Giovanni Cardone
Fino al 6 Luglio 2025 si potrà ammirare a Palazzo della Penna – Centro per le Arti Contemporanee a Perugia una mostra che mette ha confronto Afro Burri Capogrossi. Alfabeto senza parole a cura di Luca Pietro Nicoletti e Moira Chiavarini, con il coordinamento scientifico di Alessandro Sarteanesi. L’esposizione prodotta e organizzata dal Comune di Perugia e Magonza, con la partecipazione della Fondazione Archivio Afro, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Fondazione Archivio Capogrossi, si concentra – attraverso più di cento opere, provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, l’Accademia di Belle Arti di Perugia, le Fondazioni e gli Archivi degli artisti e numerosi prestatori privati – sul momento di svolta stilistica che vide i tre artisti superare le ricerche figurative degli anni Trenta e Quaranta per seguire, nei primi anni Cinquanta, una individualità formale di respiro internazionale. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle figure di Afro, Burri e Capogrossi apro il mio saggio dicendo : In Italia per la maggioranza degli artisti , l’Astrazione e l’Informale sono punti di arrivo , dopo un tentativo di percorrere a tappe forzate un percorso di aggiornamento , altrove più scontato , attraverso una figurazione neocubista o picassiana , e una fase di iniziazione -sperimentazione su nuovi materiali della pittura , spesso basata su suggerimenti provenienti dalla Francia o dall’America . Questo premessa non deve tuttavia far pensare a una situazione povera e provinciale. In effetti l’Italia vive , nell’immediato dopoguerra , un’intensa stagione creativa , che la porta in pochi anni a un dialogo intenso e alla pari con altri paesi europei. Come si è detto , molti dei futuri pittorici informali attraversano, durante e subito dopo la guerra , una fase figurativa : alcuni come Morlotti , non la lasceranno mai, dando vita a un curioso ‘linguaggio ibrido’. Artisti provenienti dal clima della scuola romana , come Afro e gli scultori Leoncillo e Mirko che era il fratello di Afro, dopo una fase ‘figurativa e neocubista’ , affogheranno sempre più le loro suggestioni figurative in linguaggio astratto e, in seguito , informale , che tocca il suo apice creativo tra la metà degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta . Artisti origine o formazione veneziana , come Vedova o Turcato daranno una visione nuova all’ informale in Italia. Lo stesso succederà in seguito con Lucio Fontana con i suoi concetti spaziali e Alberto Burri che nella sua arte la materia diviene la sua pittura . Mentre posso dire che Afro che la sua pittura in particolar modo quella giovanile fu tutta spesa in affreschi e in composizioni a tempera, da cavalletto: sui muri, scene ispirate a miti o a temi di fantasia; su tavola, gli stessi temi o, per lo più, paesaggi e ritratti, dei quali fece un’esposizione alla Galleria della Cometa nel 1936. In tali dipinti colore e disegno si compiacevano a vicenda con una libera espansione di mezzi e insieme con una serrata fuga coloristica, che denunciavano del pittore interessi immediati e per lui indiscutibili; direi di quantità d’estro, tutti giocati nelle architetture, negli spazi che le figure traevano da quelle architetture. Il pittore vi arrischiava le vicinanze più disparate: Tintoretto, Veronese, Magnasco e certi capricciosi minori della sua patria friulana, che genialmente riassunti sortivano effetti di calligrafia barocca, assolutamente personali. Era una concertazione liberissima, ampiamente riuscita per una capacità del suo istinto che andava ormai allenandosi sulla via del carattere. Con queste affermazioni precise e calibrate, il poeta e animatore culturale Libero de Libero ricordava, molti anni dopo la sua conclusione, il periodo più fecondo dell’attività decorativa di Afro, tutta compressa tra la seconda metà degli anni Trenta e l’inizio del decennio successivo. Dal 1936, l’anno delle pitture murali realizzate per l’atrio d’ingresso del collegio dell’Opera Nazionale Balilla a Udine tale attività si sviluppava attraverso gli interventi di Casa Cavazzini a Udine, dell’Albergo delle Rose e della Villa del Profeta a Rodi nel 1938 per giungere ai lavori, purtroppo mai eseguiti, progettati per il complesso architettonico dell’E 42 a Roma. Si tratta di pochi episodi, ma particolarmente significativi, che traducono nella dimensione individuale del fare artistico da un lato il dibattito teorico in corso nell’Italia di quegli anni sul rapporto tra l’architettura e la pittura murale e il nuovo ruolo sociale che quest’ultima andava acquisendo, dall’altro permettono di registrare i passaggi salienti di un’evoluzione personale che riguardò il linguaggio pittorico di Afro in quel periodo di intensa concentrazione creativa. Le esperienze a cui ci si riferisce, furono sviluppate a livello regionale e non solo ma mostrano di incardinarsi strettamente con quanto andava avvenendo nel teatro assai più vasto dell’arte italiana dell’epoca, ancora alla ricerca di un linguaggio unitariamente rappresentativo dell’identità nazionale. Nella prospettiva indicata, riconsiderare la decorazione murale di Afro significa sostanzialmente passare da una rilettura neoquattrocentesca del “primordio” inteso nell’accezione di Corrado Cagli, per giungere all’elaborazione di un linguaggio originale modulato sulla rimeditazione dei testi pittorici sei e settecenteschi, veneti in particolare. Nell’arco cronologico rappresentato dagli anni Trenta, segnato dal trasferimento a Roma, dalla frequentazione degli ambienti legati alla Scuola di via Cavour prima e alla cosiddetta Scuola Romana poi, nonché dai viaggi a Milano e dai continui e reiterati rapporti con la provincia udinese, si assiste nel pittore di origini friulane alla maturazione di modalità artistiche nuove. Esse paiono debitrici tanto allo studio dei modelli quattrocenteschi quanto all’adesione al tonalismo di matrice romana per attestarsi infine sul confronto con i grandi maestri antichi da El Greco, a Rubens e Rembrandt, per non parlare di Veronese, Tintoretto e Tiepolo. Un filo rosso ininterrotto collega, dunque, le tempere dell’atrio d’ingresso nel collegio dell’ONB, solo parzialmente esistenti e frutto di un recupero risalente al 1989, alle altre ancora perfettamente conservate e oggi inserite nel percorso espositivo del nuovo museo di arte moderna e contemporanea cittadino, ospitato stabilmente a Casa Cavazzini dall’ottobre del 2012 . Nel breve volgere di tempo tra il 1936 e il 1938, Afro porta a maturazione il suo originale stile pittorico, nutrito delle esperienze più diverse e tutto orchestrato sul libero armonizzarsi del colore lasciato fluire sulle superfici a ricomporre i temi di un racconto che, solamente nel corso degli anni Quaranta, diverrà superfluo alle esigenze espressive dell’artista. Esulano da questo tracciato evolutivo solo le progettate decorazioni per il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi del mai realizzato complesso architettonico dell’E 42 a Roma. Pensate nei minimi dettagli sin dal 1939, queste ornamentazioni furono soggette a tante e tali pressioni e richieste della committenza governativa da apparire, nei risultati finali oggi documentati dai bozzetti, dai modelli e dalle foto d’epoca esistenti del tutto snaturate rispetto alla più genuina vena creativa di Afro. Esse, infatti, subirono nel corso del tempo, dal momento in cui l’incarico fu assegnato all’artista fino alla preparazione dei cartoni che precedono la realizzazione dell’opera, un processo di normalizzazione stilistica che si desidera focalizzare nel presente intervento con il ricorso a nuovo materiale documentario rintracciato in occasione di una recente mostra . Gli antefatti di questi pur importantissimi interventi rimasti allo stato progettuale, devono dunque essere individuati nei lavori di pittura murale già menzionati in precedenza e che si inquadrano nel contesto raccolto intorno alla VI Triennale di Milano del 1936 e al VI Convegno Volta, tenutosi a Roma in Campidoglio nell’ottobre dello stesso anno . Intorno ai due distinti eventi si era sviluppato il dibattito relativo ai rapporti tra pittura murale e architettura con una accentuazione, da parte del governo fascista, dell’attenzione rivolta alla decorazione monumentale, intesa sempre più come un veicolo privilegiato di propaganda. A tutte queste discussioni era seguita un’impennata retorica dei contenuti e dello stile che si attestò sul recupero di elementi fortemente realistici, uniti a una componente simbolica delle forme, funzionale alla dittatura e ai suoi scopi promozionali. Fu questa fase del dibattito e i suoi riverberi nella lontana provincia a consigliare, in ambito locale, la cancellazione dei lavori portati a termine da Afro presso l’edificio dell’ONB a Udine. Nel loro complesso le tempere, distrutte nel 1938, documentavano la piena fascinazione dell’artista per la pittura dell’amico Cagli, aiutato e affiancato nel portare a compimento imprese importanti tra cui quella dei pannelli decorativi per il Padiglione italiano alla Esposizione Universale di Parigi del 1937 . A testimoniare la fervente ammirazione di Afro per il pittore marchigiano interveniva la mostra che, nell’aprile di quello stesso anno, il giovane artista friulano aveva allestito alla Galleria della Cometa a Roma, presentato personalmente da Libero de Libero . Molteplici furono i commenti a questa personale che includeva, tra gli altri, il dipinto raffigurante il Ritratto di Aldo Merlo del 1937. Tra apprezzamenti e note d’interesse, l’esposizione fu accolta anche da qualche critica focalizzata soprattutto sull’influenza cagliesca che taluni intesero preponderante nei saggi pittorici di Afro, a scapito della sua autonomia creativa. A rispondere, tra gli altri, a queste osservazioni non troppo benevole era Luigi Aversano che dalle pagine de “La Panarie” annotava: “Qualche reminiscenza cagliesca in questa ben selezionata raccolta, si può riscontrare ancora in qualche composizione di soggetti; ma è reminiscenza di gusto: ché la pittura, la materia sonora trasparente viva, è ben sua” . A fronte di questi rilievi su cui probabilmente Afro ebbe modo di riflettere, la sua pittura cominciò ad arricchirsi di echi diversi e ad irrobustire la sua vena storicistica tornando a riflettere sui testi pittorici della sua formazione veneziana con un’attenzione particolare per il manierismo e il barocco tra Tintoretto e Veronese, non senza palesi richiami a Tiepolo. Ma non solo. È in questo momento che egli tornò a servirsi del disegno come strumento d’indagine e di ricerca, mentre la sua biblioteca cresceva con l’acquisto di volumi che rivelavano il suo rinnovato interesse per artisti come Velazquez, Rubens, Rembrandt, per non parlare di El Greco, già acquisito quale modello pittorico nel più recente passato, ma che si prestava ora a più approfondite meditazioni formali . Risalgono a questo periodo una serie di disegni e di piccoli dipinti che si qualificano come copie di questi antichi maestri o elaborazioni formali sulla scorta di quegli stessi exempla. Le fonti sono tutte libresche e facilmente rintracciabili tra i volumi ancora facenti parte della sua biblioteca: sugli scaffali trovavano posto, ad esempio, la monografia dedicata a Velazquez da G. Rouches nel 1935 e quella di J. Allende Salazar edita in Germania nel 1925, ma che una nota ci dice acquistata nel 1937; su El Greco Afro possedeva il volume di L. Goldscheiber del 1938, su Tiziano la monografia del Suida risalente al 19369 . Gli effetti di questi studi e di questi nuovi rovelli espressivi non si tradussero subito in immagini, ma continuarono ad agire in maniera sotterranea, rispuntando qua e là, inaspettatamente nelle occasioni più diverse. Se dei lavori compiuti nella Centrale Idroelettrica di Salisano non rimane più traccia e quindi è impossibile esprimere un giudizio sulla loro veste compositiva, i pannelli realizzati per il Carcere minorile di Roma, noti solo da alcune foto d’epoca, esibiscono ancora influssi caglieschi, benché temperati da una tavolozza più ricca e densa di impasti cromatici. Completamente rinnovati, invece, dovevano presentarsi i pannelli murali esposti alla Mostra autarchica del Minerale Italiano nel 1938. Tale inversione di tendenza, che non raccoglieva il consenso di tutti, fu segnalata con toni entusiastici da Cesare Brandi che in un articolo dedicato ad alcuni giovani artisti tra cui compariva Afro, del suo dipinto raffigurante i minatori in una miniera di carbone scriveva di “un filone abbandonato e solenne della tradizione veneta quella che si onora dei nomi di Tintoretto e di Bassano; chi l’ha vista, quella tempera violenta e abbondante, deve per forza accorgersi che, non fosse altro, è roba di casa nostra. E deve anche accorgersi che non risulta da una detrazione museografica, ma da un continuo e nuovo documentarsi, da una riassunzione libera e disincagliata, da una padronanza di mezzi che non è affatto facilità”. Nel fare riferimento a Tintoretto e a Bassano il critico coglieva acutamente le nuove fonti d’ispirazione a cui il pittore friulano mostrava di guardare, ricollegandosi a quella che era stata la sua formazione veneziana degli anni giovanili. Per quanto in questa fase della sua pittura ed è ancora il commento di Brandi Afro dimostrasse di aver rinnegato gli iniziali richiami a Giotto, Paolo Uccello e Mantegna che pur avevano contraddistinto il periodo precedente, la rielaborazione della tradizione del passato rimaneva assolutamente valida anche se usciva dai canoni indicati dal più avveduto filone della critica novecentista. Ma è nella dimensione privata e familiare delle tempere murali per Dante Cavazzini che Afro portò a piena maturazione la svolta stilistica già segnalata. Nella primavera del 1938, il giovane artista fu chiamato a intervenire sulle pareti dell’appartamento padronale che il commerciante udinese aveva appena fatto ristrutturare da Ermes Midena. In questo caso il tema è ispirato alla vita in campagna e in città, tra attività quotidiane e stagionali, giochi e momenti di svago. A dominare, qui, è la pittura nel senso più profondo del termine, una pittura tutta rielaborata sul rapporto con la tradizione del passato, veneziana essenzialmente, che rintraccia i proprio punti di riferimento tra Veronese e Tiepolo. A rilevarlo per primo fu Licio Damiani che scrivendo di questo ciclo decorativo ne sottolineava appunto la matrice “veronesiana e tiepolesca” sulla quale “si modella il ritorno idealizzato e idilliaco alla vita campestre friulana. È un ritorno, se si vuole, intellettuale, compiaciuto delle citazioni erudite e di un lessico che ama la rarità e i preziosismi, ma motivato da un sentimento che è di panica gioiosità, in cui è la stessa storia della pittura a diventare oggetto di poesia”. Come già era avvenuto nei lavori per il Collegio dell’ONB qualche anno prima, Afro affrontò la composizione a parete senza progettarla in anticipo, ma tracciando veloci e sommarie sinopie immediatamente sotto la superficie cromatica e procedendo poi speditamente a stendere, in pennellate fratte e ravvicinate, la sontuosa materia pittorica intrisa di luce e di aria. Analoghe influenze storicistiche si evidenziano nei dipinti che Afro lasciò nell’Albergo delle Rose e nella Villa del Profeta a Rodi, risalenti all’estate del 1938. A segnalare il nome dell’artista era stato Cesare Brandi in virtù del suo ruolo e dei suoi rapporti con la Soprintendenza all’arte dell’isola. Sui pannelli di cui si compongono i due distinti cicli decorativi, Afro dispiegava il racconto di un tempo mitico e attuale insieme, vivificato dalla stessa opulenza cromatica che aveva contraddistinto già l’intervento a Casa Cavazzini. Nelle decorazioni della Villa del Profeta, scene di vita campestre si alternavano a rievocazioni bibliche con incursioni nel mondo mitologico legato all’antichità classica. Nel frattempo a chiudere l’esperienza muralista era intervenuto l’episodio legato alla realizzazione, mai portata a compimento, del complesso architettonico dell’E 42 a Roma. Di quell’impresa, distinta in fasi diverse, ci rimangono oggi alcuni bozzetti e un modello che costituiscono un importante arricchimento alla storia di quelle decorazioni mai realizzate. Insieme alle foto d’epoca degli ultimi modelli è possibile ricostruire le vicende di quella sfortunata impresa, partita nel 1939, con l’assegnazione ad Afro di un incarico che nel tempo si tramutò nella richiesta di un grande mosaico raffigurante le Attività umane e sociali per l’Atrio posteriore del Palazzo dei Congressi. La vicenda costituisce, nel suo insieme, un addendum importante benché virtuale al catalogo di Afro e rappresenta, al contempo, un’occasione mancata che avrebbe potuto avere sviluppi inaspettati anche sull’evoluzione personale dell’artista. Nel 1939, dunque, Afro eseguì una serie di bozzetti finalizzati alla decorazione dell’Atrio dei Ricevimenti, nel Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi del futuro e mai portato a termine complesso dell’E 42 a Roma. A darne notizia ufficiale fu un periodico udinese che, commentando il primo premio del concorso “Si fondano le città” assegnato proprio al pittore friulano, sottolineava le rare capacità pittoriche di quest’ultimo a cui era stato affidato “proprio in questi giorni di illustrare un grande portico in un edificio della E 42”. La notizia risale alla primavera del 1939 e permette di collocare cronologicamente i primi contatti tra Afro e Cipriano Efisio Oppo che, in tempi abbastanza precoci, avrebbe richiesto all’artista una prima idea per la serie di affreschi destinati agli ambienti di rappresentanza di uno dei più importanti edifici del complesso architettonico all’Eur. La commissione, che giungeva senza l’effettuazione di alcun concorso si basava sui rapporti personali tra i due, rapporti mediati verosimilmente dal fratello di Afro, Mirko. A testimoniare di questa prima fase dell’impegno, intervengono tre bozzetti interpretabili come rappresentazioni di fasi diverse della Civiltà di Roma (collezione privata). Nel loro complesso le tre opere documentano il passaggio stilistico che interessò la pittura di Afro in quel torno di anni in cui superato il richiamo al primordio egli si volse progressivamente al filtro museale costituito dal repertorio cinque e seicentesco, non solo veneto. Queste proposte, però, non dovettero essere accolte con favore per il loro carattere scarsamente retorico e celebrativo. I documenti conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato e pubblicati da Simonetta Lux nel 1987 hanno permesso di dimostrare che il ciclo di affreschi fu infine affidato ad Achille Funi, mentre Afro fu incaricato della realizzazione di un grande mosaico per l’Atrio posteriore del Palazzo dei Congressi. Le ornamentazioni avrebbero dovuto comporsi di una serie di figure allegoriche in riferimento alle attività umane e sociali. Anche in questo caso l’incarico giunse all’artista friulano sulla base di rapporti personali e implicò nuovi contatti che risalgono certamente alla fine del 1940 quando egli eseguì un bozzetto sul tema assegnatogli. Fino a questo momento la concezione compositiva di tale lavoro era conosciuta soltanto da alcune foto della piccola tavola conservate presso il fondo relativo all’E 42, esistente presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e rese note da Simonetta Lux nel contributo già citato. Alle immagini d’epoca si può oggi affiancare l’originale modelletto dipinto da Afro in quella circostanza, opera conservata in una collezione privata. La piccola tavola, che aggiunge un tassello importante all’attività murale e monumentale di Afro al principio degli anni Quaranta, rispetta fedelmente quello che era il dettato dello “schema per le decorazioni ad affresco” datato 11 ottobre 1940 a firma dell’architetto Adalberto Libera. Secondo le indicazioni, il disporsi sequenziale delle figure doveva avere al ““centro filosofia ed arte = civiltà (raziocinio ed istinto) Uomo Donna (numero e amore = universo (Pitagora)” e come nucleo della scena centrale una “fiamma della civiltà”; la sequenza delle allegorie da rappresentarsi è la seguente: eroismo; scena costeggiante il riquadro della porta sulla scala, con “canto”, “teatro”, “poesia”, “danza”; stampa, navigazione, industria, lavoro, commercio, diritto, astronomia, geografia, fisica, matematica, filosofia e, simmetricamente dall’altro lato: arte, genio inventivo, chimica, storia, medicina, ordinas, religione, artigianato, agricoltura, scienze naturali, scolastica e intorno all’altro riquadro della porta scala architettura, scultura, cinematografia, pittura; nell’ultimo riquadro a destra virtù familiari”. Come evidenzia il confronto fra bozzetto e testo scritto, Afro si attenne scupolosamente alle prescrizioni anche se le foto conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato mostrano una versione ancora diversa della composizione, frutto forse di un fotomontaggio di altre tre scene allegoriche che furono poi eliminate. In apertura a sinistra, compare l’episodio dedicato all’eroismo, figurato iconograficamente con la citazione di Davide che sta per mozzare la testa del gigante Golia, episodio già inserito nelle decorazioni di Casa Cavazzini anche se con toni completamente differenti. A seguire compaiono tutte le allegorie richieste, mentre a chiusura, nell’immagine riferita alle virtù familiari, Afro riprende la scena della filatrice già dipinta a Udine nella sala da pranzo di Casa Cavazzini. Rispetto ai primi tre bozzetti presentati per l’Atrio dei Ricevimenti, la pittura dell’artista sembra dismettere i toni rubensiani e tintoretteschi per schiarire la tavolozza e inondarla della luce argentea che pervade di sé la scena di Si fondano le città del 1939. Le figure che precedentemente sembravano quasi perdere consistenza nel colore, si ricompongono pur continuando a mantenere riferimenti barocchi nel modo di atteggiarsi. Il senso di movimento presente nei primi modelli si raffredda qui nel dispiegarsi paratattico delle figure, con una accentuazione ben evidente del loro significato didascalico. La tavola raffigurante Il Commercio sotto le spoglie del dio Mercurio fa parte del medesimo ciclo decorativo e costituisce il modello in scala di una delle figure allegoriche inserite nella serie delle Attività umane e sociali. Essa ripropone, con buona approssimazione, la stessa allegoria del bozzetto di collezione privata con minime varianti nella posa della figura e nella foggia dell’elmo alato. Come il Mercurio di più piccole dimensioni, il soggetto di questo dipinto sta versando denaro da una cornucopia sopra la silohouette di una città che non è possibile identificare. Sulla base di questi rilievi, si può ipotizzare che il modello appartenga alla fase intermedia dei lavori commissionati ad Afro nel 1940, datazione questa che appare plausibile anche per la tavola in questione. Il contratto per la realizzazione delle decorazioni fu sottoscritto da Afro il 17 giugno 1941; con esso il pittore si impegnava a seguire la direzione e a consegnare bozzetti e cartoni per l’esecuzione di un grande mosaico policromo raffigurante appunto le Attività umane e sociali che avrebbe avuto le ragguardevoli dimensioni di 73×8,35 metri. Stando ai documenti, Afro consegnò regolarmente tutti i materiali richiesti in via preliminare, ma l’esito finale di quel processo creativo doveva risultare ancora diverso rispetto a quanto inizialmente prospettato. In un promemoria datato 20 maggio 1942, infatti, Adalberto Libera avanzava alcune osservazioni sul progetto decorativo di Afro, riflessioni che dovettero avere un peso sulla successiva elaborazione degli ultimi bozzetti, individuabili con i tre oggi conservati presso l’Ente Eur a Roma. Questa ulteriore fase esecutiva rimane documentata anche in una serie di fotografie d’epoca che ci mostrano i modelli in scala presentati in dirittura finale. Il risultato è un ridimensionamento complessivo del progetto e un mutamento dello stile che appare ora molto più sintetico, mentre alcune figure allegoriche sono completamente cambiate: Davide è ora raffigurato con la testa mozza di Golia in una mano, la spada sguainata nell’altra e un’espressione del viso sovranamente indifferente alla grande impresa compiuta: un’immagine ben diversa da quella inserita nel contesto decorativo di Casa Cavazzini a Udine solo qualche anno prima, trionfante di virile eroicità. Le Virtù famigliari, dal canto loro, si sono trasformate in una matrona romana con il fuso in mano e il figlio accanto: un velo di banalizzazione sembra essere calato sulle allegorie, allineate come diligenti scolaretti a esibire gli attributi da cui appaiono identificate. Sulla rappresentazione originaria, testimoniata dal bozzetto di collezione privata, sembra essere intervenuta una normalizzazione visiva, un processo di sintesi formale che rende la teoria di figure simile a un corteo paleocristiano. In effetti l’iconografia dell’opera attinge a piene mani al repertorio romano e tardo-antico e come è stato giustamente sottolineato da Simonetta Lux il complesso decorativo rimanda all’esempio delle pitture della Villa dei Misteri a Pompei. Evidentemente i condizionamenti imposti dalla committenza e dall’architetto Libera influirono pesantemente sull’operato di Afro e coincisero, fatalmente, con la crisi che egli stava affrontando in quel preciso momento del suo percorso artistico. Negli anni tra il 1938 e il 1941, infatti, il pittore andava ormai orientando il suo linguaggio espressivo in direzione dell’antica matrice veneta risalente agli anni della sua formazione, ma la veste iconografica degli ultimi modelli presentati alla committenza palesano tutt’altri riferimenti stilistici rendendone i risultati figurativi completamente eccentrici nella produzione di Afro in quel periodo. La divergenza stilistica che allontana il primo pensiero per queste opere dall’esecuzione dei modelli che avrebbero dovuto essere utilizzati per l’ingrandimento della composizione sulla parete non è assolutamente ricomponibile in unità e si spiega solo con le enormi pressioni subite da Afro nel corso della vicenda. L’imbambolata fissità delle figure allegoriche che avrebbero dovuto essere tradotte infine in mosaico non ha nulla in comune con le stesse allegorie pensate da Afro pochi anni prima con diversa freschezza e libertà creativa nel bozzetto di piccole dimensioni qui presentato, segno che l’imposizione della “ragion di stato” fascista aveva compiuto il suo corso. Muovendosi attraverso nuclei originali di ricerca, il percorso inizia con i primi disegni di Afro, appartenenti agli inizi degli anni Trenta, e ispirati a Rubens, El Greco, Velázquez, e con le sue pitture d’esordio, tra queste il Cristo morto da Mantegna, una delle opere provenienti da Casa Cavazzini di Udine (che conserva inoltre un importante ciclo di affreschi di Afro). Particolarmente coinvolgente e scenografica la sezione in mostra che approfondisce l’intervento di Afro per i lavori dell’Eur a Roma, anche attraverso video, documenti, fotografie e riviste. Tra i prestiti dell’Archivio Centrale dello Stato e di EurS.p.A. i grandi cartoni preparatori (di altezza 6 metri ciascuno), rappresentanti le Scienze e le Arti, insieme al prezioso bozzetto preparatorio per Le attività umane e sociali, risalgono la genesi dell’opera che era stata progettata dall’artista per il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi del complesso architettonico dell’E42 di Roma. I cartoni preparatori in mostra, grazie al contributo di Magonza, con la Galleria dello Scudo di Verona, sono stati oggetto di restauro. Di rilievo internazionale la presenza inoltre dei dipinti, tra cui il Ciclo delle Stagioni, che arrivano, dal Comune di Rodi, e che saranno esposti per la prima volta in assoluto, grazie anche all’intercessione dell’Ambasciata d’Italia ad Atene. Afro si recò nell’isola di Rodi con Cesare Brandi nel 1938 e lì realizzò due cicli decorativi tematicamente differenti ma stilisticamente affini, presso la Villa del Profeta e il Grande Albergo delle Rose. Una profonda ricerca d’archivio, insieme alla stretta collaborazione internazionale tra il Comune di Arezzo, gli organizzatori e il Comune di Rodi, il Museum of Modern Greek Art di Rodi e l’Ambasciata hanno reso possibile di rintracciare le opere di Afro e mostrarle per questa occasione. Il passaggio al linguaggio astratto e informale di Afro è testimoniato dalla Fondazione Archivio Afro che, attraverso il prestito di opere, bozzetti e documenti, permetterà anche di ricostruire nella parte finale della mostra la vicenda legata alla realizzazione del grande murales dipinto da Afro per la sede dell’UNESCOa Parigi nel 1958, il quale sancisce, in relazione alle altre opere in esposizione, una nuova stagione della ricerca artistica del pittore, che si svilupperà tra gli anni Cinquanta e Settanta, e che è rappresentata nei più grandi musei del mondo quali il MoMA, Guggenheim di New York e il Pompidou di Parigi ‘solo per citarne alcuni’. Potrebbe sembrare oziosa la ragione per cui abbiamo pensato forse, di mutare ladatazione tradizionale del periodo artistico più recente, che parte in genere dal secondo dopoguerra, cioè dal 1945: considerando quindi gli anni delle guerra quasi una coda, o una logica conseguenza degli sviluppi del decennio precedente, se non, quasi, un’interruzione nel flusso degli eventi artistci. Se in parte sono vere tutte e tre queste cose, è anche vero che per ragioni magari contigenti, il periodo bellico, più ancora della vittoria finale americana, è stato quello che ha determinato lo spostamento della capitale internazionale dell’arte da Parigi a New York ed ha rappresentato un importante momento di incubazione di esperienze che sono esplose nel periodo immediatamente successivo, come la grande fase internazionale dell’Informale. In questo periodo siamo nei primi anni quaranta dove un gruppo di artisti e fotografi europei andarono in esilio in America ed in particolar modo a New York . Da tante fotografie dell’epoca si evince che erano di nazionalità francese iniziando dal capo storico del Surrealismo Andrè Breton, gli artisti Masson, Tanguy, Ernest, Duchamp e Matta tra loro è presente anche Piet Mondrian che avrebbe vissuto gli ultimi anni nella città di New York lascandovi l’eredità della sua complessa speculazione sullo spazio e sulla superficie pittorica. Inoltre erano tornati in America anche come emigranti altri esponenti della cultura surrel-dada, oppure astratta e costruttivista, come Man Ray, Laslò Monholy – Nagy, e Hans Hofmann, un artista tedesco sottovalutato ma che la sua influenza fu determinante per la nuova generazione degli artisti americani. Altri artisti arrivarono in America come l’armeno Gorky e l’olandese De Koorning ma nel contempo molti di loro furono influenzati anche da Mirò, Picasso ed arrivarono anche gli echi di Kandiskij. Ecco perché nasce il dripping grazie al giovane Pollock, egli fu influenzato in parte dai colori di Marx Ernest. Bisognerà attendere il 1947 prima che questo procedimento diventi per lui abituale, con le dirompenti conseguenze che lo hanno reso celebre . Penso che Alberto Burri è l’artista italiano, insieme a Lucio Fontana, ad aver dato il maggior contributo italiano al panorama artistico internazionale di questo secondo dopoguerra. La sua ricerca artistica è spaziata dalla pittura alla scultura avendo come unico fine l’indagine sulle qualità espressive della materia. Ciò gli fa occupare a pieno titolo un posto di primissimo piano in quella tendenza che viene definita ‘informale’. Nato a Città di Castello in Umbria, segue gli studi di medicina e si laurea nel 1940. Arruolatosi come ufficiale medico, viene fatto prigioniero a Tunisi dagli inglesi nel 1943. L’anno successivo viene trasferito dagli americani in un campo di prigionia in Texas. Qui inizia la sua attività artistica. Tornato in Italia abbandona definitivamente la medicina per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Sin dall’inizio la sua ricerca si svolge nell’ambito di un linguaggio astratto con opere che non concedono assolutamente nulla al figurativo in senso tradizionale. Le prime opere che lo pongono all’attenzione della critica appartengono alla serie delle ‘muffe’, dei ‘catrami’ e dei ‘gobbi’. Questa opere, che esegue tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono costruite secondo la logica del quadro. Le immagini, ovviamente astratte, sono ottenute, oltre che con colori ad olio, con smalti sintetici, catrame e pietra pomice. Nella serie dei ‘gobbi’ introduce la modellazione della superficie di supporto con una struttura di legno, dando al quadro un aspetto plastico più evidente. Alla prima metà degli anni cinquanta appartiene la sua serie più famosa: quella dei ‘sacchi’. Sulla tela uniformemente tinta di rosso o di nero incolla dei sacchi di iuta. Questi sacchi hanno sempre un aspetto ‘povero’: sono logori e pieni di rammenti e cuciture. Al loro apparire fecero notevole scandalo: ma la loro forza espressiva, in linea con il clima culturale del momento dominato dal pessimismo esistenzialistico, ne fecero presto dei ‘classici’ dell’arte. Con alcune mostre tenute da Burri19 in America tra il 1953 e il 1955 avviene la sua definitiva consacrazione a livello internazionale. La sua ricerca sui sacchi dura solo un quinquennio. Dal 1955 in poi si dedica a nuove sperimentazioni che coinvolgono nuovi materiali. Inizialmente sostituisce i sacchi con indumenti quali stoffe e camicie. La sua ricerca è in sostanza ancora tesa alla sublimazione poetica dei rifiuti: degli oggetti usati e logorati ne evidenzia tutta la carica poetica come residui solidi dell’esistenza non solo umana ma potremmo dire cosmica. Dal 1957 in poi, con la serie delle ‘combustioni’, compie una svolta significativa nella sua arte, introducendo il ‘fuoco’ tra i suoi strumenti artistici. Con la fiamma brucia legni o plastiche con i quali poi realizza i suoi quadri. In questo caso l’usura che segna i materiali non è più quella della ‘vita’, ma di un’energia che ha un valore quasi metaforico primordiale – il fuoco – che accelera la corrosione della materia. Nella sua poetica è sempre presente, quindi, il concetto di ‘consunzione’ che raggiunge il suo maggior afflato cosmico con la serie dei ‘cretti’ che inizia dagli anni Settanta in poi. In queste opere, realizzate con una mistura di caolino, vinavil e pigmento fissata su cellotex, raggiunge il massimo di purezza e di espressività. Le opere, realizzate o in bianco o in nero, hanno l’aspetto della terra essiccata. Anche qui agisce un processo di consunzione che colpisce la terra, vista anch’essa come elemento primordiale, dopo che la scomparsa dell’acqua la devitalizza lasciandola come residuo solido di una vita definitivamente scomparsa dall’intero cosmo. Nell’opera di Burri l’arte interviene sempre ‘dopo’. Dopo che i materiali dell’arte sono già stati ‘usati’ e consumati. Essi ci parlano di un ricordo e ci sollecitano a pensare a tutto ciò che è avvenuto nella vita precedente di quei materiali prima che essi fossero definitivamente fissati nell’immobilità dell’opera d’arte. La poetica di Burri, più che il suo stile, hanno creato influenze enormi in tutta l’arte seguente. La sua opera ha radicalmente rimesso in discussione il concetto di arte, e del suo rapporto con la vita. L’arte come finzione mimetica che imita la vita appare ora definitivamente sorpassata da un’arte che illustra la vita con la sincerità della vita stessa. Posso affermare che Giuseppe Capogrossi che fu influenzato da maestri come Casorati e Carrà è evidente anche nel gioco dialettico delle contrapposizioni. Altri luoghi iconografici di incontro sono l’universo umanizzato del mondo del lavoro, ora esaltato come realizzazione individuale ora visto come legame con la terra e il paesaggio; la vita metropolitana e il sereno ambito domestico delle relazioni familiari; la festa e i suoi apparati colorati. Comune è anche l’inclinazione a legare bellezza femminile e ambiente, naturale o domestico. Infine, un senso estatico della natura, come Eden ormai remoto se non perduto, è riconoscibile in diverse opere figurative di questi anni. Se la chiave iconografica dà la possibilità di superare rigide schematizzazioni e contrapposizioni a vantaggio di un itinerario di lettura che consente di scoprire non solo le concordanze poetiche ma anche le dissonanze rivelatrici e significative, un secondo parametro «topografico» può rivelarsi non meno fruttuoso per l’identificazione di singoli profili e complessità di situazioni. Si consideri, in questa direzione, il ruolo propositivo, di influenza e di attrazione che negli anni trenta hanno avuto rispettivamente Torino, Roma e il bipolo Milano-Bergamo per il periodo che vede congiunte l’affermazione degli artisti di Corrente e quella del Premio Bergamo di cui gli stessi giovani pittori sono protagonisti. A Torino, nella svolta del decennio, l’accorta lungimiranza di Casorati e l’ardore insieme cristiano e europeo di Persico critico non conformista , non disposto ad autarchici arroccamenti né a consegnarsi a una separata «torre d’avorio» del mondo dell’arte – possono dimostrare l’inevitabilità di una scelta insieme modernista e legata a una solo, produttiva, cultura continentale. «I sei di Torino» Boswell, Chessa, Galante, Levi, Menzio, Paulucci esprimono chiaramente la necessità di collocare la ricerca pittorica, al di là di ogni magniloquente esercitazione retorica, in stretta vicinanza con il «gusto» europeo, particolarmente francese, derivato dalla esperienza, ma anche dalla iconografia «moderna» impressionista e postimpressionista. Quella che si è potuta definire «Scuola romana» o «École de Rome» si ricordi che la fortunata designazione si deve a Waldmar George che così definisce nel 1933 il lavoro di Cagli, Capogrossi e Cavalli esposto a Parigi e che Longhi, a proposito dell’opera di Mafai, Raphael e Scipione, aveva già parlato nel 1929 di «Scuola di via Cavour» e come ai nomi sopracitati debbano essere aggiunti Afro,Scialoja, Stradone, Pirandello, gli scultori Leoncillo, Mazzacurati, Fazzini è un clima artistico che accomuna una nuova generazione pervasa da istanze etiche di rinnovamento e dal desiderio di dare una forte rappresentazione fantastica alla vita emozionata e quotidiana di tutti. È su questo terreno, ideale e formale, che si sviluppano le profonde concordanze con gli artisti giovani operanti a Milano radunati alla fine del decennio in «Corrente», movimento che utilmente accomuna in uno stesso spazio operativo e riflessivo pittori e scultori con poeti, critici e filosofi. I modi di un rinnovato linguaggio espressionistico, adombrati nelle opere di molti artisti romani, sono qui più marcati ed espliciti così come le opzioni verso una rappresentazione figurativa che esprima la necessità di non separare libertà dell’arte e libertà delle manifestazioni di vita, individuale e sociale, secondo quanto andava sostenendo in quegli anni il filosofo Antonio Banfi. Il nuovo profilo dell’arte italiana alla fine degli anni trenta risulta ben rappresentato nelle quattro edizioni del Premio Bergamo dal 1939 al1942, autentico proscenio per una giovane generazione di pittori che sapranno dare un volto originale e riconoscibile nell’aperto contesto internazionale all’arte italiana del secondo dopoguerra. Continuano le esposizioni sull’arte durante il ventennio fascista e si continua a restituire il giusto merito ai fermenti artistici di quel periodo fortemente incoraggiati dal regime per mano di uomini illuminati come il ministro dell’educazione Giuseppe Bottai che promossero quello che è stato probabilmente l’ultimo movimento artistico italiano di portata internazionale. Dopo le due fondamentali esposizioni di Forlì, “Novecento”, e della fondazione Prada di Milano, “Post Zang Zang Tumb Tuuum”, è appena stata inaugurata a Cremona la mostra dal titolo “Il Regime dell’Arte. Premio Cremona dal 1939 al 1941” in riferimento a quel concorso pittorico d’arte fortemente voluto dal gerarca fascista Roberto Farinacci nella sua città natale a cui si contrappose volutamente negli stessi anni il “Premio Bergamo” patrocinato dallo stesso Bottai. Sebbene sia Farinacci che Bottai abbiano avuto come comune denominatore il fatto di essere fascisti della prima ora, entrambi uomini d’azione fondatori dello squadrismo delle proprie città, il primo a Cremona e il secondo a Roma, i caratteri dei due non poterono essere più distanti. Mentre Farinacci incarnò il movimentismo fascista permanente anche durante gli anni del potere del regime, Bottai, una volta dismessi i panni del rivoluzionario, rappresentò in pieno l’uomo politico borghese con una visione amplissima sulle materie che gli furono affidate, in questo caso specifico l’educazione del popolo italiano e l’arte, diventandone sia un abile manipolatore ma anche, da intellettuale coltissimo quale fu, un uomo rispettoso della qualità creativa in se stessa a prescindere dall’allineamento ideologico dell’artista. Mentre Bottai diventò un uomo politico di apparato dedicandosi a costruire la burocrazia del regime di stato, Farinacci continuò ad essere l’uomo della rivoluzione. Bottai trascorse il primo decennio in adorazione indiscussa del duce per poi, nel secondo decennio, venire a una posizione critica sempre più forte ma sempre nell’ambito di una elaborazione più interiore ed intellettuale che di azione, invece Farinacci tenne sempre una posizione di brutale indipendenza dal capo. Egli fu per Mussolini quello che Ernst Rohm, il fondatore delle truppe d’assalto naziste, le SA, fu per Hitler: un uomo d’azione affidabile per i momenti più incerti ma sempre pericoloso tanto che mentre il capo nazista riuscì a sbarazzarsi del suo amico di vecchia data in seguito a un sanguinoso regolamento di conti avvenuto nel corso di una notte, il Duce non riuscì mai ad eliminare il suo uomo forte un po’ perché ne ebbe sempre bisogno un po’ perché la spinta politica e militare di Farinacci fu sempre tale da mantenergli un’autonomia di azione, anche quando cadde per lunghi periodi in disgrazia. Ad esempio si è sempre pensato che dietro l’attentato a Mussolini di Bologna del 1926, di cui fu addossata repentinamente la responsabilità a quell’adolescente disgraziato di nome Anteo Zamboni che fu linciato sul posto, ci fosse lo stesso gerarca cremonese ma nonostante ciò nessuno gliene chiese conto, nemmeno in fase di indagine formale. Fu un uomo indomabile, violento, estremamente corrotto e, sebbene ricoprì pochissime cariche formali importanti, ebbe sempre un seguito politico non indifferente, soprattutto nella sua città, da cui pubblicava un giornale molto temuto, Il Regime fascista, da cui periodicamente partivano bordate sia verso oppositori politici ma anche verso gerarchi fascisti nemici causandone quasi sempre la caduta in disgrazia. È chiaro sin dai titoli del concorso dove volesse andare a parare Farinacci, come l’arte fosse solo strumento di propaganda sulla scorta dell’esempio tedesco e poco importa che aderirono artisti di livello o che in giuria ci fossero dei critici d’arte di primo piano come Giulio Argan o che le esecuzioni degli artisti in gara, alla fine fossero state di buon livello lo schiacciamento dell’arte alla volontà propagandistica ad imitazione del metodo hitleriano, con la sua visione pedante e piccolo borghese, la rese un’arte “minore” e l’intento di snaturare l’impianto artistico impostato da Bottai in un decennio fu vano. I risultati sono evidenti e non lasciano dubbi sulla mediocrità delle tele esposte e non è un caso che siano cadute in un totale oblio per sette decenni e che delle 360 opere solo una sessantina siano sopravvissute. Le poche foto allegate sono sufficienti per rendere chiaro il concetto. Termino ricordando che mentre Farinacci metteva in campo il suo concorso proprio nell’ultimo tenuto dal Premio Bergamo di Bottai, in piena guerra ormai perduta, il 1941, fu premiato vincitore il Cristo crocefisso di Guttuso, un’opera monumentale e rivoluzionaria che influenzerà l’arte nei decennio a venire bel oltre la fine del regime, totalmente fuori dai canoni della propaganda fascista e clericale. Bottai non solo la premiò ma la difese strenuamente contro la censura fascista che puntualmente arrivò e dal boicottaggio perpetuato dalla chiesa perché ritenuto blasfemo. Da lì a poco tutto precipitò, L’Italia cadde nel caos del 25 Luglio del 1943, Bottai per primo perse tutte le cariche e si diede alla macchia seguito da Farinacci due anni dopo. Si ricordi che mentre Bottai durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo si rivoltò contro Mussolini votando la mozione Grandi che portò alla fine del suo governo, Farinacci, nonostante le sue insubordinazioni plateali, si oppose strenuamente a Grandi fu fedele al Duce fino alla fine. Mentre Bottai, come Ciano, fu sempre aspramente antitedesco, Farinacci, tra i gerarchi fascisti, fu il più entusiasticamente filo nazista soprattutto dopo che furono approvate le leggi razziali a cui, peraltro, aderì anche Bottai. Mentre quest’ultimo con senso di disciplina e di responsabilità dava l’esempio ai propri camerati e alle truppe affrontando in prima linea tutte le guerre del fascismo rischiando per davvero la vita, per Farinacci, come per Starace, le guerre furono soprattutto un’occasione per compiere stragi di innocenti tanto da disgustare anche molti gerarchici di altissimo rango come Ciano, per commettere ruberie e passare il tempo in distrazioni lontano dalla prima linea. Perse una mano durante la guerra d’Etiopia mentre pescava con le bombe in un laghetto e tentò di far passare la ferita come causata da un’azione di guerra per averne i meriti militari e per poter usufruire della pensione di invalidità provocando la riprovazione irata del Duce, quando venne a saperlo, obbligandolo a versarla al fondo dei familiari delle vittime di guerra. Non poteva esserci così tanta distanza tra le personalità dei due uomini, in aperto contrasto per tutti i venti anni del regime. E se l’opposizione di Farinacci non costò la vita a Bottai fu perché quest’ultimo aveva un tal controllo della macchina statale, e per lungo tempo la stima sincera di Mussolini, da renderlo intoccabile per tutti. Ed è a questo punto che Farinacci, con l’approssimarsi della guerra nel 1939, decise di sfidare apertamente Bottai nel suo campo, quello della cultura, organizzando il Premio Cremona a cui Bottai rispose con il Premio Bergamo.Ma il confronto non poteva essere più impietosamente impari. Mentre Bottai era già stato promotore per almeno dieci anni di esposizioni, concorsi, triennali, quadriennali, confronti culturali e pubblicazioni di altissimo livello qualitativo, un immane lavoro teso a dare la massima visibilità alla produzione artistica del paese sia per permettere al regime di servirsene ma anche per il gusto di elevare lo spirito culturale del paese arrivando ad assicurare agli artisti e agli uomini di cultura una impensabile seppur relativa autonomia di pensiero e quindi creativa, invece l’intento di Farinacci era di seguire ideologicamente la linea culturale tracciata da Hitler in Germania ovvero di negare la dignità di arte a quella che quest’ultimo in persona denominò “arte degenerata”, da Picasso in giù.
L’arte ammessa era solo quella asservita all’idea di stato, un’arte retorica, stereotipata, priva di fantasia, apertamente funzionale alla propaganda del regime nazista. Questo fu lo spirito del concorso di Cremona e i titoli che diedero il nome alle gare nei tre anni in cui si tennero sono esplicativi della minima dimensione intellettuale: 1939, “Ascoltando alla radio un discorso del Duce”; 1940, “La battaglia del grano”; 1941, “La Gioventù del Littorio”.Non si discute l’indubbio merito della mostra di far riemergere dall’oblio della storia anche questa coda terminale dell’espressione artistica italiana di quel periodo ma piuttosto l’intento dei curatori di porlo alla stesso livello di qualità creativa del concorso di Bottai se non, addirittura, dell’intero movimento artistico italiano del periodo fascista. Cosa che a mio avviso non fu importante per capire meglio la cultura del tempo questo lo esprime attraverso le sue opere anche Mario Sironi con ‘I teleri’ per il Palazzo delle Poste di Bergamo il 19 gennaio 1934 venivano fissati sulle pareti della Sala accettazione dei telegrammi del nuovo Palazzo delle Poste, progettato da Angelo Mazzoni e già inaugurato nell’autunno 1932, i due grandi dipinti a olio di Mario Sironi dedicati uno all’Architettura ovvero, Il Lavoro in città e l’altro all’Agricoltura poi la famosa rappresentazione Il Lavoro nei campi che nel contempo divennero trasparenti e riconoscibili allegorie delle due più tipiche immagini della cultura e dell’habitat bergamasco. Commissionati all’artista nel 1932, i bozzetti preparatori avevano ricevuto il benestare del Ministero delle Comunicazioni ai primi di giugno, venendone prevista la realizzazione per l’autunno dello stesso anno in occasione della inaugurazione del Palazzo delle Poste. Le opere sironiane non trovarono posto se non due anni dopo, nel gennaio 1934, portati da Milano in ferrovia, sotto le cure di Vittorio Barbaroux, direttore di una delle gallerie milanesi maggiormente impegnate nel sostenere gli artisti contemporanei. Aveva probabilmente tardato Sironi nella consegna dei teleri a causa dei fitti incarichi professionali che lo chiamavano in questo stretto giro d’anni a grandi impegni, dalla mostra romana per il Decennale della Rivoluzione Fascista del1932 alla direzione degli interventi di pittura e scultura alla Triennale di Milano del 1933, accompagnati da fondamentali elaborazioni di ordine teorico, delle quali il Manifesto della pittura murale del 1933 è certamente il più significativo. I due dipinti per le Poste di Bergamo, dal punto di vista storico artistico, hanno dunque speciale rilevanza per la collocazione cronologica nell’itinerario creativo di Sironi, per le modalità rappresentative e le procedure tecniche adottate: la nuova scala monumentale delle rappresentazioni figurali, il particolare trattamento dei soggetti iconografici espresso in una cifra in cui si bilanciano modernità di temi e trasposta visione classica, la semplificazione radicale dell’apparenza pittorica, orientata a una chiara definizione dei rapporti tra temi rappresentati e ordinata complementarietà rispetto alla scansione dell’ambiente architettonico complessivo. I teleri sironiani per Bergamo segnano una svolta decisiva nella ricerca dell’artista prefigurando gli sviluppi dei successivi cicli monumentali e decorativi degli anni Trenta, e lasciano della città una metafora eroica e un’appassionante apologia. Il profondo rapporto tra Sironi e Bergamo si collega d’altra parte anche all’esperienza umana dell’artista che dispose alla sua scomparsa di riposare a Bergamo, accanto alla madre Giulia Villa ed alla figlia Rossana. Per quasi quarant’anni i due dipinti per il Palazzo delle Poste sono stati le opere d’arte contemporanea più vicini alla consuetudine quotidiana della vita della città. La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, debitamente autorizzata, è stata ora attrezzata in modo da consentire la piena fruizione delle due importanti opere di Sironi dando così una concreta risposta al desiderio, molte volte ribadito negli ultimi anni, della città di Bergamo. Prendo la statua dal particolare meno interessante, cioè il meno importante, quello che può suggestionarmi meno, quello che può dare a me più confidenza e meno soggezione; e quindi non parlo mai nel fare una statua, che essendo un’immagine già mi turba. E vado avanti, avanti, immaginandomi l’aldilà, che non voglio mai vedere. Quando capisco che, adagio, questa operazione sta riuscendomi, e che è in pieno mio dominio, allora mi volto, e guardo la statua per la prima volta. Con un colpo, le apro gli occhi, ed è viva. In questo modo incominciando dal particolare, che non era nella visione, che non apparteneva all’immagine avuta inizialmente, cominciò da ciò che non avevo pensato. Il famoso verso, che vien da Dio, me lo riservo per ultimo e le do il soffio finale. Il soffio è un tradimento inaspettato per la statua, e bisogna sempre aspettare un suo momento distrazione. Mutevole come un barometro, l’artista vive continuamente in alternative di speranze illusorie e di esagerate disperazioni. Le disuguaglianze dei suoi sentimenti producono le più curiose dissonanze spirituali. Dei suoi mutamenti formali non si possono dare che spiegazioni molto approssimative. Chi può infatti incasellare le sue inquietudini, le sue emozioni, se egli vive continuamente con qualche demone? Il corpo non ha espressione, ha carattere; e la testa è soltanto un’appendice indifferente, il più delle volte un’intrusa. Gli apparati sensori non sono in vista come nel viso e per questo le superfici diventano larghe e raccolte, e la costruzione pura. Ogni volta che noi vediamo un nudo, ci sembra sia stato creato allora, se ne riceve un senso di meraviglia, e infatti una strana animalità lo avvicina e lo lega come parte di una vitalità misteriosa alle altre cose della natura.In questi ultimi tempi si parla molto di derivazione dell’Ottocento, di atteggiamenti neoromantici; in fondo credo che è meglio partire dalla radice vicina che risalire ai tempi delle corazze e delle toghe. Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all’Ottocento e io ne sono stato testimone, quando ho visto la mia vecchia casa cadere, i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere. La pittura, per esempio, ci libera da molta accademia, l’individuo comincia a essere rappresentato un po’ come è, nella sua luce naturale, nei suoi gesti particolari: e non si dipingono più tante storie di santi, cupidi alati, uomini dignitosi e presuntuosi: e di questo, sinceramente, dobbiamo essergliene riconoscenti. La sostanza delle cose conta più dei colori, è la sostanza che determina la forma, mentre la plasticità è intensificata dallo strato d’aria che avviluppa le cose. E’ l’aria che ci fa indovinare e vedere col nostro cervello il lato per noi invisibile degli oggetti. Contro e pro il paesaggio La pittura di paesaggio è femmina e le sue conseguenze sono il rammollimento del gusto,l’esigenza e la smania delle soluzioni ambigue che solleticano il senso, il piacere, il capriccio, la fantasia, e in ultimo lo spirito, la malinconia e la baldoria e in genere tutti i romanticismi,la lontananza dalle soluzioni rigidamente logiche e necessarie. In conclusione l’amore di tutte le inutilità che trasportano la mente senza sorreggerla né guidarla nelle aspre avventure dello spirito. Mario Sironi, 1930 Il sole tramontante proietta sul paesaggio lunghi fasci di luce. I campi sono illuminati da questa rivelazione di luce, che qua e là si spegne, conferendo al paesaggio una sensazione del divino. Sotto questa sensazione del divino prendo i pennelli e dipingo il paesaggio che mi sta solenne davanti. Al di là della pittura da cavalletto, al di là del frammento pittorico La pittura, perduti i rapporti con l’architettura, cioè con la vita, si decompose, si frantumò annunziando fatalmente il trionfo del frammento, l’avvento del quadro da cavalletto, dell’espressione individualista. I bifolchi del sentimento i romantici continuarono a lungo a speculare sopra questa misera superficie di pochi centimetri quadrati illudendosi di riassumere in un rettangolo di modeste proporzioni evaso dall’ambiente funzionale, la potenza suggestiva del linguaggio plastico dei primitivi o dei classici, di coloro cioè che a contatto con Dio o con la terra, con l’immagine plastica e con l’architettura avevano compreso il compito umano dell’arte. La generazione dei bifolchi del sentimento – cioè dei pittori e scultori romantici che attribuiscono al quadro da cavalletto e al frammento pittorico o plastico poteri universali o valori plastici è in agonia. L’agonia è lenta, ma la certezza di questa fine è in noi. Noi futuristi italiani, precursori d’ogni felice indirizzo artistico e plastico, sentiamo imperiosamente la necessità di arginare l’attuale disorientamento della pittura e della scultura per la sopravvalutazione e sovrapproduzione del quadro e del frammento plastico, che ha esaurito totalmente lo sviluppo storico delle arti plastiche e la loro funzione in rapporto alla vita di un popolo in completa rinascita. Enrico Prampolini, 1934.I Sei di Torino La prima mostra dei «Sei pittori» fu il risultato di una lenta elaborazione di idee, e di un lavoro sotterraneo da cui erano esclusi ogni facile estro ed ogni speranza di successo. Per quindici giorni, Torino assistette a un carnevale non meno rumoroso e divertente di quello che nella capitale subalpina ha tante tradizioni di spensieratezza goliardica: la critica e il pubblico si accanirono contro i «Sei» con l’intuizione di un pericolo irreparabile; i giornali pubblicavano colonne e colonne di luoghi comuni, mentre i visitatori si accampavano nella saletta della mostra a spacciare le spiritosaggini più inaudite. Alla collera degli avversari, e alla impreparazione del pubblico, i sei pittori, fiancheggiati da un gruppetto di amici, opponevano quotidianamente il tranquillo decoro della ragione, e trasformavano la bottega di piazza Castello nella sede di un bizzarro comitato di salute pubblica. Edoardo Persico, 1931Era un ragazzo atletico e rosso di faccia, un’andatura da semidio e un ridere improvviso e pieno. A guardarlo, a sentire il calore della sua voce e l’impeto dei suoi discorsi, nessuno avrebbe pensato al male che lo rodeva, alla febbre che non lo lasciava più ormai da un pezzo. Tutti conoscevano il suo male, ma nessuno pensava alla sua morte. Ma Scipione aveva nel cuore la pena terribile di saper che non aveva tempo per esprimere tutto quel che dentro gli urgeva. Era di quei temperamenti dai quali ci si può attendere all’improvviso l’impossibile. Della sua generazione, era l’artista più completo e giovane, quello in cui erano più possibilità di imprevisto ed irruenza di genialità. Fu disegnatore grandissimo. Tra i moderni fu il primo a piegare ogni precedente esperienza disegnativa per raggiungere un particolare segno a tocchi improvvisi e sinuose sensualissime linee penetranti. In lui nessuna sciccheria, nessun modernismo d’accatto, nessun partito preso. Fra due pitture corrono cento, duecento disegni, espressi con mano nervosa, con ampiezza di scrittura rapidissimi, liricissimi. Era giovanissimo quando insieme a Mafai creò a Roma uno dei fenomeni più importanti nella storia della pittura dell’ultimo decennio. Chi erano questi due artisti che tra 1930 e 1931, Mario Mafai e Scipione al secolo Gino Bonichi uno dei maggiori protagonisti della Scuola di via Cavour ovvero la ‘Scuola romana’, il cui sviluppo fu seguito da vicino da Roberto Longhi, cominciano a collaborare continuativamente, l’uno come corrispondente da Parigi e l’altro come illustratore, con ‘L’Italia letteraria’. Mafai firma importanti articoli dove è chiara l’adesione ad alcuni principi critici maturati all’interno del dibattito sull’arte e il Fascismo a partire dagli anni Venti. Parallelamente Scipione esegue e pubblica numerose illustrazioni satiriche, influenzate nello stile da precise personalità artistiche europee e dedicate a fatti e scenari nazionali e internazionali Biennale, Quadriennale, Surrealismo, Galleria d’Arte Moderna di Roma, Reale Accademia d’Italia dove la sua capacità critica trova un’inaspettata e originale sintesi grafico-narrativa. Entrambi i contributi dei pittori romani meritano un più vasto approfondimento, ancora tralasciato dagli studi specialistici, e vanno inquadrati nell’ampio contesto culturale del Ventennio. Le sortite critiche di Mafai e Scipione infatti, posseggono un alto valore esemplificativo all’interno del complesso sistema culturale dell’Italia entre-deux-guerres. Il saggio è volto a dimostrare come la politica culturale fascista, col sostegno di molti intellettuali e artisti, fosse stata in grado, già nel 1930, di favorire l’elaborazione e l’applicazione di particolari strategie culturali e critiche finalizzate all’affermazione di un “primato” italiano anche in campo artistico-contemporaneo, per nulla disinteressato al contesto europeo. Il sodalizio artistico che legava Mario Mafai e Scipione- Gino Bonichi cristallizza oggi una stagione feconda dell’arte italiana che, secondo la vulgata, sbocciò inaspettata come un fiore nel deserto di un supposto immobilismo, proprio nel cuore dell’epoca fascista. Meriti di consapevole resistenza interna e di malcelata opposizione sono stati distrattamente attribuiti a posteriori all’operato di questi due artisti, i quali con il loro espressionismo avrebbero ingaggiato una lirica contropropaganda, cosmopolita e politicizzata, al regime. Ricalibrare tali semplificazioni, giustificate da necessarie, quanto fuorvianti ragioni ideologiche, può condurre ad ampliare la portata di un percorso che invece non ignora il complesso contesto culturale in cui si sviluppa e anzi aiuta a chiarirlo1 . Ed è un fatto che l’attività dei due sulle colonne de ‘L’Italia Letteraria’, cominciata nell’estate del 1930 e grosso modo coincidente con il loro debutto sulla scena artistica nazionale, possa essere un importante viatico per comprendere e valutare certe posizioni estetiche e politiche, destinate, nel caso di Mafai, ad evolvere fino alla sostanziale inversione, ma non completa trasformazione, e, in quello di Scipione, a fruttificare nella manciata d’anni che di lì in poi gli fu concesso dalla sorte di vivere. Il famoso sodalizio, peraltro non esclusivo non durò più di dieci anni, se si considera che Scipione morì nel 1933 come Mafai aveva iniziato ad affermarsi nel mondo delle esposizioni solo nel 1929. Il loro incontro data al 1924 mentre l’esperienza dello studio di via Cavour risale al 1926, ma già nel 1930 Mafai si trasferisce a Parigi, alternando soggiorni italiani e francesi fino al 1932. Tuttavia, esistono innegabili tangenze nel loro percorso, che emergono anche nell’attività per ‘L’Italia Letteraria’, dove i due sostanziano una ben definita proposta artistica e culturale veicolata dalle opere e dagli scritti. Tale proposta non va però confusa con un fiero scisma dal sapore bohémien, tutto giocato in buie conventicole fumose e in cenacoli ristretti. Assecondando le intenzioni che loro stessi apertamente manifestano, nel caso di Mafai principalmente con le corrispondenze da Parigi e nel caso di Scipione con i disegni satirici , va bensì rilevata una reale, e questa sì consapevole, volontà di incidere all’interno delle coeve politiche e dinamiche culturali organiche al regime, con eloquenti prese di posizione che preludono alla fondazione, insieme a Marino Mazzacurati nel 1931, di una vera e propria rivista: ‘Fronte’.L’ambito in cui si sviluppa la collaborazione di Mafai e Scipione con «L’Italia Letteraria» è da individuarsi nelle frequentazioni e nelle personalità che animavano il Caffè Aragno, luogo di ritrovo di parte dell’intellighenzia culturale dell’epoca, tra rondisti e solariani , in una Roma che, al debutto degli anni Trenta, si preparava all’ambizioso progetto di diventare la capitale culturale del cosiddetto “impero spirituale” fascista. In quegli anni infatti si erano trasferite in città le redazioni di importanti testate che, alla metà degli anni Venti, avevano intrapreso e sostenuto campagne ideologiche e culturali in seno al fascismo, creando vaste correnti. Così, ad esempio, ‘Il Selvaggio’ di Mino Maccari, stabilitosi definitivamente a Roma nel 1932, seguito nel 1933 da ‘L’Italiano’ di Leo Longanesi mentre, già nel 1927, era arrivata «La Fiera Letteraria» che, con l’abbandono della direzione di Umberto Fracchia a favore di Curzio Malaparte, affiancato l’anno successivo da Giovan Battista Angioletti, nel 1929 diventava ‘L’Italia Letteraria’. Inoltre, nel 1931, con l’inaugurazione della Prima Quadriennale nazionale d’arte di Roma, sotto l’egida di Cipriano Efisio Oppo, confluisce a Roma tutta l’ ‘Italia artistica’, chiamata a mostrare i frutti della nuova politica sindacale delle arti , orchestrata a partire dal 1927 e con l’adesione anche ideologica di molti artisti compresi Mafai e Scipione di fare di Roma un polo alternativo a Parigi che, in ottica di primato sancisse l’avvento di un nuovo corso culturale europeo e fascista. L’esperienza di Mafai e Scipione su ‘L’Italia Letteraria’ è anche una pubblica manifestazione di adesione a certe declinazioni dell’ideologia fascista così come si era andata articolando all’interno del dibattito sulle arti in relazione al nuovo ordinamento politico. Un confronto in prima istanza coagulato attorno alla nota inchiesta di ‘Critica Fascista’ del 1926 e poi sviluppato negli anni successivi all’interno dei circoli culturali e politici nazionali. Nei loro interventi infatti, è chiaro l’intento di prendere parte attiva nel processo di sistematizzazione e declinazione di un nuovo scenario artistico nazionale nelle vesti di membri di quell’ideale “partito degli artisti”, inquadrato all’interno delle politiche corporative di regime, che anelava di svolgere un ruolo rilevante, anche in termini educativi e morali, attraverso l’esercizio delle arti . Se nel 1926 e negli anni precedenti l’attenzione era rivolta principalmente, seppur non esclusivamente, al fronte interno, nel 1927 il confronto aveva preso sfumature internazionali, con una serrata inchiesta sullo scenario culturale e artistico italiano svoltasi sulle colonne della rivista francese “Comœdia”. Non è superfluo accennare a questa serie di interviste a diversi artisti e intellettuali residenti o di passaggio nella capitale francese , poiché alcune di esse accesero in Italia violente reazioni, che resero il rapporto culturale con Parigi e in generale l’opposizione tra italianismo e cosmopolitismo, un nodo importante del dibattito sulle arti, sviluppato negli anni successivi e ripreso con forza anche da Mafai e Scipione. È nota infatti la polemica suscitata dalle interviste di Alberto Savinio e di Giorgio De Chirico, che sminuirono i risultati delle politiche culturali del regime, non esprimendosi apertamente sul suo operato in altri ambiti. Quelle dichiarazioni costarono ai fratelli l’esclusione da diverse mostre, fra cui dalla Biennale del 1928 e nel 1931 dalla Quadriennale, per la forte e pubblica opposizione di Oppo che, sulla ‘Tribuna’, in relazione alla vicenda nel 1927, parlava di Parigi nei termini spregiativi di “grande Babele” e di “Internazionale artistica”. Meno note sono le interviste di Flippo De Pisis, Umberto Fracchia, Curzio Malaparte, Guido Da Verona, Antonio Maraini, Nino Frank, Pier Maria Rosso di San Secondo e Giuseppe Prezzolini, che pongono l’accento su temi quali la possibilità di un rinnovamento italiano nel fascismo, la creazione di una coscienza nuova, la sostanziale coincidenza di intenti di strapaesani e stracittadini nell’ottica di un rinnovamento nella tradizione e della ricerca di un carattere etnico nell’arte, la quale deve essere moderna ma non modernista, e la libertà della critica di cui discutono in particolare Prezzolini e Malaparte. Tutti questi interventi non sono estranei a Mafai e Scipione che con la loro attività giornalistica si affiancano e arricchiscono questo dibattito, avvicinandosi alle posizioni di Fracchia, Malaparte e soprattutto di Oppo, la cui famigliarità con i due è testimoniata anche da diverse lettere. Esulando da un tradizionale operato artistico dunque, anche Mafai e Scipione, come molti altri artisti italiani tra le due guerre, affidarono al mezzo giornalistico un’eloquente presa di posizione che li proiettò direttamente all’interno delle più vive tematiche legate al coevo andamento politico nazionale. Non dunque degli appartati “artisti di fronda” ma, come visto, consapevoli interpreti di un largo movimento di pensiero e azione direttamente influenzato dai presupposti del fascismo “rivoluzionario” che si esplica con una precisa volontà di partecipare e incidere. Una volta manifestata l’adesione alle politiche artistiche incarnate da Oppo infatti, Mafai e Scipione tentarono di mettersi alla testa di una nuova generazione artistica estranea ai precedenti primo novecenteschi e capace, da Roma, di armonizzare le tendenze nazionali riconducendole nell’alveo di valori politici e morali, rigenerati e normalizzati nel fascismo ed esportabili come un modello: una risposta italiana alla “deriva” culturale europea post-bellica. Il tentativo, tenace quanto concentrato in poco più di un solo anno, sfuma e si perde nella molteplicità di voci che negli anni Trenta si avvicendarono per imprimere una svolta o per affermarsi all’interno del dibattito sull’arte fascista, tuttavia resta essenziale per comprendere gli orientamenti di due artisti destinati a contare nella storia dell’arte italiana del Novecento. Se le condizioni di salute di Scipione ne rallentarono le attività fino alla morte nel novembre del 1933, lasciando appesa la sua eredità ad una celebrazione dai toni a volte idealizzanti, l’attività di Mafai proseguì all’interno del contesto dell’Italia fascista fino almeno al 1938. Un’altra figura fondamentale fu Renato Guttuso che nel 1933 attraverso Le ragioni implicite disse : “Il momento artistico attuale ha una storia così complessa che sarebbe assai saggio partito non arrischiarsi a parlarne. Forse questo momento dell’arte apparirà, novello Sisifo, come un portento di buona volontà, intesi come si è alla sudata fatica di portarci dietro, costi che costi, tutta una congerie d’indirizzi aprioristici, di schemi, di analisi, di sintesi, di presupposti, di ricognizioni su un passato prossimo,remoto e remotissimo. Pare che sia colpa di un’eccessiva critica: e forse non dipende che dalla personalità degli artisti: ma è anche vero che non siano pure e semplici ragioni politiche ad aver influito così stranamente a sovvertire le naturali funzioni dell’arte. Infatti, un’arte che per il momento almeno, ha perso ogni vitale destinazione deve per forza trovare ragioni sue proprie ed esplicite per vivere e sono forse proprio queste ragioni che a loro volta, la allontanano da una comprensione generale. E in particolare, se, come in questo caso, mi occorresse illustrare o scusare il mio lavoro pubblicamente, dirò che quelle ragioni ho cercato di rendere implicite che non vuol dire negarle e tanto meno non essersene avveduto non per programma -che sarebbe assai vecchio – ma per necessità di esprimere.” Mentre Fausto Pirandello nel 1935 Il pittore moderno solo i giovani hanno ammesso l’utilità di tutte le esperienze, creatrici di fermenti vitali, e le hanno superate, perché le hanno accettate, semplicemente come si accetta un pane quando si ha fame. Nella posizione pacifica di questo stato e nella sua congenita naturalezza sta la reale libertà d’azione morale del giovane d’oggi e la sua posizione di moderno. Renato Birolli, 1934 Tempi pericolosi ma straordinari oppure come disse ancora Renato Guttuso nel 1939 : “Eravamo appena ragazzi e ci misero in testa il problema della coerenza o almeno tentarono. Gli amici indicavano, tra i nostri, questo o quel quadro, questo o quel particolare e dicevano: ecco queste sono le qualità tue, questo è il tuo senso, cerca di tenerti su questa strada. Gli amici non capiscono mai i nostri amori e sempre vorrebbero che avessimo i loro. Allora le due «grandi correnti», erano, a Milano il «Novecento», e a Roma il cosiddetto»Neoclassicismo», per cui, a un certo punto, venne la auspicata Pasqua e si parlò di «Novecentismo neoclassico». Queste delizie pretendevano di tenere a battesimo la nostra generazione. Poi vennero ad insegnarci il «tono» e la «materia pittorica» e ci fornirono la solita polemica dei calligrafi e dei contenutisti con l’obbligo di scegliere o di qua o di là. Ora tutte queste avventure ci sembrano vergognose e remote, tuttavia l’aria che c’è in giro non va bene. Sembra che nessuno si accorga che questi sono tempi pericolosi ma straordinari. Se io potessi, per un’attenzione del Padreterno, scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, sempre che si abbia la forza e la libertà interna necessaria in tempi così pericolosi”. Giuseppe Capogrossi fece parte della ‘Scuola Romana’ dal 1930 al 1948 , poi ci fu il passaggio all’informale, da questo momento in poi ci fu il confronto con Lucio Fontana ed Alberto Burri. Vorrei definire il termine onnicomprensivo di ‘Informale’ tutta una serie di esperienze verificatesi negli Stati Uniti e in Europa tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni sessanta. E’evidente che, nello spazio di tempo di un quindicennio , in una situazione tanto articolata e vasta quanto quella intercontinentale presa in esame , non ha quasi senso parlare di ‘un’ solo ‘movimento artistico’ ; ed evidente che le sfaccettature sono tante e molteplici da risultare in alcuni casi incomprensibili tra loro. Dobbiamo pensare che in questo periodo vennero battezzate numerose etichette che solo oggi comprendiamo lo stesso temine: Action Painting e Abstract Expressionism in America , ovvero: ‘Pittura Materica o gestuale’ in Italia ‘Tachisme’ in Francia ecc. E’ ovvio in questo senso , che non solo il termine ‘Informale’ , come verrà qui usato , ha un suo valore ‘riassuntivo’ rispetto a queste esperienze diverse limitiamoci per ora a constatare delle differenze che sono solo fondamentalmente di orientamento e di scelta puramente formale dividendo tra gestuale , materica e segnica . Possiamo dire che l’Informale risolve il suo approccio all’arte apparentemente in modo formale con un ritorno al quadro, alla pittura, e alla scultura. Questo ritorno alla pittura consiste quindi nel coprire la superficie della tela con materie colorate questa distinzione tradizionale tra fondo e figura e tra forma e spazio che era sopravvissuta in linea di massima in ogni caso tutto è cambiato c’è quasi un’aggressione al quadro ed inoltre la pittura ‘veloce’ come l’informale richiedeva una trasformazione tra ‘forma e dinamica’ tutto diviene un movimento tralasciando la staticità che c’era nella tradizione astratta. La pittura è un’attività ‘autografica’ , quindi quasi una ‘scrittura’ , privata del pittore , determinata nel tempo ( che coincide col tempo, in genere veloce , di esecuzione del quadro ) , una pulsione interna che viene espressa attraverso il gesto oppure attraverso una sequenza di gesti. Alla base c’è il gesto questa è la novità della nuova ‘pittura’ che si evince in primis dal gesto, ma anche dal concetto di ‘improvvisazione’ come avviene anche nella musica ‘jazz’. Poiché la superficie del dipinto si presenta come un insieme in cui non sono realmente distinguibili figura e sfondo , il disegno, quando compare , non si presenta come contorno di una campitura ben delineata, ma come ‘struttura di segni’, che innerva la superficie del dipinto , così come il colore non riempie nessuna forma, ma si contrappone liberamente ad altri colori , facendosi esso stesso disegno , figura’, o superficie , o tutte e tre le cose contemporamente. In effetti tutti i residui di illusionismo spaziale che è dato di cogliere sono dovuti alla libera contrapposizione dei colori tra loro. Dato che la superficie è alla base del nuovo percorso comunicativo dell’artista e nel contempo si denota una differenza tra l’astrazione e la pittura informale alla base, c’è un linguaggio lirico di ascendenza espressionista. Negli Stati Uniti si inizia ha definire un tipo di pittura ‘Espressionismo astratto’ , come quella di De Kooning che cerca di percorrere sia il linguaggio figurativo e astratto la stessa cosa avviene in Europa dove si afferma il gesto e l’improvvisazione. Molti sono gli esempi l’informale figurativo è una pittura che procede con larghe stesure di superficie , in cui il disegno interviene spesso come una struttura ulteriore , che ricopre la superficie ‘a griglia’ . La gabbia dei segni non è necessariamente astratta , pur opponendosi alla nozione di ‘forma’ . Anche la linea paradossalmente si fa superficie. Appaiono quindi , a volto, delle ‘figure’ : quasi dei graffiti infantili , come nei quadri di Dubuffet , di De Kooning e di Antonio Saura. In Italia per la maggioranza degli artisti , l’Astrazione e l’Informale sono punti di arrivo , dopo un tentativo di percorrere a tappe forzate un percorso di aggiornamento , altrove più scontato , attraverso una figurazione neocubista o picassiana , e una fase di iniziazione /sperimentazione su nuovi materiali della pittura , spesso basata su suggerimenti provenienti dalla Francia o dall’America . Questo premessa non deve tuttavia far pensare a una situazione povera e provinciale. In effetti l’Italia vive , nell’immediato dopoguerra , un’intensa stagione creativa , che la porta in pochi anni a un dialogo intenso e alla pari con altri paesi europei. Come si è detto , molti dei futuri pittorici informali attraversano, durante e subito dopo la guerra , una fase figurativa : alcuni come Morlotti , non la lasceranno mai, dando vita a un curioso ‘linguaggio ibrido’. Artisti provenienti dal clima della scuola romana , come Afro e gli scultori Leoncillo e Mirko che era il fratello di Afro, dopo una fase ‘figurativa e neocubista’ , affogheranno sempre più le loro suggestioni figurative in linguaggio astratto e, in seguito , informale , che tocca il suo apice creativo tra la metà degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta . Artisti origine o formazione veneziana , come Vedova o Turcato daranno una visione nuova all’ informale in Italia. Lo stesso succederà in seguito con Lucio Fontana con i suoi concetti spaziali e Alberto Burri che nella sua arte la materia diviene la sua pittura . Giuseppe Capogrossi fece parte anche del famoso Gruppo Origine in tal senso posso affermare che le vicende attorno al Gruppo Origine, la Galleria Origine e la Fondazione Origine sono sempre state accompagnate da vive polemiche alimentate dalle personalità coinvolte. Le polemiche sono dovute innanzitutto alla stessa situazione artistica italiana, osmotica, sinergica e confusa, con sovrapposizione di movimenti e gruppi artistici, il passaggio di artisti dall’uno all’altro, la collaborazione tra gli stessi, le sfumature continue di posizioni e precisazioni, il tutto animato da un coinvolgimento emotivo e intellettuale notevole, che in realtà ha giovato all’arte stessa. Questi conflitti, come è ben noto, hanno provocato fratture insanabili, come quella avvenuta tra Mario Ballocco ed Ettore Colla, che determinò la fine del Gruppo Origine . Questa situazione deriva e allo stesso tempo incrementa la confusione tra le tre entità, e soprattutto tra il Gruppo Origine da un lato e la Galleria, poi Fondazione Origine dall’altro, che, come sostiene Ballocco, sono da tenere ben separate per diversità di intenti . Tuttavia se da un lato sono precisabili alcune differenze, dall’altro non si può negare una continuità e contiguità di esperienze. Il Gruppo Origine, composto da Mario Ballocco, Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi ed Ettore Colla, compare il 15 gennaio 1951 con la prima e unica collettiva allestita presso l’omonima Galleria Origine aperta da Colla a Roma in via Aurora 41, dove egli abitava. In questa occasione viene pubblicato un piccolo catalogo con un testo “programmatico” redatto da Ballocco, divulgato poi come Manifesto di Origine. Secondo le intenzioni di Ballocco, la mostra avrebbe dovuto tenersi a Milano presso la Galleria del Naviglio di Cardazzo, a dimostrazione che il nucleo originario del gruppo era costituito dall‟accoppiata Ballocco-Capogrossi. “Origine” milanese secondo Ballocco Ballocco racconta che, in occasione della mostra di Capogrossi alla Galleria del Milione nel febbraio 1950 presentata da Corrado Cagli, coinvolse Capogrossi nel progetto di dar vita a un gruppo di rinnovamento artistico italiano che tagliasse nettamente con il passato, chiamato “Origine”, ricevendo anche la sua approvazione su un possibile coinvolgimento di Alberto Burri; inoltre accettò la proposta insistente da parte di Burri di invitare anche Ettore Colla, per lo stretto sodalizio tra i due. L’ingresso nel gruppo di Colla, impegnato in quel momento in una produzione di smalti di tipo geometrico – dopo la pausa produttiva degli anni Quaranta in cui si era dedicato all‟attività organizzativa e pubblicistica come consulente di Linda Chittaro della Galleria Lo Zodiaco dal 1942 al 1944, e come collaboratore di Giulio Laudisa della Galleria del Secolo, nel biennio 1944-45 risulta inoltre molto funzionale ai loro scopi per la possibilità di mettere a disposizione alcuni locali a Roma nel seminterrato della sua abitazione in Via Aurora 41, come galleria del gruppo. Il gruppo Origine, tuttavia, non sarà mai tale in senso stretto, un movimento con programmi e attività, ma un convenire su alcune fondamentali premesse. Nel novembre del 1950, Ballocco pubblica un testo che dichiara la nascita del gruppo e la “sua” poetica, nel numero 9 di “AZ. Arte d’oggi” , rivista da lui fondata e diretta tra il luglio 1949 e l’aprile-maggio 1952, e vicina alla linea e alle istanze costruttiviste e genericamente neoplastiche del M.A.C., poiché rivolgeva la propria attenzione all’arte non-figurativa, al design e all’estetica industriale, e quindi a quella sintesi delle arti tanto invocata dai concretisti milanesi. L’artista scrive che le nuove tendenze dell’arte non-figurativa, da un lato legate alle esperienze astratte del primo Novecento (tra cui il futurismo), dall’altro cariche di nuova energia, sono purtroppo a rischio di involuzioni manieristiche, decorative e tecnicistiche, a cui il Gruppo Origine si vuole sottrarre: superando la contrapposizione polemica tra arte astratta e arte figurativa, il gruppo riconosce nell’individuo l‟unico fondamento della creazione indipendentemente da preoccupazioni di contenuto e forma, e indica nel libero svolgersi ed esprimersi della personalità le modalità operative. Ballocco non propone linee guida formali o stilistiche, ma, secondo un approccio teorico e teoretico, principi generali di carattere spirituale, e una metodologia nuova che propone un ribaltamento di prospettiva, cioè fare dell’arte nonfigurativa, non il fine, ma il mezzo per riconoscere se stessi, esprimere e comunicare. Il binomio espressione-comunicazione nel testo del catalogo della mostra del 1951 privo della seconda voce sarà una costante della ricerca artistica di Ballocco, sempre animato da un‟ansia comunicativa e didattica. Origine è inteso come “punto di partenza dal principio interiore, come bisogno di attingere alla più ingenua, libera, primordiale natura”. Un principio di natura spirituale, “morale” anche se Ballocco userà il termine solo nel testo della mostra del 1951da identificare con l’essenza dell’individuo, con la sua umiltà, onestà e coerenza spirituale, il cui riconoscimento dà l’avvio a un‟espressione e comunicazione coerente e sincera di sé attraverso modalità proprie, personali, senza vincoli, sovrastrutture e intellettualismi. È un impegno di responsabilità che ogni artista assume con se stesso e con gli altri. Per l’artista milanese si tratta di “assumere non solo una posizione anti-intellettualistica, ma soprattutto di esprimere il bisogno imperioso, tutto nostro e contemporaneo, di uscire dalla tensione cerebrale e psichica che incombe sulla vita dell’uomo d’oggi . Tuttavia non vuol dire cadere in una istintività o magari un automatismo casuale di ascendenza surrealista, quanto rispondere a un’esigenza impellente connaturata con l’essere uomo della seconda metà del XX secolo appena uscito della guerra. Quasi una sorta di conseguenzialità genetica, di crescita biologica e naturale. Più volte Ballocco, infatti, insiste sui termini “bisogno”, “esigenza”, necessità”. È un processo a togliere: come scriverà anche nell’articolo del numero successivo di “AZ”, significativamente intitolato Punto e a capo, “scossi tutti i valori spirituali, quindi a contatto con una brutalità ed un disinteresse che solo la ragione accetta, dobbiamo risalire nel tempo, saltando in senso inverso tutte le tappe tortuose dell’assurda storia dell’uomo attraverso i secoli. E ritorniamo alle origini nel senso umano della parola, che tanto più urgente quanto più avanzata è l’espressione del progresso, non per subirlo, ma per guidarlo”. “Origine”, quindi, per Ballocco come confermano sia Luigi Pestalozza sia Angela Ballocco significa cancellare il passato recente del periodo fascista, e ripartire da capo. Prendendo atto delle incognite e dello smarrimento che la seconda metà del secolo “inquieto” ci propone, sia da un punto di vista storico e sociale, sia spirituale, e propriamente culturale e artistico, è possibile e necessario compiere un’azione di rinnovamento profondo. Ballocco ribadisce tali concetti forse con frasi ancora più nitide e termini assoluti nell’editoriale dell’aprile 1951, Il principio negativo dell’arte per l’arte: “Non vi sono nuovi orizzonti che superino il limite dell’elemento spirituale originario dell’uomo, basilare ed eterno come nella creazione del mondo lo sono l’acqua, il fuoco, la terra, l’aria. E come questi elementi fisici rimangono intatti attraverso il corso del tempo e dei vani progressi della civiltà, così il concetto spirituale, che non può essere altro che un concetto di mistero umano, si manifesta al di là di ogni meschinità stilistica, di scuola o di tradizione con l’identico significato che il primo uomo ha dato al primo segno tracciato sulla roccia o alla prima parola articolata. Segni e parole espressi per bisogno naturale ed istintivo di comunicare” . Nei due testi appena citati Ballocco, ripercorrendo sommariamente la storia dell’arte del Novecento, se da un lato ricorda la liberazione dalla tradizione figurativa, dall’altro critica il perdurare del principio dell’arte per l’arte, di natura narcisistica ed edonistica sicuramente inadatto a quel contesto storico di cui alcuni sintomi si possono trovare nell’espressionismo, in alcune trovate di Picabia, Arp, e Picasso, e che ha portato alle trovate manieristiche neo-astratte (geometriche o nucleari). Parallelamente Ballocco ricorda che con Picasso si è conclusa quella successione artistica che prevedeva l’ispirazione a un modello antico o recente a favore di un‟ispirazione propria, che cerca di calarsi nella realtà contemporanea: “pensiero” e “volontà” indirizzano il mezzo espressivo, indifferentemente attraverso invenzioni astratte o elementi attinenti alla realtà, per creare una “sintassi” visiva e costruttiva che sia insieme espressione e comunicazione. Una chiarezza di pensiero che si deve esprimere in una lucidità, elementarità e interrelazione di forme, strutture, incastri, spazi e colori. E la chiarezza visiva e critica è proprio quella qualità che Giancarlo Buzzi invoca nel numero 10 di “AZ”, e che riconosce agli artisti del gruppo Origine. Buzzi, in questo testo, aggiunge al discorso un ulteriore concetto: tra le necessità che sottostanno alla creazione artistica già elencate da Ballocco vi è anche un bisogno sensitivo e affettivo. Se Ballocco non ne parla, è invece nel trafiletto di Luigi Pestalozza sul fascicolo 9 di “AZ”, accompagnato da quattro riproduzioni di opere dei membri del gruppo, che vengono suggerite alcune caratteristiche formali comuni sorrette da un medesimo “principio di umiltà”: le forme elementari, la colorazione violenta contenuta in una ristretta gamma di colori, l’espressione immediata e sintetica, la semplicità dei mezzi. E nel testo della collettiva del 1951, se da una parte si ripropone il discorso storico sull’astrattismo, il superamento delle polemiche tra realismo e astrattismo con un maggiore accento polemico nei confronti di un non-figurativo d‟intenzione neoplastica e concreta, il riconoscimento di un punto di partenza moralmente più valido in seno alla coscienza dell’artista e al suo umile raccoglimento, dall’altra si danno indicazioni stilistiche vicine a quelle sopra citate: rinuncia a una forma scopertamente tridimensionale, riduzione del colore alla sua funzione espressiva più semplice ma incisiva, evocazione di nuclei grafici, linearismi e immagini pure ed elementari, secondo una visione rigorosa, ricca di energia, antidecorativa. Proprio per il suo approccio sperimentale, Ballocco insiste (e insisterà sempre più in futuro) su un’indagine organica e funzionale di colore e forma, in cui “la forma trae la propria espressione dalla zona di spazio che riconosce indipendentemente dalla descrizione di un oggetto conosciuto, ed il colore riveste un suo preciso valore con significato proprio e non come rappresentazione colorata di cose convenzionali”. Inoltre, considerando il colore come una necessità vitale che produce degli stimoli sull’organo visivo, e da qui su tutto l’organismo umano, gli conferisce una funzione pratica della vita. Sviluppando l’analisi della natura e dell’azione del colore nell’ambito del fenomeno visivo della percezione, Ballocco sosterrà la priorità del dato cromatico, inteso come elemento primario, naturale e originario, sulla forma, dato concettuale e indotto, sebbene ne riconosca l’inscindibilità . Nel n.10 di “AZ” del dicembre 1950-gennaio 1951, nella stessa prima pagina con l’editoriale di Ballocco, Punto e a capo, e il contributo di Buzzi, la collettiva di Origine viene annunciata da un breve trafiletto con quattro riproduzioni di opere dei membri del gruppo esposte in mostra. Non si conosce l’esatto elenco delle tele esposte, tuttavia è possibile ipotizzare che nei quattro locali della galleria fossero state esposte circa una ventina di opere, 4-5 per artista, realizzate tra il 1949 e il 1950. ll cataloghino presenta tre opere per ogni membro del gruppo e il dettaglio di un’opera in copertina, in parte riconoscibili nell’unica foto nota della mostra di Ballocco vengono riprodotti tre olii del 1950 ascrivibili alle serie dei Reticoli e delle Grate dal 1948 al 1952 cioè composizioni non figurative rette da una sintassi articolata e spaziale, fatta di interrelazioni e incastri, pieni e vuoti di Burri abbiamo tre Catrami del 1950 in catalogo e un quarto nella prima di copertina di Capogrossi sono pubblicate quattro Superfici del 1950, tre in catalogo e una quarta in copertina, che mostrano la raggiunta maturità del linguaggio segnico, tra corsività manuale e più rigida strutturazione infine di Ettore Colla si possono vedere tre smalti del 1950 caratterizzati da una rigorosa ricerca sullo spazio (qui bidimensionale), o meglio sull’articolazione e modulazione delle parti e degli elementi all’interno dello spazio che torneranno come modelli per sculture e rilievi. Passando in rassegna queste opere, al di là di ogni stile personale, emerge con forza e chiarezza la comune indagine sugli elementi compositivi intesi come “organici”, cioè interdipendenti e strutturanti lo spazio. Una certa confusione unita alla volontà dei due poli del gruppo quello milanese di Ballocco e quello romano di Colla di mantenere e utilizzare il termine “Origine”, si palesa proprio nei mesi successivi. Da un lato nel numero 11 di “AZ” (aprile 1951) Ballocco conclude il trafiletto dedicato a Origine con poche righe in corsivo che rivendicano la sua nascita nell’ambito della rivista milanese, comunicano lo scioglimento del Gruppo e la trasformazione in Movimento, sempre alle dipendenze di “AZ”, con l’intento di organizzare una mostra dei progetti degli architetti Mariani e Perogalli dall’altro, a Roma, la Galleria Origine il 14 aprile inaugura la prima personale di Giacomo Balla dai tempi del Futurismo Balla. Omaggio a G. Balla futurista a cura di Piero Dorazio ed Edgardo Mannucci. Così scrive Ballocco in “AZ”: “Giova ripeterci a maggior chiarimento per sbarazzare gli equivoci che in ogni nuova occasione si tenta di porre, senza peraltro accorgersi che volendo intorbidire le acque per mascherare la povertà di idee, la malafede e la vanità affiorano più evidenti. E disprezzando la malafede, non ci prestiamo a prendere sul serio la vanità, quindi a polemizzare ad esempio con i fantasmi “incagliati nelle rivoluzioni a spruzzo”, alludendo a Corrado Cagli e alle sue Impronte indirette, e al tentativo di allargare il gruppo ad altri componenti. Tuttavia neppure lo stesso Ballocco aiuta a chiarire la situazione dal momento che proprio nello stesso numero di “AZ” dell’aprile 1951 annuncia la prossima apertura della personale di Balla organizzata dal “Movimento Origine” presso la galleria di via Aurora 41 . I romani Colla e Dorazio si alleano in “Origine” Dal 7 al 20 giugno 1951 la Galleria Origine ospita la mostra Tic Tac di Spazio con opere di Piero Dorazio, Mino Guerrini e Achille Perilli, divenendo per questa occasione come si legge nel pieghevole della mostra sede temporanea della libreria-galleria Age d’Or. La sede tradizionale di Age d’Or in via del Babuino 107/a infatti venne chiusa in quei mesi, dopo l’organizzazione, insieme all’Art Club e alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dell’importante mostra Arte astratta concreta in Italia dal 3 al 28 febbraio 1951 e delle ultime attività, tra cui la personale di Paola e Lori Mazzetti e quella di Sanfilippo dal 22 marzo al 5 aprile. La seconda mostra della Galleria Origine risulta essere, quindi, una sorta di ultima collettiva del gruppo. Il pieghevole cataloghino dell’esposizione recita così: “spazio è intorno al nucleo e spazio è la struttura intima di questo”. I tre sodali infatti cercano, in modi diversi, di sintetizzare forma e spazio in un solo tempo, per cui lo spazio è la struttura e il nucleo della forma, che si definisce solo nell’interazione ritmica con lo spazio. L’alleanza di Colla con Dorazio proposta a quest’ultimo da Burri rivela la volontà di convogliare gli sforzi artistici, pubblicistici ed economici esistenti nell’ambiente artistico romano più aggiornato a sostegno dell’arte astratta. Dorazio, grazie alla sua fitta rete di contatti internazionali, e alla forte propensione divulgativa unita alla lucidità teorica, diviene immediatamente figura di riferimento per le attività della galleria Origine, forse più dello stesso Colla. Leggendo tra le righe di scritture pubbliche e private di artisti, critici e letterati coinvolti nel panorama artistico e culturale italiano di quegli anni, emerge in modo chiaro come ci si trovi di fronte a personalità forti delle “prime donne”, in precario e costruttivo equilibrio tra volontà di collaborazione con continuo proliferare di gruppi e movimenti e necessità impellente di protezione e valorizzazione della propria individualità. Pertanto è impossibile pensare che nelle polemiche e nei distinguo continui non abbiano peso, oltre a sincere e valide convinzioni teoriche, anche aspetti caratteriali, eccessi ideologici e rapporti di forza e potere. Spesso si tratta di una ridefinizione di ruoli, all’interno dei gruppi e in direzione esterna. Anche quando tutto apparentemente funziona. Lo si è visto nelle vicende del gruppo Origine, soprattutto nel rapporto-scontro tra Ballocco e Colla; lo si può vedere nella collaborazione tra Colla e Dorazio, o in quella successiva (più tumultuosa) tra Colla ed Emilio Villa. In questo senso si è rivelata molto efficace la corrispondenza inedita tra Piero Dorazio e la baronessa Hilla von Rebay, direttrice del Museum of Non-Objective Art di New York (Solomon Guggenheim Foundation) e figura fondamentale del panorama artistico internazionale estremamente ricca e interessante dal punto di vista storico, critico e umano conservata presso i Solomon R. Guggenheim Archives di New York . Infatti, si vede come, per esempio, nelle parole di Dorazio la galleria Origine venga presentata come uno sviluppo delle attività del gruppo Dorazio-Guerrini-Perilli e della loro Age d’Or, senza alcun accenno a Colla e al gruppo Origine. Motivi tattico-strategici, politico-culturali, di posizionamento personale? Probabilmente un po’ di tutto ciò. Come sempre le lettere danno un’immagine dell’autore che egli stesso vuole dare, e rispondono a dinamiche di potere. In una lettera di Dorazio alla Rebay del 23 giugno 1951, l’artista comunica l‟avvenuta inaugurazione della collettiva Tic-Tac di Spazio (Tic-Tac of the Space), spiegandone i concetti che stanno alla base del titolo, e racconta l’attività propagandistica condotta nella galleria di Firenze (Galleria Age d’Or, Lungarno delle Grazie 10) e nel nuovo spazio molto più ampio a Roma, in via Aurora 41cioè la Galleria Origine, seppure non venga nominata, aperto con la chiusura del piccolo negozio in Via del Babbuino a Roma Libreria Age d’Or per un collasso finanziario. Nella missiva dell’8 ottobre successivo una delle prime in cui si discute la possibilità di organizzare in Italia, a Roma e/o a Firenze un’esposizione di opere non-oggettive della collezione Guggenheim Dorazio concorda sulla lista di opere da esporre e sollecita la loro spedizione presso la galleria in Via Aurora 41, qui indicata ancora con il nome di “Agedor” . E ancora in una lettera dell’anno successivo, 27 maggio 1952, riaprendo la discussione in merito all’organizzazione della mostra della collezione Guggenheim, comunica che sta programmando l’attività espositiva della galleria che dirige, anche in questo caso senza alcun accenno a Colla e agli altri. Nello stesso dattiloscritto annuncia l’apertura di una fondazione dedicata all’arte non-oggettiva (cioè la non nominata Fondazione Origine) e l’uscita del primo numero di “Arti Visive” . È solo con la lettera seguente del 20 giugno, che compare per la prima volta il nome di Origine, essendo la missiva scritta a mano su carta intestata “Origine” . Nella lettera del 31 luglio 1952 annunciando l’avvenuta pubblicazione del primo numero di “Arti Visive” se da un lato per la prima volta Dorazio fa riferimento a “un gruppo di amici” cioè il gruppo di artisti e letterati che ruotano attorno alla Fondazione Origine, dall’altro sembra quasi defilarsi, mettere in secondo piano la propria appartenenza al comitato direttivo della rivista, definendo i propri compagni “enthousiastic and mostly unprepared people”, molto probabilmente perché non pienamente soddisfatto del primo numero. Anche nel successivo dattiloscritto del 13 ottobre, il commento un po’ amaro e deluso sul primo fascicolo della rivista rivela una certa differenza di vedute all’interno del gruppo così eterogeneo e una sensazione di isolamento, ora che Perilli sta facendo il servizio militare nel Sud Italia. Il carattere personale del carteggio ricco di confessioni reciproche, unite a reazioni umorali mette in luce probabilmente posizioni e considerazioni più intime da parte di entrambi gli interlocutori, tuttavia non prive di alcune ambiguità, o almeno di alcune diversità forse strategiche. Indicativi sono il linguaggio e la terminologia critica utilizzata da Dorazio, che cambiano dal carteggio con la Rebay ai numerosi testi da lui scritti in questi anni, passando dall’ “arte non-oggettiva” all’ “arte astratta”, e viceversa, senza soluzione di continuità. Difficile quindi chiarire se l’insistenza sul termine non-oggettivo e la distinzione da quello non-figurativo o astratto, risponda a un’adesione strategica alle convinzioni della Rebay oppure no, e se la scelta del lemma “astratto” sia un adeguamento al livello del dibattito artistico italiano . Ad ogni modo l’apporto di Dorazio alle attività (espositive ed editoriali) della GalleriaFondazione Origine durante il biennio 1951-52 è molto intenso, come se nulla avvenga senza di lui. Oltre alle già citate Balla. Omaggio a Giacomo Balla futurista e Tic Tac di Spazio del 1951, Dorazio collabora all’organizzazione e alla curatela l’anno successivo della collettiva Astrattisti inglesi, in cui espongono Robert Adams, Sandra Blow, Eduardo Paolozzi e Victor Pasmore, e dell’importante mostra Omaggio a Leonardo. Segni intorno e nella natura umana dal 24 aprile al 7 maggio 1952, con cui viene inaugurata la Fondazione Origine. La mostra degli astrattisti inglesi recensita anche in “Spazio”, probabilmente da Angelo Canevari rivela in modo chiaro la volontà di aggiornamento internazionale della nascente Fondazione Origine, e l’attenzione verso le nuove proposte di arte non-oggettiva che “cercano non più una sola soluzione di spazialità, ma di causare una emozione, che abbia origine anche nella materia”. Dei quattro artisti, i due scultori Adams e Paolozzi infatti esporranno di lì a poco alla XXVI Biennale di Venezia nella collettiva dei giovani scultori inglesi curata da Herber Read, direttore dell‟ICA di Londra, e recensita da Mino Guerrini nel primo numero di “Arti Visive”. Tra le opere esposte, una selezione di dipinti non esposti da lungo tempo come l’iconica Superficie 274 del 1954 e Autoritratto con Emanuele Cavalli del 1927 circa, in cui l’artista raddoppia sé stesso attraverso il ritratto del sodale Emanuele Cavalli, che spunta da dietro le sue spalle. Il Paesaggio invernale del1935, ripreso dalla terrazza in cima a una palazzina di Prati, dove Capogrossi aveva il suo studio, ma anche inteso come pura e desolata messa in scena della vita umana (di proprietà di UniCredit). Inoltre, una straordinaria Superficie 76 bis (1954-1958) i cui segni si dispongono in modo articolato, creando degli spazi vuoti che hanno un peso determinate nella struttura compositiva; l’essenziale ed enigmatica Superficie 538 del 1961, caratterizzata da un piano nero che si incardina su rapporti e forze in atto nello spazio, potenziati dalle proprietà del colore e da sottili gradi di luminosità e di opacità dei pigmenti neri, interrotti diagonalmente da una fenditura bianca, su cui esercita una forza dinamica la combinazione di segni neri e di più grandi arancioni. Infine, un’imponente marouflage verticale, Superficie 419 del 1950 circa, il cui carattere bidimensionale è accentuato da una griglia su cui poggiano i segni grandi, che impongono un ordine ai segni più piccoli, e Superficie 106 del 1954 opera di forma ovale, intesa dall’artista come una forma continua, che contiene al suo interno una struttura compositiva in cerca di un raccordo con la dimensione visiva-sonora dello spazio esterno. Queste due ultime opere sono appartenute ai famosi architetti Luigi Moretti e Vincenzo ed Edoardo Monaco, che hanno avuto un ruolo determinante nella vicenda artistica e umana di Capogrossi. Infine oltre ad una concomitanza cronologica delle rispettive conversioni a un linguaggio di segno e materia, ad accomunare Afro, Burri e Capogrossi fu la loro presenza attiva a Roma, punto di snodo fondamentale per quelle indagini che li porteranno ad indagare i modelli francesi e americani. Roma, infatti, fu luogo di incontri e trampolino di lancio verso la scena internazionale, soprattutto newyorkese, dove le loro ricerche riscossero un significativo successo; Afro, ad esempio, che nel 1950 già si trovava a New York per collaborare con la Catherine Viviano Gallery, passò da una pittura neocubista ad una astratta, contraddistinta da una intensa libertà gestuale, da un uso espressivo e lirico del colore, dalla caratteristica stesura a velature;dal canto suo, Alberto Burri, compie il suo passaggio all’astratto intorno al 1947-48, con opere in cui la materia (legno, ferro, sacchi di juta, pietra pomice, plastica, cellotex e Vinavil) assume rilevanza nello sviluppo di un nuovo alfabeto astratto. Capogrossi, la cui cifra si distingue dalla matericità di Burri per la modulazione del suo “segno” di elementare semplicità in infinite combinazioni, divenne ben presto un protagonista, al punto da essere rappresentato negli Stati Uniti, nel 1955, insieme ad Afro e Burri, alla fondamentale mostra The New Decade. 22 EuropeanPainters and Sculptors, allestita al MoMA. Una sezione dell’esposizione è riservata alle opere su carta di Afro, Burri e Capogrossi che consente di porre l’attenzione sul tema del disegno, che entrando nei meccanismi più intimi dell’elaborazione creativa, lascia emergere i tentativi, le ipotesi e le idee foriere di novità. La mostra intende anche approfondire, attraverso materiali d’archivio alcuni inediti, riviste, cataloghi dell’epoca, libri d’artista, l’interesse che critici, poeti e letterati ebbero nei confronti dei tre artisti; esemplari sono i casi di Emilio Villa, Leonardo Sinisgalli e Cesare Brandi. Accompagna l’iniziativa un catalogo Magonza a cura di Luca Pietro Nicoletti e Alessandro Sarteanesi che presenta, un saggio di Luca Pietro Nicoletti, una conversazione tra Moira Chiavarini, Tommaso Mozzati e Marcello Barison, due testi di approfondimento di Andrea Cortellessa e Francesca Romana Morelli, e tre schede sugli artisti di Francesco Donola, Mattia Farinola, Gaia Simonetto.
Palazzo della Penna – Centro per le Arti Contemporanee a Perugia
Afro, Burri e Capogrossi. Alfabeto senza parole
dal 18 Aprile 2025 al 6 Luglio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Afro- Cronaca-nera-III-1953 – Galleria dello Scudo Verona
Burri-Sacco
Capogrossi Il-vestibolo-Donna-Bendata-lo-spogliatoio-degli-uomini-1932coll-priv
Afro- Foro-romano-1935-1920×1285
Capogrossi Superficie-14-1953- courtesy-Repetto-Gallery
Burri Festa dei morti