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A Napoli una retrospettiva dedicata a Tomaso Binga : Un Dialogo Ironico dell’Arte  e dell’identità tra il maschile e femminile

Gazzettino Italiano Patagónico by Gazzettino Italiano Patagónico
30 de abril de 2025
in Arte, Giovanni Cardone 
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A Napoli una retrospettiva dedicata a Tomaso Binga : Un Dialogo Ironico dell’Arte  e dell’identità tra il maschile e femminile
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Giovanni Cardone

Fino al 21 Luglio 2025  si potrà ammirare al Museo Madre di Napoli una retrospettiva museale dedicata a Tomaso Binga ovvero Bianca Pucciarelli Menna ‘Euforia’ a cura di Eva Fabbris e Daria Khan. Il titolo dell’esposizione Euforia è una parola particolarmente amata da Binga perché contiene tutte le vocali, nel contempo possiamo dire che Tomaso Binga come di dice la curatrice : “è un pezzo di storia culturale italiana e non solo reputo urgente raccontare, documentare, analizzare e mostrare, proprio nel momento in cui le nuove generazioni ripensano temi di genere e definizioni identitarie e linguistiche, e le reinventano con una libertà complessa ed eccitante”. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Tomaso Binga apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che in misura diversa tutte le artiste del tempo contribuiscono a definire le poetiche di neoavanguardia del secondo dopoguerra, correnti che recuperano e rimettono in circolazione i valori ideologici delle avanguardie storiche degli anni Dieci e Venti. Tale recupero si configura per Hal Foster come «azione differita», ovvero di retroazione per cui le neoavanguardie reinterpretano, riaprendolo, il progetto delle avanguardie. Alcune tra queste artiste  Giosetta Fioroni, Grazia Varisco e Nanda Vigo hanno goduto sin dagli esordi di una discreta fama nazionale e internazionale, vedendosi oggi ampiamente consacrate dalla critica. Altre  Marina Apollonio, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Dadamaino, Laura Grisi , Lucia Di Luciano e Tomaso Binga pur essendosi imposte tempestivamente nel panorama artistico coevo hanno ottenuto un riconoscimento alquanto lento. Altre ancora – Elisabetta Gut, Cloti Ricciardi e Simona Weller – seppur attive sin dagli anni Sessanta, hanno raggiunto visibilità solo a partire dalla stagione neofemminista degli anni Settanta e ancora scontano una certa indifferenza da parte del mainstream. L’analisi della letteratura di settore ha portato a considerare come la storiografia sulle artiste della neoavanguardia abbia seguito due principali diversi filoni d’interpretazione. Da una parte si collocano le artiste oggetto di una tempestiva approvazione da parte della critica tradizionalista; dall’altra, si stagliano invece le personalità che hanno acquistato notorietà solo a traino dell’avanguardia femminista. Certo, dal decennio Novanta, gli studi di genere hanno provveduto a sfocare i contorni di questi insiemi, rivelando un retroterra culturale comune ad artiste apparentemente molto distanti. In altri casi, si è assistito a delle transizioni, per cui artiste già protagoniste della feminist art sono state successivamente intercettate in un discorso critico tradizionalista; o viceversa, neoavanguardiste già oggetto d’attenzione della critica ufficiale, in un secondo momento sono state cooptate dal neofemminismo, con interpretazioni anche molto diverse. Ciò nonostante persiste la compresenza di due orientamenti storiografici per certi aspetti contrapposti; orientamenti che tengono in diversa considerazione natura ed effetti dei ruoli di genere. Ne consegue una visione piuttosto frammentata del panorama storico-critico, da cui non si evince alcun profilo nitido e definitivo delle artiste di neoavanguardia. Tutt’oggi, in mancanza di uno studio di genere globale, il giudizio su queste artiste risente di uno strabismo ideologico, con il risultato che la biografia e l’opera di personalità della stessa generazione e del medesimo tessuto culturale sembrano emergere da sfondi assolutamente diversi. Dunque, la storiografia degli ultimi decenni ha sedimentato una serie di narrazioni e interpretazioni spesso discrepanti e a volte antitetiche, che lungi dall’integrarsi reciprocamente tramandano un’immagine incoerente dei percorsi delle artiste negli anni Sessanta. Questo dato è ancora più evidente al confronto con gli studi condotti su artiste appartenenti ad altre fasi del XX secolo. La differenza qualitativa tra, ad esempio, l’analisi sulle artiste delle avanguardie storiche e quella sulle colleghe delle neoavanguardie è lampante. Nel primo caso, il processo di storicizzazione è decollato solo negli anni Ottanta, in un periodo già segnato dagli studi di genere e sulla spinta dei risultati ottenuti in area anglosassone. Sebbene tardivo, però, l’avvio di questo percorso ha consentito di affrontare l’argomento da una prospettiva univoca, tesa a chiarire la specificità del contributo femminile e il ruolo delle donne. Per le neoavanguardie degli anni Sessanta, invece, la pluralità di esperienze artistiche dà luogo a uno scenario eclettico, molto più difficile da decifrare. In questo periodo le donne, per un verso, riescono ad affermarsi rapidamente e senza particolari impedimenti, per l’altro, a differenza ad esempio delle colleghe futuriste, denotano una personalità controversa e un certo disinteresse per i movimenti di emancipazione. Non a caso, il decennio Sessanta rientra per la critica femminista in un arco cronologico ben più ampio (1918-1968), cosiddetto di «riflusso», in cui l’evoluzione sociale delle donne, giunta al suo apice alla fine della Prima guerra mondiale, registra una fase di stallo, se non di regressione. L’ambiguità di giudizio sulla neoavanguardia può essere in parte spiegata attraverso i limiti dei due modelli interpretativi, quello tradizionalista e quello femminista. Nel ricostruire il percorso biografico delle artiste, la critica tradizionalista perlopiù ignora la prospettiva di genere. Nello specifico, appaiono sottaciuti o sottostimati quei fattori  politici, sociali, culturali – che connotano diversamente a seconda del sesso il comportamento e il vissuto degli artisti. Si potrebbe pensare che la propensione ad assorbire la differenza sessuale delle biografie entro un’unica visione narrativa fosse ispirata anche dalla natura stessa delle neoavanguardie, protese verso l’impegno totale, l’azione corale e l’opera collettiva; tuttavia, ciò non è sufficiente a motivare la scarsa attenzione per le specificità sessuali: una noncuranza che sembra avere radici profonde. Il dibattito sociologico ha evidenziato come in questo periodo, nei meccanismi di definizione sociale dell’identità dell’artista, la narrazione biografica ricalchi in parte trame prestabilite dal contesto professionale di riferimento. Tipici in questo senso sono l’attitudine a considerare il percorso artistico come un cammino iniziatico, a esaltare l’infanzia quale luogo simbolico privilegiato per la formazione dell’artista. Soprattutto, si riscontra spesso la tendenza a sopravvalutare i tratti d’individuazione su quelli d’identificazione, ovvero a focalizzare solo le caratteristiche individuali a dispetto dei condizionamenti culturali del gruppo sociale d’appartenenza. Così, supponendo lo sviluppo del percorso artistico incondizionato dalle circostanze, è parso lecito astrarre il soggetto dal suo background storico, con il risultato che buona parte della storiografia sulle artiste di neoavanguardia si è fondata il più delle volte su una griglia concettuale di stampo idealista e romantico. A eccezione di rari casi, infatti, sia le ricostruzioni biografiche degli studiosi che la testimonianza diretta delle interessate hanno finito per replicare narrazioni derivanti dal modello vasariano dell’artista-genio: un modello viziato da sessismo, che nei secoli ha sostenuto l’esclusione delle donne dal campo dell’arte. Senza contare che simili pattern narrativi sembrano aver attraversato indenni perfino la diatriba scatenata dalla critica neofemminista degli anni Settanta, che pure aveva denunciato la natura arbitraria di tali letture. Sul fronte della critica femminista, invece, si è provveduto a reimpostare i termini del discorso sull’identità dell’artista, partendo dalle disuguaglianze sessuali che rendono inassimilabili percorsi in apparenza analoghi. In quest’ottica, le fasi della carriera e le ricerche poetiche vengono considerate tanto alla luce dei condizionamenti socio-culturali che dei rapporti di dominio-interdipendenza all’interno del campo dell’arte. Tuttavia, la critica femminista ha tentato di valorizzare la creatività femminile in ambiti culturali slegati dai circuiti espositivi ufficiali, isolandola per affrancarla dall’egemonia maschile. Ha costruito così una sorta di binario parallelo a quello istituzionale, le cui strategie hanno incoraggiato la nascita di linguaggi che si volevano liberi da interferenze esterne. Al contempo, però, questa volontaria «autoghettizzazione» ha promosso un modello normativo di femminilità, opposto a quello sostenuto dalla critica tradizionalista, ma pur sempre stereotipato. Peraltro, l’autoesclusione dalla rete espositiva ufficiale ha avuto evidenti ricadute negative sulla ricezione delle artiste in gioco. In un certo senso, la critica femminista ha contribuito a complicare ancor più le cose. Ciò è avvenuto indirettamente, avallando pratiche d’imperialismo culturale che hanno ridotto le specificità geografiche, antropologiche e cetuali a una visione omologata del soggetto femminile, semplicistica e parziale. Contestualmente, questo processo ha inoltre privilegiato l’analisi delle femministe in opposizione ai modelli d’emancipazione precedenti, relegando questi ultimi in una zona grigia. Infine, oltre a essere indifferenti ai modelli di liberazione degli anni Sessanta, in anni recenti molte artiste italiane si sono dimostrate refrattarie alle riletture femministe o di gender. Una riluttanza che, sebbene non abbia inibito lo sviluppo di interpretazioni alternative, ha comunque favorito uno slittamento del focus sull’attività artistica, a discapito di quella privata. In pratica, nello sforzo di appurare la presenza di un fattore femminile specifico, gli studi hanno finito per circoscrivere, un’attenzione su singole opere o fasi poetiche, evitando di rileggere la questione nel suo insieme. Per più ragioni, dunque, il ritratto complessivo sulle artiste di neoavanguardia resta ancora da scrivere. Alcuni tasselli di questo mosaico hanno trovato, a ogni modo, una prima sistemazione. Risale infatti alla fine del secolo scorso il primo tentativo di delineare il profilo identitario di alcune esponenti della poesia visiva. In occasione della VIII Biennale della Donna di Ferrara del 1998, Maria Antonietta Trasforini presenta un’indagine sociologica condotta su 15 delle 38 artiste invitate alla mostra, operanti in poetiche di contaminazione tra parola e immagine. Quello di Trasforini è uno studio che si pone a consuntivo di un lungo percorso di analisi critica e auto-critica avviato da Mirella Bentivoglio sin dal 1971 e strutturato su censimenti annuali e mostre internazionali di sole donne. Partendo dall’ipotesi generazionale tutte le artiste considerate sono nate nel decennio 1930-1940 la studiosa ripercorre per linee generali attitudini e traiettorie del vissuto delle artiste, al fine di rintracciare tratti di comunanza. Ne emerge un quadro privo di fratture con le generazioni precedenti: si registra un regime di continuità, soprattutto nel contesto familiare, giacché quasi tutte le artiste si sposano, hanno figli e riescono a coordinare la carriera artistica con un lavoro in grado di garantirgli un reddito primario, come l’insegnamento in ambito di belle arti o pubblicistico. Nel proprio settore, vantano una formazione di tipo istituzionale in accademie o scuole d’arte , sebbene talvolta perseguita in modo discontinuo. L’unico reale momento di frattura rispetto alle prescrizioni sociali è individuato da Trasforini nella caparbia difesa della propria identità artistica; volontà perseguita a dispetto degli attacchi esterni e del sentire comune. Tuttavia, la sociologa nota come questo senso di rivalsa non basti a modificare l’atteggiamento generalmente contraddittorio, venato di autolesionismo, che le stesse mostrano nei confronti del mercato. Infine, quello col neofemminismo degli anni Settanta viene decifrato come un rapporto controverso e solo parzialmente influente sulla vita e la ricerca espressiva delle artiste. In ultimo, Trasforini individua tre elementi distintivi che fanno da raccordo alle loro biografie: la presenza di artisti-artiste in famiglia; una figura familiare ‘autorizzante’, che funge da protettore e mentore; e infine un «altrove geografico o linguistico», che gioca un ruolo cruciale nella costruzione della loro personalità. Nel complesso, pur interessando un gruppo numericamente esiguo e artisticamente circoscritto, questa analisi recupera terreno rispetto ai gender studies di area anglosassone, fornendo un approccio inedito allo studio delle artiste di neoavanguardia. Se si considera la storiografia sovranazionale sulla feminist art, la posizione delle neoavanguardiste risulta ancora più complessa e meno definita. Le artiste scontano anzitutto la marginalità del nostro paese nel dibattito critico internazionale: una situazione frutto di fattori endogeni ed esogeni, di cui questo paragrafo tenta di chiarire alcuni aspetti. La fulgida per quanto breve stagione neofemminista italiana registra un fitto interscambio tra arte e movimenti politici. Il fulcro di tale sinergia è certamente Roma, dove si consuma l’esperienza di Rivolta femminile, gruppo fondato da Carla Lonzi, Elvira Banotti e Carla Accardi tra il 1969 e il 1970. Diverse artiste figurano tra le protagoniste di questo movimento: presenziano alle riunioni di Rivolta femminile Cloti Ricciardi, poi fautrice con Edda Billi, del collettivo femminista di via Pompeo Magno, Suzanne Santoro, Elisa Montessori e Simona Weller. Molte coniugano la militanza all’impegno per la valorizzazione dell’arte delle donne entro circuiti espositivi indipendenti. Basti pensare alla Cooperativa Beato Angelico, dove l’opera di dissotterramento di personalità dimenticate dalla storia si sposa con quella di promozione di nuove artiste o ancora, alla pubblicazione della prima ricognizione critica sul contributo delle artiste alle correnti del Novecento curata da Simona Weller. A queste iniziative si aggiunge il contributo di Mirella Bentivoglio che da outsider del movimento lavora a censimenti annuali e mostre internazionali di sole donne a partire dal 1971 operazione condotta parallelamente anche dalla gallerista Romana Loda, la quale riesce a ospitare in diverse sedi espositive tra le più interessanti esponenti dello scenario nazionale e sovranazionale del decennio. Negli ultimi anni, la critica è tornata a porre l’attenzione sul rapporto tra arte e neofemminismo nel decennio Settanta. Seguendo approcci diversi, recenti studi hanno tentato di riscriverne l’intreccio attraverso un’interpretazione sganciata dall’ideologia politica che ne caratterizza la letteratura. Nonostante la partecipazione attiva delle artiste e i risultati ottenuti, Seravalli descrive un quadro romano sfaccettato e controverso, in cui il concetto di arte femminista perde omogeneità, andando a designare un movimento la cui militanza politica appare limitata. Ciò avviene sia perché predomina tra le artiste militanti la volontà di distinguere nettamente tra arte e femminismo, fenomeni intersecabili ma non sovrapponibili; sia per l’ascendenza della teoria lonziana, che nega la possibilità di liberazione femminile in un ambito fatto dagli uomini per gli uomini, quale quello artistico. Nella sua drasticità, questa teoria ben chiarisce la debolezza interna del fronte italiano, perché molto discussa all’interno di Rivolta femminile e causa di spaccature intestine. A ciò si aggiunge l’adesione solo parziale di certe artiste al movimento, nonostante si facciano portatrici sul piano estetico delle rivendicazioni politiche e sociali dello stesso. La volontà di difendere la propria identità espressiva e il valore professionale anche dall’accusa di dilettantismo che grava su molte artiste valorizzate dal movimento femminista, ha la meglio sul desiderio di condivisione e di lotta comune. Non bisogna trascurare inoltre il ritardo con cui gli studi di genere hanno preso quota nel nostro paese. Per ragioni eterogenee il pensiero neofemminista non penetra tempestivamente nel circuito universitario e, di conseguenza, gli studi di genere sulle arti visive restano spesso limitati a iniziative isolate fino agli anni Novanta; con il risultato di rendere complessivamente debole la portata dell’argomento. Tutti questi aspetti marcano la distanza dell’Italia da altri paesi occidentali, primo fra tutti gli Stati Uniti, dove il femminismo entra a gamba tesa nel campo dell’arte, mettendone in crisi organizzazione ed estetica, e sollecitando pratiche di valorizzazione alternative a quelli istituzionali. La coalizione tra artiste e critiche statunitensi porta alla formazione di gruppi come Women Artists in Revolution (WAR) e Redstocking Artists; di gallerie indipendenti come A.I.R. Gallery fondata a New York nel 1972, gestita da 22 artiste, tra le quali Nancy Spero e Ana Mendieta; e all’istituzione di corsi universitari come Feminist Art Program al California Institute of the Arts diretto da Judy Chicago (n. 1939) e Miriam Schapiro (1923-2015) a partire dal 1971. La diversa incisività con cui artiste italiane e statunitensi sfruttano il potenziale rivoluzionario del movimento femminista chiarisce alcune delle cause a monte dalla partecipazione defilata dell’Italia al dibattito internazionale sulla feminist art, ma non tutte. A congelare l’assetto teorico di riferimento interviene l’orientamento critico degli studi di genere nei paesi anglosassoni e il consolidamento di una certa prospettiva interpretativa. Nei paesi anglosassoni, l’attributo feminist indica la produzione artistica nata a partire dagli anni Settanta all’interno o a latere dei movimenti femministi, con l’intento di trasporre sul piano estetico rivendicazioni politiche, culturali e ideologiche. Tra i fattori che rendono insidioso il confronto tra la produzione italiana di neoavanguardia e quella feminist spicca innanzitutto la questione terminologica, che ruota attorno al concetto stesso di feminist art. Nei primi anni d’affermazione di tale corrente, l’aggettivo feminist suggerisce con una certa eloquenza lo stretto legame tra alcune artiste statunitensi e i gruppi femministi allora emergenti; un legame fondato su una comune base ideologica, e all’occorrenza convertito in alleanza politica, finalizzata a penetrare nel circuito espositivo di gallerie e musei, forzando la barriera delle dinamiche di potere consolidate. Eppure, il significato originario con cui il termine entra in uso nella critica anglosassone appare decisamente più ampio. Nel celebre articolo Why Have There Been No Great Women Artists? del 1971, Linda Nochlin adopera feminist come sinonimo di feminine, cioè quale denominatore di omogeneità nella produzione artistica di individui uniti per storia e cultura, oltre che per biologia.  In prima battuta, dunque, la necessità di dare una dignità storica all’arte al femminile e di assegnarle un carattere distintivo si è tradotta nell’urgenza di accordare a quel feminist una dimensione il più possibile inclusiva; esigenza che solo recentemente è tornata a prevalere sul valore d’esclusività rivendicato dai collettivi femminili/femministi degli anni Settanta. Quest’ultima inversione di rotta è sfociata in una lettura dichiaratamente ʽamericanocentricaʼ. A partire dagli anni Novanta, infatti, esposizioni e ricognizioni storico-critiche, specialmente di area statunitense, hanno cercato di mappare l’arte al femminile dei paesi occidentali. Bisogna ammettere che il tentativo è riuscito a dar conto di come artiste, provenienti da contesti culturali differenti e non necessariamente femministe militanti, abbiano contribuito attraverso il femminismo a modificare radicalmente le manifestazioni auto-rappresentative del genere. Senza contare che questa scelta, verosimilmente rispondente alla necessità di riconoscere al femminismo una base universale dietro le molteplici realtà ed espressioni culturali locali, ha indubbiamente consentito d’ampliare la genealogia dell’arte delle donne. Di contro, però, lo sforzo di leggere interi contesti culturali da un’unica angolazione, peraltro esterna  o meglio estranea  alla maggior parte di essi, ha promosso una visione complessivamente superficiale, quando non falsata, delle singole realtà europee. Molti paesi, privi di un retroterra teorico maturo sui gender studies, sono stati arbitrariamente esclusi, oppure inquadrati nel dibattito internazionale in una prospettiva viziata; pertanto, il lavoro di composizione del puzzle storico-critico, anziché procedere in senso orizzontale, ha infine favorito uno sviluppo verticale, in cui le poche ricerche europee sono state cooptate nella spirale di una determinata genealogia estetica, oltre che storica. D’altronde, l’ipotesi che un pensiero egemone abbia risucchiato la riflessione europea, riducendola a una mera derivazione di quella d’oltreoceano, trova conferma nella ricostruzione parziale che viene fatta del fronte italiano, quando questo non risulti del tutto trascurato . Trovano generalmente posto in tali ricognizioni solo artiste quali Carla Accardi, Marisa Merz ,Ketty La Rocca e Tomaso Binga il cui vissuto è strettamente legato allo sviluppo del movimento femminista o la cui poetica è ormai grossomodo considerata  direttamente o indirettamente  di matrice femminista. Riconsiderare la ricerca delle neoavanguardiste sviluppata negli anni Sessanta vuol dire tentare di offrire ipotesi interpretative che possano in qualche modo rimodulare l’assetto storiografico di riferimento, riconoscendo al nostro paese un contributo significato alla definizione complessiva dell’espressività feminist. Definito lo stato dell’arte, occorre chiarire il campo di ricerca e la metodologia critica adottata in questo studio. Come già spiegato, l’obiettivo della tesi è duplice. In primo luogo si vuole delineare il profilo antropologico della generazione d’artiste di neoavanguardia. Partendo dal modello di lavoro proposto da Trasforini, la ricerca allarga il campo d’indagine oltre i confini della poesia visiva, al fine di rintracciare in un orizzonte culturale e artistico più ampio l’esistenza di inclinazioni comuni tra le artiste degli anni Sessanta, che fanno del loro vissuto un momento di rottura col passato e di preludio alla stagione femminista. In tal senso, il focus viene posto su dodici artiste: Marina Apollonio, Dadamaino, Giosetta Fioroni, Laura Grisi, Elisabetta Gut, Lucia Di Luciano, Lucia Marcucci, Cloti Ricciardi, Ketty La Rocca, Grazia Varisco, Nanda Vigo e Simona Weller. A fronte di uno scenario che vede impegnato un numero di donne ben più cospicuo, questa rosa di nomi potrebbe risultare quanto meno riduttiva. In realtà, la scelta è stata dettata innanzitutto dalla necessità d’indagare in modo approfondito la loro esperienza umana e artistica. Questa selezione è inoltre funzionale allo sviluppo del secondo obiettivo della tesi, ovvero individuare nella loro produzione prodromi della feminist art. Delle numerose artiste attive negli anni Sessanta e autrici di opere dagli esiti espressivi anche validi allo scopo della tesi, si è ritenuto opportuno scegliere i casi di studio sulla base di tre criteri tra loro collegati: generazionale, storico e storiografico. Il primo ha implicato la riduzione del raggio della ricerca alle sole artiste nate tra il 1930 e il 1940. Ciò ha consentito di far riferimento a un preciso background socio-culturale dietro il loro percorso di crescita e formazione, che influenza la ricerca espressiva. Di seguito, il fattore storico ha portato a considerare solo le artiste che esordiscono già nel decennio Sessanta; con il risultato di sondare modalità, strategie e tempi d’affermazione di artiste che riescono a ottenere visibilità sin da giovanissime nel campo dell’arte, nonché di registrare la loro effettiva presenza nei circuiti istituzionali e privati. Il fattore storiografico, infine, ha ristretto l’attenzione solo a quelle che a oggi godono di una discreta letteratura; elemento su cui si è basata la riflessione sui percorsi di storicizzazione della neoavanguardia. Questo studio, nel tentativo di restituire nel modo più preciso possibile il contesto politico, culturale, sociale – ma anche personale – che prepara il campo alla feminist art, ha dovuto dunque trascurare personalità di spessore che si fanno strada, ad esempio, solo negli anni Settanta o non ancora oggetto di sufficiente attenzione critica. Cionondimeno, alcune di queste compaiono a margine della ricerca, in concomitanza con le artiste nate negli anni Venti – Carla Accardi, Mirella Bentivoglio, Marisa Merz, Lia Drei e Titina Maselli , che s’inseriscono attivamente nel panorama che si tenta di delineare. Nel corso del lavoro, lo studio delle fonti è andato di pari passo alla ricerca d’archivio e alla conoscenza personale delle artiste. Conoscenza che si è tradotta in interviste o in confronti privati, finalizzati a colmare alcune lacune nella ricostruzione biografica, approfondire certe sfaccettature del contesto degli anni Sessanta e indagare le ragioni di determinate scelte espressive. Va detto che il confronto diretto con queste artiste è stato fruttuoso nella misura in cui ha messo in evidenza spaccati di vita tralasciati dalla critica o scarsamente considerati. Al contempo, ha lasciato emergere livelli di autoconsapevolezza molto diversi fra di loro e uno scarso interesse verso tematiche di genere. Fattori quest’ultimi evidenti nella difficoltà di alcune artiste a considerare criticamente aspetti della loro esistenza e nella fedeltà a auto-narrazioni di stampo tradizionalista. Per quanto riguarda la rilettura critica delle loro opere del decennio Sessanta, si è ritenuto opportuno prediligere una trattazione per temi, piuttosto che cronologica. Questa scelta è motivata dalla relativa stabilità dell’orizzonte socio-culturale del periodo che, pur vivendo cambiamenti rapidi e eterogenei, subisce una profonda metamorfosi solo a seguito dei movimenti studenteschi e operai del 1968. Lo stesso vale per la questione femminile che resta di fatto vincolata su scala nazionale all’operato dell’Unione Donne Italiane, almeno fino al liminare del decennio e alla nascita dei primi collettivi femministi. Le influenze di questi fenomeni non sono dunque trascurate, ma contestualizzate all’interno delle singole ricerche poetiche. Pertanto, la trattazione è stata articolata in percorsi tematici: la rappresentazione del soggetto femminile, la ricerca identitaria, la rielaborazione della società contemporanea indagata nei suoi mutamenti morfologici, storici, ideologici. In ognuno di questi, la produzione delle neoavanguardiste è messa a confronto con quella dei colleghi, protagonisti delle principali correnti del periodo. Talvolta, gli artisti considerati hanno avuto legami più o meno stretti con le protagoniste dello studio, tali da giustificare commistioni espressive visibili nelle opere considerate. Ma più spesso si tratta di autori lontani per età anagrafica o orientamento espressivo che si cimentano sulle stesse tematiche. Questo raffronto è utile a dimostrare il totale coinvolgimento delle artiste alla metamorfosi linguistica in atto, quanto la tendenza alla differenziazione che contraddistingue la produzione delle donne. In parallelo, quest’ultima è stata analizzata in riferimento a opere coeve e successive di artiste internazionali, accreditate dalla critica quali esponenti dirette o indirette della feminist art. La selezione dei lavori è stata qui dettata innanzitutto dalla capacità di segnare una linea di continuità tra l’arte italiana di neoavanguardia degli anni Sessanta e quella feminist del decennio Settanta. Ciò è evidente soprattutto nel rapporto dialettico che si viene a creare tra il nostro paese e gli Stati Uniti, che sin dal secondo dopoguerra hanno uno stretto legame economico, politico e culturale; nonché a fronte del portato culturale delle teorie d’oltreoceano sugli sviluppi del neofemminismo italiano. In secondo luogo, tale selezione è stata preordinata dalla volontà di segnalare come le opere degli anni Sessanta, pur partendo dai medesimi intenti, rivelino difformità costitutive strettamente legate alla differente geografia culturale di riferimento; con il risultato di marcare la specificità del panorama italiano nell’orizzonte sovranazionale. Posso affermare che Tomaso Binga ovvero Bianca Pucciarelli Menna che fin dal 1971 la pratica dell’arte come scrittura è al centro dei suoi interessi. La sua pratica include il collage, il dattiloscritto, la pittura, la performance. Tomaso Binga si è avvicinata all’arte quando era ancora una ragazzina, grazie al padre, che per diletto amava dipingere. Ed è sempre grazie al padre che Binga sviluppa un grande amore per la poesia. La produzione poetica da sempre si affianca alle produzione artistica.  La sua vita è un intreccio di incredibili incontri, primo fra tutti quello con Filiberto Menna, che sposa nel 1959 e con il quale si trasferisce a Roma, dove tutt’ora vive. 


Tante sono le prospettive attraverso cui Tomaso Binga ha operato nel corso degli anni. Oltre all’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, ha creato e animato il Lavatoio Contumaciale, un luogo votato allo scambio culturale, che nel tempo ha svolto un’intensa attività, promuovendo il dibattito su diversi temi attraverso la letteratura, a poesia, le arti visive, i teatro, il cinema. Il suo lavoro va ben al di là dell’impegno femminista, per quanto esso abbia sempre avuto un ruolo centrale. Tomaso Binga, da sempre è impegnata per i diritti degli esseri umani, per la parità di genere, ma è anche impegnata a difendere la libertà e la pace.  L’ironia che spesso caratterizza le sue opere non cela l’amaro sentimento di disappunto nei confronti delle ingiustizie, ai drammi che spesso colgono gli esseri umani, ai disastri che rovinano il nostro mondo. Tomaso Binga è sempre stata proiettata nel futuro, eppure già nella sua prima opera contesta l’uso sbagliato dei nuovi media, e lo fa attraverso una nota performance, Vista Zero, tenutasi nel 1972. L’artista, avvolta in un lenzuolo bianco, ricopre con una garza la sua testa lasciando libero solo il volto e gli organi di senso. Dopo aver incollato una serie di occhi di carta di varie dimensioni, termina la sua azione performativa con l’applicazione di due grandissimi occhi sulla fronte: metafora di un mondo che si apriva ai mille sguardi dei nuovi media, potenziali strumenti di quiescenza dei cervelli. In tempi non sospetti Tomaso Binga ha iniziato una serie di collage – sculture (quello che Italo Mussa definì oggetti – immagine) riutilizzando gli imballaggi di polistirolo interni alle scatole dei più disparati oggetti di consumo, compiendo una incredibile azione di riciclo di materiali. Nell’arco della sua produzione artistica ha attuato decine di collaborazioni con artisti, prima fra tutte quella con Verita Monselles con la quale realizzerà una delle sue opere più note: L’Alfabeto Murale. 
Soprattutto sul tema della poesia sonora e fonetico – performativa Binga ha consolidato importanti relazioni artistiche con Lamberto Pignotti, Giovanni Fontana, Antonio Amendola e molti altri.  Tomaso Binga ha creato nuovi linguaggi visivi a partire dalla scrittura asemantica per finire all’Alfa Symbol (su cui lavorando dal 2020) passando per il dattilocodice, di cui alcuni esemplari sono esposti alla Biennale di Venezia, nella mostra Il latte dei sogni, curata da Cecilia Alemani. La pratica dell’arte come scrittura copre oramai un arco creativo cinquantennale, con dei picchi di grandissimo impatto: Ti scrivo solo di domenica del 1977 e Diario Romano del 1995 sono dei capolavori, in cui la parola come segno si impone nello spazio e persino nel tempo attraverso matrici compositive di lirica altissima.  Il percorso espositivo costituisce il risultato di due anni di ricerche realizzate in stretta collaborazione con l’artista e il suo archivio e si snoda con un percorso tematico nelle diciotto sale del terzo piano del museo con un allestimento sperimentale dal tracciato circolare ideato dal collettivo multidisciplinare Rio Grande in dialogo con Tomaso Binga. Questo display è concepito secondo criteri di affinità tanto grafici e visivi quanto contenutistici di continuità, duttilità e gioco. Per il museo Madre realizzare questa prima ampia retrospettiva su Tomaso Binga significa ribadire l’attualità di temi e metodi con cui questa artista da decenni mette in discussione urgenze identitarie e sociali attraverso la reinvenzione linguistica. L’artista si occupa di scrittura verbo-visiva ed è tra i protagonisti della poesia fonetico-sonora-performativa italiana: partecipa alla celebre mostra “Materializzazione del Linguaggio” alla Biennale Arte del 1978 invitata da Mirella Bentivoglio. Docente di Teoria e Metodo dei Mass Media presso l’Accademia di Belle Arti di Frosinone, è stata una attiva organizzatrice culturale e ha diretto dal 1974 l’associazione culturale “Lavatoio Contumaciale” di Roma e dal 1992 è prima vicepresidente e poi presidente della Fondazione “Filiberto Menna” di Salerno. Ha partecipato a mostre e festival presso istituzioni italiane e internazionali: Museo di Castelvecchio, Verona; 38., 49. e 59. Biennale Arte a Venezia; XIV Biennale di São Paulo do Brasil; XI Quadriennale di Roma; Fondazione Prada, Milano; Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma; Museion, Bolzano; Mimosa House, Londra; Centre d’Art ContemporainGenève, Ginevra. Il libro che accompagna la mostra, edito da Lenz Press in italiano e inglese, è a cura di Eva Fabbris, LilouVidal e Stefania Zuliani. È articolato in tre parti: la prima presenta saggi e un’intervista all’artista; la seconda una serie di brevi testi critici che analizzano opere singole o piccoli corpus di lavori delle principali aree di interesse dell’artista; la terza è dedicata alla poesia visiva.

Biografia di Tomaso Binga – Bianca Pucciarelli Menna

Artista che dal 1971 ha scelto di entrare nel mondo dell’arte con uno pseudonimo maschile per evidenziare i privilegi dell’uomo anche nel campo culturale: “Il mio nome maschile – dice Binga – gioca sull’ironia e lo spiazzamento; vuole mettere allo scoperto il privilegio maschile che impera nel campo dell’arte, è una contestazione per via di paradosso di una sovrastruttura che abbiamo ereditato e che, come donne, vogliamo distruggere. In arte, sesso, età, nazionalità non dovrebbero essere delle discriminanti. L’Artista non è un uomo o una donna ma una PERSONA”. Nella sua pratica quarantennale ha parlato del corpo femminile come di un significante di libertà attraverso la sua originale poesia visiva e le sue performance, giocando con le parole per affermare un femminismo gioioso caratterizzato da dissacrazione, umorismo, denuncia.Dopo importanti sperimentazioni di scrittura desemantizzata (segni illeggibili scritti a mano che disintegrano e azzerano il linguaggio), dal 1975 il progetto della Scrittura Vivente si declina in una serie di opere in cui il suo corpo fotografato prende la forma delle lettere dell’alfabeto. Nuda e priva di qualsiasi connotazione sociale, l’artista si fa segno linguistico, diventa il “corpo della parola” assumendo in sé la responsabilità dei suoi messaggi. Binga stessa diventa alfabeto disponendosi come strumento linguistico con cui stimolare nuovi processi di apprendimento e comprensione. Scritti con questo alfabeto, le lettere, i pronomi e le parole si reinventano e si interrogano per indagare il corpo e le gerarchie grammaticali e simboliche a cui esso è sottoposto.

Museo Madre di Napoli

Tomaso Binga. Euforia

dal 18 Aprile 2025 al 21 Luglio 2025

dal Lunedì al Sabato dalle ore 10.00 alle ore 19.30

Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00

Martedì Chiuso

Foto dell’Allestimento della mostra Tomaso Binga. Euforia dal 18 Aprile 2025 al 21 Luglio 2025 Museo Madre di Napoli Ph. Amedeo Benestante

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Tags: ArteGiovanni Cardone
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