Giovanni Cardone
Fino al 12 Ottobre 2025 si potrà ammirare al Museo civico Federico Eusebio di Alba- Cuneo la mostra dedicata a Pinot Gallizio ‘Era Gallizio. Pinot Gallizio e la scoperta della preistoria: reperti, opere, collezionismo’ a cura di Maria Teresa Roberto. L’esposizione è dedicata al sessantesimo anniversario della morte di Pinot Gallizio, la Città di Alba ha realizzato la mostra in collaborazione con l’Archivio Gallizio di Torino e il Centro Studi Beppe Fenoglio e con il supporto della GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, nell’ambito del progetto Esterno GAM. Si tratta di un focus espositivo inedito, dedicato all’interesse dell’artista nei confronti dell’archeologia e della preistoria. La mostra è allestita negli spazi del Museo civico Federico Eusebio, che conserva i molti reperti da lui donati, frutto delle ricerche condotte tra il 1943 e il 1949 nei siti esplorati mezzo secolo prima dal mineralogista e paleontologo Giovanni Battista Traverso. Testi d’epoca, fotografie e manoscritti inediti, tra cui un registro sul quale Gallizio prendeva nota degli esiti delle sue indagini, raccontano la storia di quei ritrovamenti, che hanno avuto il merito di risvegliare l’interesse per la stazione neolitica di Alba e di aprire la via a successivi cicli di scavi. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Pinot Gallizio divenuto elemento di studio all’interno del mio saggio ‘Cenni di Fluxus. Tra Avanguardia e Movimento: un’eredità senza eredi (1963–2023)’ dicendo : Nello stesso periodo che vede protagonista Manzoni, in Italia si fanno strada anche altre energie che partendo da tesi differenti, quando non discordanti, mirano alla dissoluzione dell’opera d’arte in dichiarata lotta alla civiltà delle macchine e alle conseguenze catastrofiche che questa graverebbe sulla vita quotidiana. Il quadro è finito; una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? perché non liberare questa superficie? perché con cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta? I quesiti proposti da Piero Manzoni si inseriscono precisamente nel periodo in cui, dal 1957, l’artista milanese crea gli Achromes. Le tele che fanno parte di questa serie sono completamente bianche, eteree, dipinte con la calce, increspate, a volte ripiegate, tutte appaiono come cancellate. La negazione del quadro, la sua abrogazione coincide con l’esaltazione del non-spazio, anzi, per usare termini cari a Fluxus, con il “tutto è spazio”. «Infatti come spiega Manzoni su “Azimuth” se l’Achrome è ‘spazio totale’ a rigore nello spazio totale ‘non esistono dimensioni’».
Pinot Gallizio, artista che pur appartenendo a una generazione precedente, sposa lo spirito di emancipazione dal quadro che è presente in tutto il decennio e che trova proprio sul finire degli anni ’50 i risultati più avanzati. L’artista piemontese è il rappresentante italiano di un temperie culturale che per molti anni ha trovato nella città di Alba un centro di produzione e riflessione. L’esperienza del Laboratorio Sperimentale di Alba che, per certi versi, trova la sua continuazione non lineare nel Mouvement International pour un Bauhaus Imaginiste, è una delle elaborazioni che porteranno alla creazione dell’Internazionale Situazionista, ed è, prima di tutto, un ponte tra le ricerche italiane, i gruppi francesi e i principali protagonisti di CoBrA. Intorno al 1957, Gallizio inizia a lavorare al progetto della pittura industriale di cui nel 1958 redige il manifesto annunciando. Può darsi che la macchina sia lo strumento atto a creare un’arte industriale inflazionistica e quindi basata sull’Antibrevetto; la nuova cultura industriale sarà soltanto «Made in Popolo» o non sarà! Il tempo degli Scribi è finito. Soltanto una creazione e distruzione continua ed implacabile costituirà una ansiosa ed inutile ricerca di oggetti-cose di uso momentaneo, minando le basi dell’Economia, distruggendone i valori od impedendo la loro formazione; il sempre nuovo distruggerà la noia e l’angoscia creata dalla schiavitù della macchina infernale, regina del tutto-eguale; la nuova possibilità creerà un mondo nuovo del tutto diverso. La quantità e la qualità saranno fuse: sarà la civiltà del lusso-standard che annullerà le tradizioni. Del progetto è interessante notare non solo la dinamica di produzione, che prevedendo comunque l’utilizzo di mezzi pittorici cerca di depauperare l’artista imponendo attraverso lo scorrimento del rotolo una componente automatica e improvvisata, ma anche la proposta di vendita “al metro” atta a conseguire la caduta del valore commerciale. Nel 1959 Pinot Gallizio realizza, presso la Galleria Drouin di Parigi, la Caverna dell’Antimateria come risultato di un processo che è debitore tanto della Pittura Industriale quanto dell’ambiente situazionista e che si caratterizza a tutti gli effetti come opera ambientale. Le pareti, i pavimenti e i soffitti della galleria sono ricoperti con ampi rotoli di pittura industriale e l’ambiente è invaso dai suoni sintetici emessi dal tereminofono. La sensazione è che «nella mia caverna», spiega Gallizio, «basterà mettere uno specchio, piano concavo o convesso, per creare un labirinto». Solo due anni più tardi George Brecht confeziona un evento come Six Exhibit (1961), che, come spesso accade, grazie alla presenza di un event-score, non ha bisogno di essere vissuto per poter essere compreso. Non si tratta certamente di un site specific, anzi è estremamente adattabile poiché i sei oggetti esposti (soffitto, primo muro, secondo muro, terzo muro, quarto muro, e pavimento) non sono altro che le parti che compongono la sala di esposizione. La realizzazione dell’evento quindi, non è direttamente collegata al significato dell’opera. Trovarsi in uno spazio espositivo e realizzare che è lo spazio stesso ad essere presentato, che l’opera d’arte è lo spazio, consente di rompere il meccanismo che basa la conoscenza degli oggetti sulla vista. Sottraendo quell’unico punto sul quale la nostra visione può concentrarsi, l’artista stimola la riattivazione di un rapporto sinestetico con l’ambiente circostante. Cadere nel tranello linguistico-semantico costruito da Brecht significa uscire da quell’unica e sola dimensione sensoriale (e sociale), che anche Marcuse denuncia negli stessi anni, come oppressione dell’ “uomo sinestetico” (e libero). In perfetta concordanza temporale, Yves Klein in ambito francese conferma la necessità di rifuggire la logica rappresentativa consolidata nell’arte per effettuare uno spostamento dimensionale che apre le porte alle indagini concettuali. Se per alcune serie di sue opere come i Fuochi o le Antropometrie l’artista stesso si esprime con termini che rimandano all’idea di traccia, impronta, residuo di un processo avvenuto, attraverso la presentazione di operazioni che si espandono nello spazio reale la barriera dimensionale viene effettivamente abbattuta. Uno dei punti più alti viene raggiunto con la mostra La Spécialisation de la sensibilitéa l’état matière premièere en sensibilité picturale stabilisée, più spesso definita “la mostra del vuoto” o “il vuoto”, che inaugura il 28 aprile del 1958 alla galleria Iris Clert a Parigi. Klein vi espone effettivamente il vuoto, l’annullamento dello spazio, la sua assenza, ma contestualmente rende attivo un luogo, pregno di sensibilità. L’uomo, afferma Klein, «non potrà conquistare veramente lo spazio – il che è certamente il suo più caro desiderio – se non dopo aver realizzato l’impregnazione dello spazio con la sua propria sensibilità». Come per Manzoni, dunque, la soppressione di uno spazio simbolico, che sia tela o stanza poco importa, precede e suggella la riconquista del reale, definendosi come un superamento dell’arte stessa. «Ho superato la problematica dell’arte» sentenzia Klein «ma occorre averlo fatto però … e io l’ho fatto … per me la pittura oggi non è più in funzione dell’occhio essa è funzione della sola cosa in noi che non ci appartiene, la nostra vita». Klein è anche uno dei rappresentanti del Nuoveu Realisme, gruppo fondato nel 1960 da Pierre Restany, in cui militano tra gli altri anche Daniel Spoerri, Francois Dufrene e successivamente Christo che incroceranno le loro ricerche con Fluxus. Nell’anno di fondazione Restany redige un manifesto del gruppo, a cui negli anni si uniranno altri scritti, come il significativo A 40° au dessus de dada nel 1961, anno in cui insieme a Jeannine de Goldschmidt la fonda la galleria J, per consentire ai Nouveau Réalistes di portare avanti la loro ricerca. In questo secondo scritto è palese e dichiarata l’ascendenza dadaista mentre già nel primo testo il critico individua con puntualità alcune caratteristiche essenziali nell’azione dei partecipanti la pittura da cavalletto (come qualsiasi altro mezzo espressivo classico nel campo della pittura o della scultura) ha fatto il suo tempo. Vive in questo momento gli ultimi istanti, talvolta ancora sublimi di un lungo monopolio. Assistiamo oggi all’esaurimento e alla sclerosi di tutti i vocabolari stabiliti: alla carenza per esaustione dei mezzi tradizionali si oppongono delle avventure individuali sparse in Europa e in America, che tendono tutte, qualunque sia l’apertura del loro campo investigativo, a definire le basi normative di un’espressività nuova. L’appassionante avventura del reale colto in sé e non attraverso il prisma della trascrizione concettuale o immaginativa questo con l’introduzione di un ricambio sociologico allo stadio essenziale della comunicazione. La sociologia viene in aiuto della coscienza e del caso, sia a livello di scelta o di lacerazione di un manifesto, dell’allure (impronta) di un ‘oggetto, di un rifiuto o di un avanzo di cibo, dello scatenarsi dell’affettività meccanica, della diffusione della sensibilità al di là dei limiti della sua percezione. Allo stadio, più essenziale nella sua urgenza, della piena espressione affettiva e della messa fuori di sé dell’individuo creatore e attraverso le apparenze naturalmente barocche di certe esperienze, noi ci incamminiamo verso un nuovo realismo della sensibilità pura. Posso affermare che l’Internazionale Situazionista (IS) è stata non a torto definita «l’ultima internazionale». Di questo eterogeneo coagulo di menti brillanti e trasgressive provenienti da ogni parte d’Europa, infatti, l’aspetto predominante nella maggioranza dei casi è stato e continua ad essere quello politico, legato all’ultima fase della sua storia e alla carismatica partecipazione al Sessantotto francese. Ad un’analisi avveduta di storia non sfuggirà invece come gran parte delle componenti che alla fine degli anni Cinquanta animavano questo inedito progetto internazionale fossero profondamente imbevute di una consapevolezza estetica non solo rivoluzionaria, ma addirittura visionaria per aver saputo anticipare tanta parte delle operazioni estetiche della seconda metà del Novecento e dei primi decenni degli anni Duemila. Le intenzioni, le premesse e le aspettative degli artisti che nel 1957 si riunirono a Cosio di Arroscia (IM) fondando l’IS si sostanziavano infatti di una tradizione anarchico-estetica recuperata direttamente da Dada e dal Surrealismo; come le avanguardie storiche, questa rinnovata cordata di artisti e intellettuali intendeva abolire definitivamente ogni separazione tra arte e vita quotidiana, tra gioco e pratiche artistiche all’insegna di un rovesciamento rivoluzionario dello status quo borghese e di un rinnovato approccio estetico alla quotidianità. In tal senso, l’aspetto che contribuisce a distinguere più decisamente l’IS dalle istanze già avanzate dalle avanguardie storiche e dalle neoavanguardie ad essa contemporanee è senz’altro una vocazione collettiva (non solo statutaria) capace di contagiarne le posizioni teoriche e soprattutto le pratiche performative, delineando anzitempo i prodromi dell’ampio filone cosiddetto ‘partecipativo’ che si svilupperà in Europa e Stati Uniti a partire dagli anni Settanta. Con lucidità teorica e visionarietà estetica i Situazionisti avevano individuato la strada che li avrebbe condotti al ‘superamento dell’arte’ e avevano deciso di seguirla, consapevoli di dover accantonare il ruolo che l’arte aveva rivestito nel quotidiano per inaugurare un approccio corale e soprattutto relazionale. Andando per ordine, sarà bene avvertire di come la maggior parte delle scelte audaci – ma anche, come si vedrà, delle intransigenze più granitiche – si devono alla figura del francese Guy Debord agitatore della già avviata Internazionale Lettrista, sarà il mediatore tra le diverse anime che nel 1957 confluiranno nell’IS. In questi anni la sua presenza carismatica sembra essere in grado di far dialogare esperienze artistiche lontanissime tra loro in nome di un intento rivoluzionario dal suo punto di vista anzitutto politico: il gruppo CoBrA (acronimo delle principali città di provenienza dei partecipanti, Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam) che alla fine degli anni Cinquanta è già confluito nel Bauhaus Immaginista, creazione dei danesi Asger Jorn e Constant Nieuwenhuys e dell’italiano Pinot Gallizio, per superare posizioni meramente pittorico-informali e virare verso la ‘creazione di situazioni’, il Comitato Psicogeografico di Londra di Ralph Rumney, che pone invece le basi per il ripensamento in chiave urbanistica di un quotidiano con cui fare della città un ambiente adatto ad accogliere le situazioni costruite. È proprio la definizione di ‘situazione’ apparsa nel primo numero dell’organo di stampa «Internationale Situationniste» a chiarire, un anno dopo il congresso costitutivo, quali fossero le priorità del movimento: «realizzare una situazione, vale a dire un momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un’articolazione di eventi». Attorno a questo concetto apparentemente oscuro ruoterà la pregnanza estetica e innovativa della prima fase di vita dell’Internazionale: gli anni che vanno dal 1957 al 1962 circa, come si vedrà, sono certamente i più vivaci e proficui da un punto di vista sperimentale. A queste date l’ala parigina riunita attorno a Debord e alla compagna Michèle Bernstein (1932) non ha solo funzione di collante ma addirittura di detonatore di esperienze coraggiose e d’avanguardia; dalle pagine di «Potlach» prima e di «Internationale Situationniste» dopo, Debord traccia infatti le linee guida delle riflessioni sulla futura ‘società dello spettacolo’, summa di una concezione antiborghese dell’attività intellettuale ma anche e soprattutto politica. Grande forza ma al contempo immenso limite di un approccio cervellotico e veteromarxista che limiterà enormemente le potenzialità di quello che in questa fase cominciava a delinearsi come un vero e proprio movimento artistico. In questa sede sarà opportuno tralasciare ogni riferimento all’attività militante di Debord e del gruppo francese e delineare, invece, la parabola artistica di una minoranza di personaggi ingiustamente dimenticati dalla storia dell’arte – e dai suoi svolgimenti ambientali e performativi – al fine di farne emergere la notevole levatura estetica. Tra tutti l’artista Asger Jorn. Rappresentante del gruppo di base a Copenaghen, proprio sulla definizione di ‘situazione’ fa una precisazione lapidaria che aiuta a comprenderne le posizioni e la lontananza dalla visione parigina: «Here the field of situlogical experience is divided into opposed tendencies, the ludic tendency and the analytical tendency». Come dire: da un lato l’arte istintiva o pensata come un gioco, dall’altra fiumi di parole e brillanti interventi saggistici che non si tradurranno mai in azione. Relegando la ‘situazione costruita’ alla pura teoria. Una recente pubblicazione che, dopo decenni di oblio, accompagna una certa rivalutazione del progetto situazionista individua nel ‘comportamento sperimentale’ la chiave di volta per comprendere la carica innovativa del movimento. È innegabile come la sperimentazione abbia avuto un ruolo fondamentale nel vocabolario di tutti gli artisti che, pur in fasi diverse, hanno contribuito alla causa situazionista; ciò che troppo spesso viene tralasciata è invero la vocazione collettiva ad un atteggiamento ludico che si è saputo coniugare brillantemente con un’attenzione particolare alle istanze sociali. Proprio questo legame garantisce la giusta distanza da altri movimenti che negli anni Cinquanta e Sessanta hanno fatto del gioco un mezzo di opposizione ad una quotidianità a dir poco catatonica; basti pensare alle esperienze del ben più noto Fluxus. Ma queste sono riflessioni che spostano l’attenzione su anni ed esperienze ancora di là da venire, già svincolate dal pesante fardello politico del gruppo parigino. Tornando alle personalità che meritano una riconsiderazione, sarà opportuno occuparsi dell’attività di Pinot Gallizio e del già citato Asger Jorn, campioni di una generazione indissolubilmente legata alla pittura e ai suoi svolgimenti materico-informali ma al contempo pronta a coniugarla con una dimensione autenticamente ambientale. Il ruolo di Gallizio è fondamentale sin dalle prime battute della storia dell’IS; è ad Alba, il suo paese natio, che i futuri membri si riuniranno nel 1956 per partecipare al Congresso dei Liberi Artisti e intrecciare i legami che costituiranno alleanze ed equilibri del movimento già dall’anno successivo. Inoltre, le esperienze inaugurate da Gallizio sviscerano tutte le possibilità conquistate dalla pittura nel cuore degli anni Cinquanta, proiettandola con vigore nella seconda metà del Novecento. È il 1957 quando nasce la ‘pittura industriale’: l’idea è quella di mettere in discussione il mercato dell’arte dimostrando come ‘l’unicità del gesto’ e l’auraticità del concetto siano pure illusioni, facilmente surrogabili da una pittura riproducibile e disponibile un tanto al metro. Una pittura informale privata delle energie libidiche che risiedevano nell’Espressionismo astratto di Jackson Pollock e caricata di una dose di ripetitività che rendeva finalmente possibile una produzione pressoché infinita. Presto arriverà il momento di evolversi e pensare di fare un ‘uso situazionista’ di questi lunghi rotoli di pittura industriale, trasformando un semplice supporto bidimensionale in un luogo di interazione con il pubblico. Queste le premesse per la realizzazione della prima pittura ambientale realizzata negli spazi di una galleria: la Caverna dell’Antimateria, ospitata presso la Galleria Drouin di Parigi alla fine del 1958, consisteva in uno spazio interamente rivestito di metri e metri di pittura industriale che poteva essere praticata da visitatori chiamati a interagire con le sostanze pittoriche . Da bravo chimico, Gallizio aveva previsto una pittura che si potesse fruire anche olfattivamente, perché a base di sostanze odorose derivanti da erbe, e acusticamente, perché a ciascuna parete corrispondeva uno strumento in grado di reagire ai movimenti avvertiti con la produzione di altrettanti suoni da appositi altoparlanti. Al di là degli straordinari significati relazionali, sarà bene soffermarsi sul titolo dell’impresa: ‘caverna’ richiama senz’altro una dimensione originaria, addirittura nomadica che è lecito riscontrare nel codice genetico di gran parte delle avanguardie e in particolare nella storia personale di questo artista piemontese ‘antimateria’, invece, allude senz’altro alla formazione scientifica di Gallizio, ma anche ad una chiara volontà di dirottare la sua pittura verso l’alleggerimento, di allontanarsi da una pittura materica e informale che a queste date aveva già fatto il suo tempo per lasciare spazio al neonato comportamentismo. Andare contro la materia cromatica per sondare le infinite possibilità che l’arte comportamentale sembrava promettere. La figura di Asger Jorn è certamente meno sfaccettata nonché più intrinsecamente legata agli umori di Debord; l’artista danese emergerà con forza a livello internazionale non appena sarà tramontata l’esperienza di CoBrA e inaugurato il Bauhaus Immaginista prima e l’IS poi. Non appena si sarà avveduto di come l’azione artistica non dovesse necessariamente sublimarsi in oggetto estetico ma potesse essere concepita anche come comportamento. Perché questo avvenga è necessario che al già citato Congresso dei Liberi Artisti del 1956 di Alba partecipi anche l’Internazionale Lettrista guidata da Guy Debord; da allora la carriera pittorica che Jorn aveva provveduto ad impostare in chiave antifunzionalista e informale virerà su posizioni più cerebrali e coraggiose. In seno al movimento francese, infatti, già dal 1953 si discuteva intorno ai concetti che sostanzieranno la storia del Situazionismo: tra tutti dérive e detournemént, due strumenti diversi ma complementari per la trasformazione dello spazio urbano (e non solo) in terreno relazionale e partecipativo; lavorando a stretto contatto con Guy Debord, Jorn avrà in particolare il merito di individuare nel detournemént il mezzo adeguato a riconfigurare l’esistente in chiave situazionista, come dimostra Fin de Copenhague (1957). Concepito come un assemblaggio funambolico di testo e immagini ‘detournate’ dall’intervento pittorico, si tratta di un progetto editoriale significativo per aver saputo anticipare l’interesse dell’IS per gli studi di urbanistica e ‘psicogeografia’ accostandoli con intelligenza alle immagini della ‘società dello spettacolo’ . Seppur in una dimensione ancora prettamente teorica, di fatto appare lecito riscontrare tutti gli elementi che condurranno l’IS verso la costruzione di situazioni capaci di coniugare l’ambiente con il comportamento. Inoltre proprio in occasione della redazione di Fin de Copenhague, Debord avrà modo di avvedersi di come il ruolo di Asger Jorn all’interno del movimento risulti tanto più prezioso in qualità di trait d’union con la sua ‘dissidente’ ala scandinava. Già dopo i primi anni di attività – dal 1957 al 1962 – era emersa con forza la necessità di definire l’evoluzione delle istanze che in origine avevano fatto da collante ad esperienze tanto diverse; ci si chiedeva, in sostanza, se fosse ancora politicamente lecito riporre la rivoluzione nelle mani del proletariato e – ciò che rileva ai fini della nostra ricerca – se si potesse coralmente parlare di un’arte situazionista o piuttosto non fosse meglio ammettere soltanto un ‘uso situazionista dell’arte’. Lambiccamenti intellettuali che mostrano, già nei primi anni Sessanta, il vacillamento di quell’unità di intenti che aveva caratterizzato il primo consesso a Cosio di Arroscia. A questo va aggiunta una tendenza sempre più condivisa da parte degli artisti situazionisti a coniugare la militanza nel movimento con una carriera indipendente e fin troppo disinvolta nel relazionarsi al mercato dell’arte: è questo il caso dello stesso Jorn con le Modificatiòns alla Galleria Rive Gauche o di Pinot Gallizio con il progetto di un’installazione labirinto allo Stedelijk di Amsterdam o di Constant e le sue maquettes nel medesimo museo. Incertezze e interessi di questa portata risultarono quantomeno inaccettabili agli occhi di Debord e del gruppo integralista francese; per tali ragioni questo momento di crisi segnò l’inizio di una serie di espulsioni illustri (a partire dal 1960 nell’ordine Gallizio, Constant e Jorn) che porteranno l’IS sulla strada di un impegno esclusivamente politico, rintracciabile nei fatti del Maggio francese. Il 1962 è senz’altro l’anno della svolta, dell’assestamento concettuale e persino latitudinale; perché i successivi svolgimenti estetici, quelli che si è altrove definiti ‘dimenticati’ o quantomeno sottovalutati, non riguarderanno più Parigi e gli umori rivoluzionari di Debord, ma la Svezia e il vivace gruppo scandinavo guidato da Jorn e suo fratello minore Jørgen Nash, protagonisti della Seconda Internazionale Situazionista. Certamente privo della chiarezza pittorica del fratello maggiore, Nash ha però il merito di aver traghettato i resti dell’IS verso una fase antiautoritaria convintamente sperimentale, proponendo l’esperienza comunitaria di Drakabygget. La data di nascita gli impone, infatti, un atteggiamento antagonista rispetto ai colleghi situazionisti della prima ora; a queste date, e dopo anni di acceso confronto, non sembra più lecito indugiare su posizioni che ammettono la creazione artistica su base esclusivamente pittorica. È ora di sposare fino in fondo l’originaria causa situazionista, cominciando a pensare la pratica estetica come attività collettiva e sociale, come momento di scambio relazionale con un pubblico che sembrava essere stato dimenticato. Definendo la fattoria di Drakabygget come il loro quartier generale, questo numeroso gruppo formato tra gli altri da Asger Jorn, Jens Jorgen Thorsen (1932-2000), Jacqueline de Jong (1939) e Guy Atkins (1934) decretava la nascita di un Bauhaus Situazionista (che diventerà poi la Seconda Internazionale Situazionista) su una rinnovata base esclusivamente estetico-artistica. Una sorta di laboratorio di idee in cui gli artisti residenti potessero dedicarsi alla creazione collettiva e ludica ma soprattutto alla costruzione di situazioni. Rileggendone gli interventi estetici, ci si avvedrà di come una delle mostre più riuscite e documentate possa essere considerata un’anticipazione diretta di tutta la compagine di arte partecipativa che si è soliti attribuire alla seconda metà degli anni Settanta. CO-RITUS verrà allestita nel dicembre del 1962 negli spazi della Galleria Jensen di Copenaghen, destando non poca curiosità tra gli abitanti della zona. Si trattava di una grande installazione percorribile e modificabile di volta in volta da parte del fruitore che, autorizzato a intervenire sulle superfici, poteva decidere se aggiungere o ricollocare il materiale di recupero a sua disposizione contribuendo così a riformulare i termini e il significato stesso dell’intero progetto espositivo. Il risultato fu un immenso collage polimaterico, dai contorni talmente incontenibili da riuscire a invadere l’esterno della galleria e lo spazio urbano antistante: una barriera di ciarpame e materiali pittorici destinata a destabilizzare il passante turbando i suoi percorsi quotidiani. Esattamente come facevano più o meno contemporaneamente le installazioni di Christo in Rue Visconti a Parigi (Muro di barili di petrolio, 1962) e le azioni di Michelangelo Pistoletto a Torino (Mappamondo-Azione, 1966-1968). Fin qui è lecito pensare a una generale tendenza estetica, frutto di un’esigenza condivisa di attivare il pubblico rendendolo protagonista: basti pensare che durante l’estate dello stesso anno a Wiesbaden si svolse il primo festival Fluxus, detonatore per eccellenza di un modo esperenziale di fruire l’arte. Partiamo dal titolo. CO-RITUS deve il suo nome alla fusione di due parole appartenenti ad aree semantiche addirittura opposte e apparentemente inconciliabili: ‘coitus’ e ‘ritus’. Da un lato, la sfera libidica che rimanda all’energia liberatoria scritta nel DNA artistico del gruppo scandinavo; dall’altro l’ammiccamento concettuale alla possibilità di ‘ritualizzare’ la partecipazione del pubblico, per renderlo protagonista di un’operazione estetica dai contorni addirittura cerimoniali. Certamente i toni sono provocatori e autocelebrativi, rigorosamente in stile situazionista; emerge però una determinazione collettiva talmente irruente da riuscire a contagiare gli abitanti del quartiere. Succede infatti che, esattamente come avverrà nei decenni successivi dall’altro lato dell’oceano, gli artisti e i cittadini del quartiere si uniscano per collaborare alla realizzazione di un’azione dal valore sociale. Proprio tale connotazione, di fatto, costituisce lo scarto concettuale che distanzia le attività di questa Seconda Internazionale da quelle a lungo soltanto teorizzate della prima IS. Nei pressi della galleria Jensen dove si svolgeva CO-RITUS era collocato un muro di recinzione assolutamente indigesto agli abitanti della zona; da qui la richiesta di non limitarsi a cambiare la percezione della galleria ma di attivarsi per traslocare lo spirito di partecipazione e creatività pervasiva anche su quella superficie spoglia. Le scritte «Culture is culture industry. Culture industry is a fraud. Fraud is the same as work. Culture industry=organised leisure time!» realizzate su quel muro celebravano un approccio condiviso alla realtà e una comunione di intenti non solo sociale, ma anche politica. Sancendo concretamente la possibilità di estendere l’azione creativa ad un pubblico che non è più soltanto quello delle mostre ma si configura come gruppo sociale, urbano e etnico. Da qui il passo verso quella che si è già definitiva ‘arte partecipativa’ è davvero breve. Non è questa la sede per sviscerarne gli sviluppi o prevederne il peso storico; basti rilevare come l’ideale continuità di intenti con i protagonisti del Situazionismo che si è provocatoriamente definito ‘dimenticato’ autorizzi a individuare il genoma della relazionalità già nel cuore del Novecento, allontanando definitivamente l’ipotesi fin troppo rigida di una sua collocazione negli anni Novanta. Una serie di interventi grafici, concepiti come parte integrante dell’allestimento, accompagna il visitatore lungo il percorso espositivo, evidenziando sia la presenza nella collezione permanente dei reperti donati da Gallizio, sia l’inserimento delle sue opere nelle sale. L’identità visiva della mostra si integra quindi nel museo stesso, allo scopo di far dialogare il patrimonio storico e le opere contemporanee. A metà anni Cinquanta, l’incontro con l’artista danese Asger Jorn, anch’egli appassionato di etnografia e archeologia e protagonista delle attività del gruppo CoBrA come di quelle del Movimento per una Bauhaus immaginista, impresse una nuova direzione alle riflessioni di Gallizio sulla preistoria, indagata da quel momento come punto di origine della creazione artistica. Gallizio lo dichiarava a Carla Lonzi nel documentario RAI del 1963 L’uomo di Alba, proiettato in mostra accanto a L’ansa dei pesci dolci, uno dei dipinti presenti alle sue spalle nel documentario. Il confronto con temi iconografici arcaici caratterizza la grande testa in arenaria del 1957, qui esposta per la prima volta, alcuni monotipi e molte pagine del Diario emozionale, esempio unico di dipinto in forma di libro in cui Gallizio sperimentò, tra il 1956 e il 1960, tutte le possibilità espressive della pittura. Nel 1956 Gallizio e Jorn organizzarono ad Alba insieme a Piero Simondo ed Elena Verrone il 1° Congresso mondiale degli Artisti liberi. In quell’occasione lo studio di Gallizio – divenuto «Laboratorio sperimentale del Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista» – fu luogo di incontro e di sperimentazione per gli artisti convenuti ad Alba. Le ricerche condotte presso l’Archivio Gallizio hanno permesso di comprendere che Teste, il dipinto di Asger Jorn appartenente alle collezioni della GAM di Torino che arricchisce il percorso della mostra, fu realizzato dall’artista danese durante il congresso nel Laboratorio sperimentale di Alba, nel settembre del 1956. L’amicizia con Jorn portò Gallizio a confrontarsi anche con simbologie e archetipi visivi nordeuropei, un tema approfondito nel 1961 durante un soggiorno in Danimarca di cui resta traccia nel quadro Capo vichingo, realizzato a Copenaghen e mai esposto prima d’ora in Italia. Il lichene spregiudicato, una tela del 1961 di proprietà del Comune di Alba, aggiunge un riferimento alle competenze naturalistiche di Gallizio, che dedicò le sue ricerche anche alla botanica e a quella che egli definiva «chimica vegetale». In omaggio alla molteplicità di queste passioni, il percorso si conclude con l’Anticamera della morte, realizzata da Gallizio nel suo studio negli ultimi mesi del 1963, e oggi di proprietà del Comune di Alba. Contenitori e scaffali di forme e dimensioni diverse accolgono un insieme eterogeneo di oggetti, strumenti e reperti connessi ai suoi interessi professionali e amatoriali nel campo della chimica, dell’erboristeria, dell’archeologia, dell’etnografia, della pittura. L’artista ricoprì l’insieme dei mobili e degli oggetti di pigmenti nero fumo, con una scelta monocromatica che caratterizzava anche la contemporanea produzione dei Neri, uno dei quali presente in mostra. Completata pochi mesi prima della sua improvvisa scomparsa, avvenuta nel febbraio del 1964, l’Anticamera assume qui il valore di un museo nel museo, di una Wunderkammer che conserva una collezione di oggetti dalla forte valenza autobiografica, esempio precoce delle pratiche dell’assemblage e dell’installazione. La mostra è accompagnato da un catalogo generale delle opere di Pinot Gallizio curato da Maria Teresa Roberto.
Biografia di Pinot Gallizio
Nasce ad Alba il 12 febbraio 1902; i genitori Innocente e Teresa Chiarlone scelgono per la sua istruzione il Collegio San Giuseppe di Torino, che frequenta dall’età di 10 anni e presso il quale consegue un diploma tecnico, iscrivendosi successivamente alla Facoltà di Chimica e Farmacia di Torino, ove si laurea nel novembre del 1924. Svolto il servizio militare a Roma, inizia a lavorare nella farmacia Bosio di via Garibaldi a Torino, ove conosce Augusta Rivabella, che sposa nel 1933, trasferendosi ad Alba ed aprendo la farmacia Gallizio in via Cavour; nel 1935 gli nasce il figlio Giorgio. Negli anni ’30, svolgendo la sua attività di farmacista, si appassiona e coltiva le tradizioni storiche, produttive e culturali legate al territorio albese, dedicandosi in particolare all’archeologia, all’invenzione del Palio degli Asini e seguendo le iniziative del Circolo Sociale dell’Unione Sportiva Albese. Nel luglio del 1940 è richiamato alle armi nel ruolo di ufficiale farmacista e presta per breve tempo servizio presso l’Ospedale militare di Savigliano. Dopo l’8 settembre passa in clandestinità e nel febbraio del 1944 entra a far parte delle formazioni partigiane della Divisione Alpi, partecipando alla Lotta di Liberazione, con il nome di battaglia Gin, diventando membro del CLN Langhe, designato dalla Democrazia Cristiana; dell’esperienza partigiana ci rimangono i testi di due canzoni Fiore di Langa e All’erta partigian, musicate dal professor Raimondo. Chiamato a far parte della Consulta comunale il 12 maggio 1945, viene eletto Consigliere comunale come indipendente nella lista della DC, diventando Assessore Effettivo dall’aprile del 1946 all’agosto del 1947, quando si dimette e passa all’opposizione aderendo al Partito Comunista; rieletto Consigliere nel 1951 per la lista PCI-PSI, viene riconfermato nel 1956 e resterà in carica sino al 1960 per la fine del mandato. In più occasioni, in qualità di consigliere comunale, interviene in favore del diritto degli zingari a circolare e soggiornare liberamente nel territorio albese. Numerose fotografie lo ritraggono nel loro accampamento ai margini della città, impegnato in arringhe in difesa dei loro diritti, testimone attento e personalmente coinvolto della dignità della vita nomade, come attesta lo scatto in cui indossa con fierezza i tradizionali orecchini a pendente. Pur continuando la sua attività di farmacista, assume anche l’incarico di Aromateria presso la Scuola Enologica di Alba. Nel 1952, dall’incontro con Piero Simondo, giovane pittore e ceramista allora studente alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Torino, nasce in Gallizio l’interesse per la pittura e la problematica di una sintesi delle arti. L’anno successivo Pinot Gallizio, sempre con Piero Simondo, inizia le esperienze di vasi in terracotta, fondendo vasi in resina nera su modelli arcaici, ed inizia le prime esperienze pittoriche. Trascorre l’estate del 1954 ad Albissola Marina e prende contatti con Asger Jorn che per il Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista organizza gli incontri internazionali della ceramica a cui prendono parte Fontana, D’Angelo, Scanavino, Appel, Corneille, Matta ed altri. Nel 1955 produce i primi monotipi, ossia carte dipinte su masonite ed effettua il primo esperimento di quadri con ruggini ed esperienze su tela con resine, sabbia, carbone e vinavil ed effettua esperienze su tela di sacco con colori ad olio e terre. Ritorna l’estate ad Albissola per la seconda manifestazione della Bauhaus immaginista ed effettua con Simondo le prime mostre. Tornato ad Alba il 29 settembre fonda, con Asger Jorn e Piero Simondo, il Primo laboratorio di esperienze immaginiste del movimento internazionale per una Bauhaus immaginista. Nel 1956 continuano ad Alba le sperimentazioni, singole ed in equipe, di Pinot Gallizio, Jorn, Simondo ed Enrico Baj, con le più svariate tecniche pittoriche; nel maggio dello stesso anno esce ad Alba la rivista del movimento Eristica, diretta da Elena Verrone, con la collaborazione di Piero Simondo, Jorn, Baj, Christian Dotremont, P.V.Glob, W. Korun e Tullio di Albissola.





Dal 2 all’8 settembre ha luogo ad Alba nel salone municipale, il 1° Congresso Mondiale degli Artisti Liberi sul tema Le arti libere e le attività industriali, che ha in Pinot Gallizio l’organizzatore e l’animatore e rappresenta la terza manifestazione ufficiale del Movimento; fra i numerosi artisti intervenuti, già il primo giorno sorgono contrasti ed Enrico Baj ed il Movimento Arte nucleare si ritirano ed in qualità di osservatori sono invitati Franco Garelli e Agnoldomenico Pica. Fu una settimana entusiasmante di riunioni, discussioni e mostre, tra cui la più importante fu aperta al teatro cinema Corino con opere di Jorn, Gallizio, Simondo, Constante, Rada, Kotik, Wolman e Garelli. Nel dicembre dello stesso anno la Manifestazione si sposta a Torino all’Unione culturale, con la partecipazione di Guy Debord. Inizia così l’avventura pittorica di Pinot Gallizio, che lo porterà a tenere mostre in tutta Europa, a partecipare a convegni e dibattiti con i principali artisti dell’arte conteporanea ed il 31 maggio 1958 tiene a Torino alla Galleria Notizie la Prima Mostra di Pittura Industriale, in cui espone 12 metri di pittura ad olio su tela, 14 metri di resine termostabili su tela e 70 metri di pittura su tela leggera; le tele sono presentate avvolte su rulli, srotolate in parte ed appese alle pareti o avvolgono indossatrici, la vendita viene effettuata a metri di pittura. Negli anni successivi l’attività pittorica di Gallizio diventa frenetica, le mostre si susseguono in Italia ed in tutta Europa e la sua produzione suscita vivaci discussioni, ma anche apprezzamenti e consensi da Gallerie d’Arte e collezionisti. Muore improvvisamente ad Alba a 62 anni il 13 febbraio 1964. Le fotografie scattate tra le ombre dello studio vuoto fissano l’immagine delle ultime opere, gli assemblaggi monocromi dei Neri e l’Anticamera della morte, un grande mobile, dipinto anch’esso di nero, che raccoglie e cataloga oggetti, reperti e ricordi di un’intera esistenza. Nello stesso anno la XXXII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, gli dedica una sala personale, già concordata prima della morte, con un catalogo presentato da Maurizio Calvesi e sono esposte le seguenti opere: Jus primae noctis (1956), La maschera ed il volto (1956), La cicogna (1957), Il teatrino dello zingaro (1957), Flamenco (1957), Alti pascoli (1957), La lanterna spenta (1961), Una cosa da nulla: il crollo dei miti (1963), dalla serie Le fabbriche del vento (1963), Coperta funebre (1963), dalla serie Oggetti e spazio per un mondo peggiore (1963), Tarocco moderno (1963). La lanterna spenta, 1961, La sbornia a Verduno, 1960. Fra le mostre organizzate ad Alba per ricordare Pinot Gallizio, ricordiamo quella del 1974 nel palazzo della Maddalena, la mostra Pinot Gallizio 1955-1964 Alba del Piemonte, curata da Mirella Bandini, ottobre 1984, nel cortile del Palazzo della Maddalena; Pinot Gallizio, immoralità del perimetro, a cura di Marisa Vescovo, Palazzo Mostre e Congressi, 1994; Pinot Gallizio l’uomo, l’artista e la città 1902-1964, Fondazione Ferrero, Alba, 2000.
Museo civico Federico Eusebio di Alba- Cuneo
Era Gallizio. Pinot Gallizio e la scoperta della preistoria: reperti, opere, collezionismo
dal 12 Aprile 2025 al 12 Ottobre 2025
dal Martedì al Venerdì dalle ore 15.00 alle ore 18.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle ore 15.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto allestimento della mostra Era Gallizio. Pinot Gallizio e la scoperta della preistoria: reperti, opere, collezionismo dal 12 Aprile 2025 al 12 Ottobre 2025 courtesy Museo civico Federico Eusebio di Alba- Cuneo