiamento del mondo e il peso crescente dei morti nel cielo
possano provocare la caduta degli strati celesti; in questa teoria, propria della cosmologica
yanomami, gli strati celesti caduti divengono i nuovi strati terrestri e le anime celesti dei morti
costituiscono la nuova umanità terrestre. Altre cosmologie amerindie prevedono una distruzione del
mondo causata da un diluvio o da una conflagrazione, sempre in una successione ciclica di Terre e
umanità che vengono distrutte e si rigenerano. È interessante notare come i temi del diluvio e della
conflagrazione siano presenti anche nel panorama escatologico propriamente occidentale, il primo
nella tradizione biblica, il secondo nella filosofia antica, per esempio nella concezione della fisica
propria dello stoicismo; questo ipotizza infatti che la vita del mondo segua dei cicli di distruzione e
formazione. Quando un ciclo si chiude e gli astri tornano alla posizione originaria, avviene una
conflagrazione (ekpyrosis) che tutto distrugge; a questa segue una rigenerazione dello stesso
mondo, l’ordine cosmico si rigenera identico a quello precedente. Presso alcuni popoli
mesoamericani i mondi e le umanità si succedono secondo una sequenza di ere o soli e con
l’intervento delle divinità che plasmano gli umani a partire da elementi quali argilla, legno, mais.
Un aspetto significativo che gli autori rilevano presso le escatologie indigene è «l’impensabilità di
un mondo senza persone» infatti, ogni rigenerazione del mondo comporta sempre la rigenerazione
di un’umanità, sempre diversa dalla precedente. Inoltre tali cosmologie includono anche i Bianchi e
la loro cultura, considerati come i discendenti di un popolo che agli inizi dei tempi fu escluso dal
centro del mondo a causa del suo carattere aggressivo, ma che successivamente, apparentemente
senza motivo, vi ha fatto ritorno. La presenza dei Bianchi nella mitologia indigena assume
probabilmente la forma di un problema, sin dall’arrivo degli europei nelle Americhe; questa
perplessità metafisica è sicuramente oggi accresciuta, considerando che i Bianchi sono i portatori
della catastrofe climatica, prospettiva che sembra sempre più vicina alle distruzioni periodiche
pensate dalla cosmologia indigena. La rappresentazione prevalente della fine all’interno
dell’Occidente capitalista si rifà ad un immaginario apocalittico. In quanto fondata su una
concezione del tempo lineare, la cultura occidentale considera la fine come il punto di arrivo di una
successione di eventi; dopo la fine, dunque, il nulla. Il tempo stesso finisce. Fine del mondo e fine
del tempo coincidono. Come agire sapendo di avvicinarsi ad un evento così radicale? L’eredità
cristiana propone un’ancora di salvezza; il tempo che giunge ad una fine è quello terrestre,
lasciando spazio ad un non-tempo celeste, quello eterno del paradiso. È dunque possibile la vita
fuori dal tempo. Eppure la fine in questo paradigma è sempre un momento di rottura irrimediabile,
il mondo non può riprendere, la vita sulla terra giunge a una conclusione. Ci sembra che una
concezione del genere non possa venire in aiuto nel momento in cui dobbiamo pensare la possibile
fine della nostra civiltà, ma soprattutto nel momento in cui tale fine appare sempre più vicina e
probabile, dato il numero e la gravità dei possibili effondrements. Confrontarsi con un pensiero
come quello della fine del mondo quando ci sentiamo già vicini ad essa non è cosa che possa essere
affrontata in tutta serenità; a nostro avviso però l’angoscia, la perdita di speranza e di senso
suscitate da un tale pensiero sono dovute alla particolare concezione che noi abbiamo del tempo e
dunque della fine, che, come dicevamo, rientra in una visione temporale lineare. In questa
prospettiva la fine viene percepita come un muro cui andiamo incontro sempre più rapidamente,
senza possibilità di frenare in tempo. Cosa accadrebbe se recuperassimo invece una visione ciclica
del tempo? La fine sarebbe in questo caso un momento di passaggio, un punto sulla ruota del tempo
cui ne seguirebbe subito un altro. All’interno della cultura occidentale abbiamo individuato delle
eccezioni alla visione temporale dominante basata sulla linearità. Una di queste eccezioni è l’artista
contemporaneo Anselm Kiefer. Egli infatti recupera una concezione antica del tempo e dunque
della fine. Il suo lavoro può essere utile per preparare l’immaginario per i tempi imminenti,
sperimentando inizialmente attraverso l’immaginazione artistica un diverso rapporto con il tempo.
le immagini-mito di Kiefer si propongono in tutta la loro portata come emblemi simbolici di una
narrazione nuova e insieme antica. Esse rispondono alla necessità di venire incontro alla passività
insita in ogni soggetto, a quella culla dell’essere narrati che pervade come una necessità
imprescindibile tutta la vita umana Nelle sue opere Kiefer pratica una mitopoiesi, in cui immagini
della tradizione, occidentale prima di tutto, acquistano nuovi significati. La storia, come argilla, può
essere riplasmata e mostrare delle forme alternative. Kiefer si muove in un eterno presente estraneo
al tempo lineare, come se stesse seguendo il monito del nano dello Zarathustra: ‘Tutto ciò che è
diritto mente’, mormorò il nano in tono di spregio. ‘Ogni verità è curva, il tempo stesso è un
circolo’ . Anselm Kiefer venne al mondo tra le macerie della guerra, l’8 marzo del 1945, a
Donaueschingen, in Germania. Quelle macerie che egli ha definito come il suo parcoghiochi,
diverranno un elemento centrale della sua produzione artistica. Nel 1965 si iscrive all’Università di
Friburgo per studiare giurisprudenza ma abbandona questa via l’anno successivo intraprendendo gli
studi all’accademia d’arte, prima a Friburgo e poi a Karlsruhe. Successivamente studia a Dusseldorf
dove diventa allievo di Joseph Beuys. La sua carriera artistica inizia con un difficile compito: come
fare i conti con l’eredità culturale tedesca sulla quale gravano gli orrori del nazismo? Il fatto di
essere nato alla fine della guerra gli permette di confrontarvisi dalla prospettiva distaccata
dell’estraneo; attraverso una maggiore oggettività è in grado di negoziare con i fantasmi del passato,
producendo nuove memorie. Il passato può essere rielaborato e deve esserlo per poter comprendere
il presente. Questa prospettiva si riflette nel suo lavoro artistico: l’artista infatti non crea mai ex
nihilo bensì plasma una materia già presente trasformandola in qualcosa di nuovo, mai definitivo né
stabile bensì destinato a mutare continuamente. Che cosa fanno i quadri rinchiusi lì dentro per tutto
quel tempo, fino a quando rispuntano tra i miei pensieri facendomi un cenno, suggerendomi un’idea
che potrebbe riportarli in vita, offrendogli un posto nell’opera a cui sto lavorando? Li riesumo, e
capisco subito le possibilità che racchiudono. Ma cos’è successo mentre erano relegati lì? Nulla?
No di certo, perché hanno saputo raccogliere le forze per attirare l’attenzione su di sé. Dopo aver
liberato la tela dall’oscurità, la ridipingo e in questo modo si compie una transizione verso un altro
stato. Spesso molto diverso da quello iniziale. Uno dei primi lavori di Kiefer, una performance dal
titolo Besetzungen (Occupazioni), risalente alla fine degli anni ’60, propone una riflessione sul
nazismo. Egli si fa ritrarre in una serie di fotografie poi raccolte in un libro con il titolo Heroische
Sinnbilder, Simboli eroici, mentre riproduce il saluto nazista in alcuni luoghi significativi attraverso
l’Europa o in paesaggi suggestivi. Queste fotografie raccolsero numerose critiche negative,
soprattutto da parte degli artisti e intellettuali che avevano vissuto gli anni della guerra e che
rimproveravano a Kiefer di riaprire una ferita non ancora rimarginata. Durante gli anni ’50 infatti, la
maggior parte degli artisti tedeschi aveva messo da parte la storia recente per dedicarsi alle
avanguardie d’oltreoceano oppure ad altre correnti artistiche. L’intento di Kiefer era attuare un
distaccamento ironico che allo stesso tempo rappresentasse un forte impegno politico. L’artista
riproduce tale gesto cercando di calarsi nell’abito del nazista, non per identificarvisi, bensì per
osservare la potenza del gesto, della postura, con l’unico scopo di comprendere la follia che vi sta
dietro. Per comprendere meglio il lavoro dell’artista e andare ad ammirare da vicino le sue ed
occorre studiare i materiali che Kiefer utilizzata, dai quali emergono con chiarezza i temi ricorrente
e centrali di ogni sua opera: il tempo che scorre e la trasformazione di ogni cosa. Egli predilige
materiali quali sabbia, argilla, cenere, paglia, piombo, vetro, fiori, semi; persino la pittura è usata
come un materiale, per esempio ottenendo uno spesso strato di colore sulla tela che può poi essere
scolpito o scrostato via. La tavolezza è il luogo della poiesis, dove «gli elementi pervengono alla
loro ‘giusta’ combustione; bruciando, essi si liberano dalla fissità che li separava l’un l’altro,
‘muoiono’ all’esistenza che li costringeva a non essere null’altro che sé» . Molti dei quadri di Kiefer
appaiono scuri, eppure all’inizio del processo la tela è bianca e i colori sono ben presenti. Durante il
processo di produzione dell’opera, che mai giunge ad un risultato definitivo, l’artista ricopre la tela,
strato dopo strato, come se volesse farla invecchiare prima del tempo, imprimendo sui vari strati la
traccia del tempo trascorso. Come un alchimista che accelera i processi naturali, così l’artista mostra
sulla tela il tempo che corrode la materia. Un materiale molto caro a Kiefer è il piombo; questo è
infatti il primo elemento nel processo alchemico per ottenere l’oro. In quanto collocato sul gradino
più basso del percorso verso l’oro, il piombo rappresenta la pesantezza e l’attaccamento alla terra,
ma allo stesso tempo esso contiene in sé l’argento, che gli conferisce un principio di leggerezza e di
avvicinamento all’oro. I suoi dipinti mostrano lo scorrere del tempo, la trasformazione degli
elementi che subiscono processi chimici. Presso lo studio di Barjac, Kiefer ha esposto numerosi
dipinti all’aria aperta, lasciando agli agenti atmosferici il compito di completare l’opera,
trasformandola. Così spiega uno dei suoi metodi di produzione: ricopro il quadro di pittura nera, lo
stendo a terra e lo bagno con dell’acqua grigia e sporca, lo restituisco alla natura, lo espongo all’aria
e alle intemperie. Insomma, maltratto il quadro abbandonandolo al nulla, lo faccio precipitare
deliberatamente e con crudeltà verso l’Orcus della “desolazione e del vuoto”. È lasciato a se stesso,
abbandonato dagli spiriti buoni, come il profeta che non riusciva più a distinguere la parola divina
in mezzo al furore del mondo . Durante una mostra alla Fondazione Vedova ai Magazzini del Sale
di Venezia, Kiefer ha esposto delle fotografie incollandole su pannelli di piombo e le ha sottoposte
all’elettrolisi (operazione che utilizza l’energia elettrica per sviluppare reazioni chimiche); in questo
modo le opere si sono trasformate nel corso della mostra, mettendo in scena quello che può essere
paragonato ad un procedimento alchemico di accelerazione dei processi naturali. Kiefer è famoso
per aver lavorato in grandi studi, da lui definiti come laboratori. Dal 1992 ha lavorato nel paesaggio
bucolico di Barjac, nel sud-est della Francia, in un immenso spazio in cui ha costruito edifici, torri,
scavato tunnel, cripte. Successivamente nel 2009 si è trasferito poco fuori Parigi in un enorme
container all’interno del quale ha riunito tutti i suoi lavori e materiali, alcuni risalenti agli anni ’70.
Nessun opera o parte di essa è mai stata abbandonata da Kiefer, poichè tutto è destinato a
trasformarsi, e il mutamento è continuo, ogni oggetto potrebbe portare ad una nuova idea. Egli si
sposta in bicicletta all’interno di uno spazio che dice essere come il suo cervello; gli oggetti
corrispondono a sinapsi e talvolta trova nuovi collegamenti tra loro. Le rovine che in questo caso
appaiono fonte di fascino sono quelle prodotte dalla civiltà occidentale; il crollo della torre di cui
parla Kiefer non avviene casualmente, ma secondo la modalità di crollo che il mondo che l’ha
prodotta prevede. Inizialmente esitante, sembra voler resistere in piedi a tutti i costi, poi
all’improvviso crolla. Così come la costruzione avviene secondo i modi immaginati dal mondo di
riferimento, anche il collasso dipende ed è influenzato dall’immagine che è stata pensata di esso.
Non è un caso a nostro parere che Kiefer utilizzi come metafora un elemento tanto paradigmatico
dell’Occidente moderno quale l’aeroplano. Le rovine non sono per Kiefer il segno di una catastrofe
bensì rappresentano il momento in cui le cose possono rinascere a nuova vita, dismettere la propria
forma per assumerne un’altra. Come la notte che ogni giorno si trasforma in un’aurora. Aurora
rappresenta il momento in cui la natura si trasforma, in un passaggio graduale in cui la notte muore
come oscurità e rinasce come luce. Tra il 2010 e il 2011 Kiefer è titolare della cattedra di creazione
artistica al Collège de France; le lezioni da lui tenute vengono raccolte nel testo L’arte sopravvivrà
alle sue rovine , citazione che egli sceglie come titolo senza riuscire a recuperarne la fonte, ma che
ben si adatta alla sua concezione di arte. Tale citazione infatti esprime la potenza delle immagini in
grado di durare nel tempo e di riaffiorare anche dopo l’eventuale distruzione o crollo del contesto
che le ha prodotte. Una concezione che sembra richiamare quella di Aby Warburg per il suo
concetto di Nachleben ossia di sopravvivenza delle immagini; studiando il Rinascimento fiorentino
Warburg nota la ricomparsa di figure e forme (definite pathosformel, ossia formule di pathos, di
gestualità espressive di pathos) proprie della classicità greca. Le immagini oltrepassano il tempo
come durata ed esistono in un presente fuori dal tempo. Kiefer sembra trasportare questa idea ad
ogni sua opera che, anche se abbandonata, non è mai veramente cancellata, può sempre essere
recuperata, acquisendo nuovi significati per l’artista, instaurando una nuova dialettica con il
presente. La sopravvivenza delle immagini non deve essere intesa come un processo statico: le
forme che ritornano o vengono recuperate sono plastiche e in continuo divenire. Il superamento del
tempo come durata è ciò che Nietzsche scoprì attraverso il pensiero dell’eterno ritorno71;
nell’attimo convivono passato e futuro, come due sentieri che passano sotto la stessa porta carraia,
ma sono entrambi infiniti, quindi l’attimo presente appartiene al tempo cairologico piuttosto che a
quello cronologico. Tutte queste concezioni vanno infatti nella direzione di un superamento del
tempo cronologicamente inteso, come successione di momenti ed eventi, ed aprono perciò la
possibilità di recuperare immagini e forme apparentemente passate, ma potenzialmente sempre
presenti, in grado dunque di dare forma e senso a nuovi immaginari e nuove narrazioni. Il confronto
con la tradizione occidentale è costante nel lavoro di Kiefer. La presa di coscienza delle radici della
propria cultura porta anche a cogliere con maggiore lucidità i fallimenti e le crisi del mondo
occidentale. Egli sembra dialogare, attraverso le sue opere, con i libri e i loro autori, dai poeti
tedeschi a lui contemporanei ai testi della tradizione cabbalistica. Un tema ricorrente, implicito,
nelle opere dell’artista è la ricerca di un senso da parte dell’umanità, indipendentemente da qualsiasi
fede o religione. Il riferimento alla tradizione biblica è invece esplicito nell’opera intitolata I sette
palazzi celesti esposta dal 2004 presso Pirelli HangarBicocca come installazione permanente. Le
costruzioni sono ispirate al trattato Sefer Hekhalot o “Libro dei Palazzi” presente nel Sefer Zohar, il
più importante testo cabbalistico della tradizione ebraica. Nel trattato vengono descritti numerosi
palazzi posti in successione che devono essere attraversati per compiere l’ascesa verso Dio. Si tratta
dunque di un percorso iniziatico di elevazione. Questa opera vuole simboleggiare l’aspirazione
prometeica dell’umanità moderna che tenta di elevarsi, quasi a volersi sostituire al divino, ma lo fa
su basi non solide e sembra dunque prossima al crollo. La modernità è qui rappresentata nel
materiale di costruzione di queste che assomigliano più che altro a rovine. Tuttavia, un eventuale
crollo delle torri, simbolo del crollo della civiltà che le ha prodotte, non comporterebbe una fine
definitiva. Nella concezione di Kiefer, le rovine sono destinate a trasformarsi in altro, in un ciclo
continuo. Ogni innovazione è una ricombinazione di vecchie tecniche; ogni trasformazione implica
un nuovo presente intriso di passato. Inoltre, le torri sono la raffigurazione del rapporto tra cielo e
terra; secondo l’artista i due mondi sono complementari; in particolare, grazie ai meteoriti la terra
ha raggiunto la sua completezza, integrando gli elementi di cui era priva. In senso figurato, le torri
sono fatte di polvere di stelle. Ciascuna torre ha un nome e un significato particolare: Sefiroth, la
più bassa, sulla cui cima sono posti sette libri in piombo richiama la tradizione ebraica della
cabbala. Il nome si riferisce alle emanazioni del divino espresse da dieci termini rappresentati con
delle luci a neon. Melancholia, ispirata all’alchimia, è caratterizzata dal celebre “poliedro di Dürer”
(figura presente nell’incisione di Albrecht Dürer del 1514 che porta il titolo Melancolia I) di cui
Kiefer realizza una copia tridimensionale e la appoggia sulla cima della torre. La torre Ararat è un
riferimento al monte su cui si dice si sia arenata l’arca di Noè. Sulla cima è presente proprio un
modello stilizzato in piombo dell’arca. La quarta torre dal nome Linee di campo magnetico è la più
alta . Due torri poste molto vicine risultano complementari e portano i nomi JH e WH che presi in
sequenza formano il nome di Jahweh. Ai piedi delle due torri vi sono dei meteoriti in piombo che si
ipotizza possano simboleggiare i cocci dei vasi citati nello Zohar (testo principale della cabbala),
quali rappresentazione del mondo del male (in quanto scarto) poi rigenerati da Dio che vi infuse
nuova vita. La settima torre porta il nome di Torre dei Quadri Cadenti poiché su di essa sono state
incastrate delle cornici di legno e piombo senza alcuna immagine all’interno, bensì solo lastre di
vetro infranto. Occorre evidenziare come l’installazione di Kiefer rappresenta una contraddizione,
in grado però di rendere esplicito il contrasto suggerito dall’opera stessa: l’aspetto fragile, rovinoso
delle torri risulta in contrasto con la struttura all’interno della quale sono situate, la quale sembra
essere votata a “testimoniare l’eternità trionfale del Moderno” . In particolare l’installazione I sette
palazzi celesti sorge nell’edificio chiamato “Navate”, costruito tra il 1963 e il 1965 dalla sezione
Elettromeccanica e Locomotive dell’allora azienda Breda Costruzioni Ferroviarie.
Nell’immaginario di Anselm Kiefer ogni catastrofe è anche una rigenerazione proprio perché
concepisce il tempo come un circolo in cui non vi è un principio né una fine definitiva. In questa
nuova istallazione sé. In questa istallazione Kifer Engelssturz (Caduta dell’angelo, 2022-2023), si
pone in dialogo con la severa architettura rinascimentale attraverso una potente materialità e le
dimensioni di oltre sette metri di altezza. Questo grande dipinto ha per soggetto il celebre brano
dell’Apocalisse che descrive il combattimento tra l’arcangelo Michele e gli angeli ribelli, metafora
della lotta tra Bene e Male. Concepita appositamente dall’artista per instaurare un dialogo con il
cortile di Palazzo Strozzi e la sua austera architettura rinascimentale, attraverso una potente
matericità, le monumentali dimensioni di oltre sette metri e il fondo oro che richiama i polittici
gotici. Il dipinto di Kiefer si inserisce nel contesto storico-artistico del luogo, enfatizzando la
fusione fra tradizione e contemporaneità. La presenza imponente nel cortile di Palazzo Strozzi crea
un’esperienza unica, suscitando riflessioni sulla caducità e la trasformazione, concetti intrinseci alla
rappresentazione della “caduta dell’angelo”. L’artista ha tracciato il titolo in alto a sinistra, e il
nome Michele nell’alfabeto ebraico ( לאכימ ( a destra. Gli angeli ribelli sono cacciati dal Paradiso
dall’arcangelo che con la destra impugna la spada, indossa un elmo piumato e con l’indice sinistro
addita il cielo manifestando simbolicamente la volontà divina, e, contemporaneamente, rivelando il
proprio nome. L’arcangelo si staglia, traslucido nella parte inferiore, sul fondo dorato, simbolo,
come nei dipinti trecenteschi, del mondo metafisico. Degli angeli caduti sono visibili solo volti e
vesti che precipitano nella parte scura, dove acquisiscono tridimensionalità. Inglobati nel caotico
impasto di materiali si distinguono indumenti moderni, come resti sopravvissuti a una catastrofe.
L’opera diventa una riflessione sulla lotta tra Bene e Male, nonché un invito a riconsiderare il
rapporto tra cielo e terra, tra dimensione spirituale e materiale. L’espressione “angeli caduti”
assume una portata più ampia, estendendosi a identificare tutti gli uomini e soprattutto l’artista. Il
collegamento tra le due sfere, enfatizzato sia dal dipinto che dallo spazio in cui è inserito,
costituisce una sfida all’ignoto: l’arte diventa così il mezzo attraverso il quale l’essere umano tenta
di affrontare il trascendente, cercando di ridurlo a una dimensione razionale. Per questa tela Kiefer
si è ispirato al San Michele Arcangelo di Luca Giordano eseguito dal pittore napoletano tra il 1692
e il 1702 e conservato oggi nel Museo di Cadice, il cui soggetto è basato sull’Apocalisse (12, 7-9).
Nel percorso al Piano Nobile il tema degli “angeli caduti” si ritrova nella prima sala con il
monumentale dipinto Luzifer (Lucifero, 2012-2023). Kiefer rappresenta l’angelo ribelle che
precipita nell’abisso, reinterpretato attraverso materiali che si riferiscono alla storia contemporanea
e recente. Un’acuminata e minacciosa ala di aereo in piombo sporge da una massa di materia,
creando un diretto riferimento al tema della guerra, ricorrente nell’opera di Kiefer. Se l’ala di aereo
potrebbe simboleggiare la distruzione che la guerra infligge, la massa di materiale sembra evocare il
caos e la devastazione che lascia dietro di sé. La figura caduta diviene invece un’immagine della
caduta dell’umanità, lanciando un monito toccante sulla guerra e sulla violenza. Nella sala
successiva con Für Antonin Artaud: Helagabale (Per Antonin Artaud: Eliogabalo, 2023), Kiefer fa
riferimento a Héliogabale ou l’anarchiste couronné (Eliogabalo, o l’anarchico incoronato, 1934),
libro dell’artista, attore e drammaturgo francese Antonin Artaud sull’imperatore romano Marco
Aurelio Antonino, detto Eliogabalo, figura a cui Kiefer aveva dedicato lavori già negli anni
Settanta. Giovane imperatore del III secolo d.C., Eliogabalo cercò di imporre il culto di Baal, il dio
del sole, come religione di Stato, ma fu assassinato per sopprimere la sua rivoluzione, diventando
così emblema della fragilità del potere. SOL INVICTUS Heliogabal (Sole invitto Eliogabalo, 2023)
è il titolo della seconda grande tela della sala caratterizzata da un luminoso fondo oro e da
giganteschi girasoli, in cui Kiefer fa anche riferimento alle feste pagane che celebravano la vittoria
della luce sulle tenebre. In questi dipinti emergono simboli costantemente presenti nel vocabolario
visivo kieferiano: girasoli e serpenti. Il serpente assume nel lavoro di Kiefer molteplici significati,
divenendo anche allegoria di rigenerazione, grazie alla caratteristica dell’animale di mutare la pelle,
alludendo così alla figura dell’artista e alla sua capacità di rinnovarsi. Il girasole, è pianta legata al
sole ma anche alla terra: tra l’altro Kiefer ha da sempre dimostrato venerazione per Van Gogh, al
quale, già adolescente, ha dedicato opere figurative e un testo. Kiefer stesso afferma che «la pittura
è filosofia», e una sezione dell’esposizione è incentrata su questa disciplina, che da sempre permea
il suo lavoro, con tre grandi opere inedite presentate per la prima volta a Palazzo Strozzi. La Scuola
di Atene (2022) riconduce a Raffaello e all’affresco della Stanza della Segnatura (1509-1511 circa)
con il consesso di filosofi ambientato in un edificio classico. Vor Sokrates (Prima di Socrate, 2022)
crea una sorta di albero genealogico dei filosofi presocratici, tra cui Archimede, Anassimandro,
Anassimene, Parmenide. Nell’opera Ave Maria (2022) sono rappresentati invece filosofi sia
precedenti che antecedenti Socrate, da Eraclito ed Epicuro a Platone e Aristotele. Se i filosofi
presocratici si concentravano principalmente sulle spiegazioni naturali e cosmologiche del mondo,
spesso ricorrendo a elementi come l’acqua, l’aria e il fuoco, dopo Socrate la filosofia sposta la sua
attenzione sull’umanità e sulla conoscenza, in un’indagine sugli aspetti etici, politici ed
epistemologici. Il tema della filosofia si ripresenta in mostra anche nella grande xilografia Hortus
Philosophorum (Il giardino dei filosofi, 1997-2011). L’opera raffigura un campo di girasoli il cui
formato verticale allude all’unione tra terra e cielo; uno dei fiori cresce prendendo nutrimento
dall’ombelico di un uomo nudo disteso a terra, che rappresenta l’artista stesso, oltre che rimandare a
una delle figure di riferimento di Kiefer: il filosofo, medico, occultista e alchimista inglese Robert
Fludd (1574-1637), secondo il quale ogni pianta ha un equivalente stellare nel firmamento. La
posizione del corpo, che sembra senza vita o nella posizione dello shavasana nella pratica yoga,
sottolinea il legame tra il mondo terreno e quello celeste alludendo a un percorso iniziatico che
consente di superare la paura della finitezza umana. Le sale centrali del percorso espositivo
accolgono una serie di vetrine, una tipologia di opere che l’artista utilizza dalla fine degli anni
Ottanta creando microcosmi in cui Kiefer inserisce materiali e oggetti collegati a scritte di suo
pugno. Le vetrine creano un ambiente protetto e controllato in cui i materiali contenuti possono
esistere nel loro spazio. Allo stesso tempo, rafforzano i temi dell’alienazione e dell’isolamento
presenti nell’opera di Kiefer. Lo spettatore è costretto a confrontarsi con l’opera da una distanza,
incoraggiato a riflettere sui diversi mondi e simbolismi che convergono nell’immaginario
kieferiano. En Sof (L’Infinito, 2016) è dedicata al pensiero cabbalistico e alla mistica ebraica, Das
Balder-Lied (La canzone di Balder, 2018) si ispira alla letteratura scandinava, Danae richiama la
mitologia classica. Tra i materiali utilizzati spicca il piombo, materiale d’elezione di Kiefer, alla
base di infinite sperimentazioni, apprezzato sia per la malleabilità e duttilità, sia per l’associazione a
temi alchemici grazie alla sua natura metamorfica. Il cristallo delle vetrine funge invece da
membrana che, come spiega l’artista, «è in qualche modo una pelle semipermeabile che collega
l’arte con il mondo esterno in una relazione dialettica». In Locus solus (Il luogo solitario, 2019-
2023), Kiefer fa riferimento all’omonimo testo del 1914, caposaldo della cultura surrealista, in cui
l’autore francese Raymond Roussel descrive opere e congegni irrealizzabili, destinati a rimanere
solo immaginati, nel locus dell’impossibile. Come in questa opera, tema fondamentale
dell’esposizione è il rapporto di Kiefer con la letteratura e il suo confronto con opere letterarie e
voci di ogni tempo. In dialogo con Locus solus, il dipinto Cynara fa riferimento alla mitologia
classica e alla ninfa trasformata in carciofo da Zeus, mentre A phantom city, phaked of philim pholk
(Una città fantasma, falsata dalla folla dei film) e archaic zelotypia and the odium teleologicum
(zelotipia arcaica e lo odium teleologicum) sono collegati al romanzo di James Joyce Finnegans
Wake. Queste due opere riflettono l’intricato intreccio di riferimenti presenti nel romanzo,
trasformando il complesso tessuto di parole in un’arte visiva che cattura l’essenza onirica della
narrazione. La mostra prosegue con l’installazione immersiva Verstrahlte Bilder (Dipinti irradiati,
1983-2023) composta da una suggestiva selezione di sessanta dipinti che riempiono completamente
le pareti e il soffitto di una delle più grandi sale di Palazzo Strozzi. Creata appositamente per la
mostra e dotata anche di grandi superfici specchianti poste al centro dello spazio, l’installazione
invita il visitatore a immergersi nell’arte stratificata e totalizzante di Kiefer. L’uso dei cosiddetti
“dipinti irradiati”, scarificati e scoloriti da radiazioni, aggiunge una dimensione evocativa e
malinconica all’installazione, invitando a una riflessione sulla fragilità della vita e sul potere
dell’arte. Olio su tela, gommalacca e tessuto sono solo alcuni dei materiali utilizzati per creare
un’esplorazione inquietante sui temi della distruzione e del decadimento, insiti nella condizione
umana stessa. Secondo l’artista, «la distruzione è un mezzo per fare arte. Io metto i miei dipinti
all’aperto, li metto in una vasca di elettrolisi. La scorsa settimana ho esposto una serie di dipinti che
per anni sono stati sottoposti a una sorta di “radiazione nucleare” all’interno di container. Ora
soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi». Altro grande
tema della mostra è la mitologia, personale e collettiva, che Kiefer esplora anche reinterpretando
suoi lavori precedenti: non come semplici riproduzioni, ma rielaborazioni di materiali, temi e
composizioni. In Der Rhein (Il Reno, 1982-2013), Kiefer rimanda alla sua infanzia e al rapporto con
il corso d’acqua che è simbolo dell’intera Germania. In Dem unbekannten Maler (Al pittore ignoto,
2013) Kiefer si identifica con la figura del “pittore sconosciuto” cui viene dedicato un memoriale,
onorando anche la memoria degli artisti che hanno subito la repressione e la censura o che sono stati
dimenticati dalla storia. Il riferimento alla mitologia classica è evidente invece in opere come
Daphne (Dafne, 2008-2011) e Nemesis (2017). La celebre ninfa insidiata da Apollo e la dea del
castigo e della vendetta sono rappresentate come abiti di gusto ottocentesco, in resina e gesso. La
loro identità è suggerita e rivelata attraverso gli attributi che sono al posto delle teste,
rispettivamente un ramo e un masso. Nell’opera Ave Maria turris eburnea (Ave Maria, torre
d’avorio, 2017) Kiefer si rifà invece all’immaginario cattolico. Nelle sue opere Kiefer fa un
richiamo alla precarietà della vita umana e la transitorietà del tempo, ma anche a dimostrazione
dell’importanza della poesia, della scrittura e della parola nella pratica artistica kieferiana, la mostra
si chiude con i celebri versi del 1930 del poeta Salvatore Quasimodo, tracciati da Kiefer stesso su
una parete della sala: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito
sera». Accompagna la mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti, edito da Marsilio Arte è frutto della
stretta collaborazione tra il maestro stesso, il suo Studio, il grafico Peter Willberg, che vanta una
lunga collaborazione con Kiefer, la casa editrice e Palazzo Strozzi. Il volume, curato da Arturo
Galansino con Ludovica Sebregondi, si apre con la Conversazione tra Anselm Kiefer e Arturo
Galansino registrata nell’ottobre 2023 a Croissy, nello studio dell’artista. Il testo è accompagnato
dalle immagini di un servizio fotografico realizzato in quell’occasione e da un raro scatto di Kiefer
a Palazzo Strozzi intorno al 1969-1970, durante una gita scolastica. Segue il contributo del teologo,
filosofo e sociologo Klaus Dermutz, dedicato a Creazione e caduta, con una riflessione sul tema
degli “angeli caduti” nelle opere della mostra, alla luce delle implicazioni filosofiche, letterarie, con
particolare attenzione alla cultura tedesca.
Biografia di Anselm Kiefer
Nato a Donaueschingen, in Germania, Anselm Kiefer è uno degli artisti più importanti e versatili di
oggi. La sua pratica artistica abbraccia medium diversi, tra cui pittura, scultura, fotografia,
xilografia, libri d’artista, installazioni e architettura. Kiefer ha studiato legge e lingue romanze prima
di dedicarsi agli studi d’arte presso le accademie di Friburgo e Karlsruhe. Da giovane artista è
entrato in contatto con Joseph Beuys e ha partecipato alla sua azione Save the Woods nel 1971. Con
le sue prime opere ha affrontato la storia del Terzo Reich e si è confrontato con l’identità post-
bellica della Germania come mezzo per rompere il silenzio sul passato recente.
Attraverso la parodia del saluto nazista o la citazione visiva e la decostruzione dell’architettura
nazionalsocialista e dei miti germanici, Kiefer ha esplorato la propria identità e la propria cultura.
Dal 1971 fino al trasferimento in Francia nel 1992, Kiefer ha lavorato nell’Odenwald, in Germania.
In questo periodo ha iniziato a inserire nel suo lavoro materiali e tecniche divenuti emblematici,
come piombo, paglia, piante, tessuti e xilografie, insieme a temi come L’anello del Nibelungo di
Wagner, la poesia di Paul Celan e Ingeborg Bachmann, oltre a riferimenti biblici e al misticismo
ebraico. L’artista ha ottenuto vasta attenzione internazionale da quando, insieme a Georg Baselitz,
ha rappresentato la Germania Ovest alla 39. Biennale di Venezia nel 1980. La metà degli anni ’90
segna un cambiamento nel suo lavoro: lunghi viaggi in India, Asia, America e Nord Africa hanno
ispirato un interesse per lo scambio di pensiero tra mondo orientale e occidentale, e strutture che
ricordano l’architettura mesopotamica, entrano nel suo operare. Sono evidenti accenni ai paesaggi
del sud della Francia, con rappresentazioni di costellazioni o l’inclusione di piante e semi di
girasole. Kiefer, appassionato lettore, arricchisce le sue opere con riferimenti letterari e poetici
stratificati. Queste associazioni non sono necessariamente fisse né letterali, ma si sovrappongono in
un tessuto interconnesso di significati e l’interesse per i libri, sia come testo che come oggetto, si
riverbera nel suo lavoro. Fin dall’inizio della carriera i libri d’artista hanno costituito una parte
significativa della sua produzione. Oltre a realizzare dipinti, sculture, libri e fotografie, Anselm
Kiefer è intervenuto in vari luoghi. Dopo aver trasformato una vecchia fabbrica di mattoni a
Höpfingen, in Germania, in uno studio, ha creato installazioni e sculture che sono diventate parte
del luogo stesso. Alcuni anni dopo il suo trasferimento a Barjac, in Francia, Kiefer ha nuovamente
trasformato la proprietà intorno al suo studio scavando per creare una rete di tunnel sotterranei e
cripte collegati a installazioni. Lo studio fa ora parte della Eschaton-Anselm Kiefer Foundation, ed
è aperto al pubblico regolarmente. L’istituzione della fondazione nel 2022 è coincisa con il ritorno
di Kiefer a Venezia dove, in parallelo alla Biennale, ha inserito nel Palazzo Ducale una serie di
dipinti ispirati agli scritti del filosofo italiano Andrea Emo. Anselm Kiefer attualmente lavora e vive
vicino a Parigi. Le opere di Kiefer sono presenti in importanti musei di tutto il mondo, tra cui il
MoMA e il Metropolitan Museum di New York, l’Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, l’Art
Institute di Chicago, il Philadelphia Museum of Art, il San Francisco Museum of Modern Art,
l’Albertina di Vienna, la Nationalgalerie im Hamburger Bahnhof di Berlino, la Pinakothek der
Moderne di Monaco di Baviera, il Sezon Museum of Art di Tokyo, il Louisiana Museum of Art, in
Danimarca, il Rijksmuseum di Amsterdam, il Centre Pompidou di Parigi, il Guggenheim Museum
di Bilbao, il Tel Aviv Museum of Art. Opere realizzate su commissione sono inoltre installate in
modo permanente al Louvre e al Panthéon di Parigi.
Palazzo Strozzi Firenze
Anselm Kiefer. Angeli caduti
dal 22 Marzo 2024 al 21 Luglio 2024
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 23.00
Foto Allestimento della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti Foto © Okno Studio