Xi Jinping non twitta. Non riposta. Ma risponde, colpo su colpo. Soprattutto: non cede. Non lo ha fatto con il Covid, non lo fa ora con Donald Trump che gioca a poker con i dazi. Xi raddoppia la dose e lascia intendere che se c’è da soffrire, nessuno più dei cinesi sa come si fa. Eccola l’altra sponda della guerra commerciale, meno appariscente e quindi forse più pericolosa: la sua Cina. Xi è il leader più potente dai tempi di Mao, si è costruito un impero di fedelissimi epurando ogni possibile rivale e blindando il sistema con un culto della personalità ben oliato. Il suo potere è teoricamente eterno: ha abolito i limiti di mandato nel 2018 e, a differenza di Trump, non deve preoccuparsi di un’urna o di un partito diviso. Il partito è lui. Lo chiamano «l’uomo forte» non a caso. È il regista dell’autarchia 2.0, convinto che la coesione interna e l’autosufficienza valgano più delle aperture al mercato globale. Xi ha costruito la sua leadership su un progetto di rinascita nazionale: la Cina come potenza globale, indipendente e temuta. E ogni scontro con l’Occidente – guerra dei dazi inclusa – diventa parte dello stesso copione. Per questo può permettersi di rilanciare, anche se l’economia traballa. I dazi americani ora colpiscono fino al 145% delle esportazioni cinesi, quelli cinesi sui prodotti americani al 125%. A Guangzhou le fabbriche chiudono temporaneamente, i parcheggi si riempiono di auto invendute, gli outlet restano vuoti. Ma il partito fa quadrato: la propaganda chiama il popolo a una «lotta prolungata», dipinge Trump come un pirata e invoca «l’esercito diplomatico di ferro». E i riferimenti a Mao e alla guerra di Corea si sprecano. Questa guerra «eviterà a Xi Jinping di assumersi la responsabilità della mancata crescita economica in Cina. Per lui è una sorta di uscita di prigione gratis», dice la politologa Jessica Teets al New York Times. «I cittadini e i leader aziendali cinesi considereranno la situazione al di fuori del suo controllo». Xi è convinto – come spiega anche il professor Joseph Torigian – che il suo sistema sia superiore a quello americano: più disciplinato, più assorbente, più disposto al sacrificio. Lui stesso si è preparato a questo momento per tutta la carriera. Anche se la tenuta sociale è tutta da verificare: dopo tre anni di Covid gestito con il pugno duro, la pazienza dei cinesi è al minimo storico. Crisi immobiliare, disoccupazione giovanile e fuga dei cervelli sono segnali che neppure il controllo totale può ignorare. Xi, però, non ama perdere la faccia. Persino più di Trump, che di facce ha un’intera collezione da indossare a piacimento. Se ci sarà un accordo, dovrà sembrare una vittoria. La narrazione è un’arma. E se Trump sta provando in tutti i modi a governarla, Xi la stampa ce l’ha in casa. Xi ha già dimostrato di saper tirare molto la corda. Ha mantenuto le rigide restrizioni cinesi contro il Covid ben oltre il punto di rottura. Ha perseverato nel suo obiettivo di rendere la Cina leader mondiale nei veicoli elettrici e nei pannelli solari, nonostante l’allarme dei partner commerciali per l’ondata di esportazioni a basso costo. Non è un tattico, è uno stratega a lungo termine. È l’archetipo del leader leninista del XXI secolo: centralizzatore, paranoico, paziente fino all’ossessione. Non improvvisa. Non si espone più del necessario. Quando Xi fa una mossa, è perché ha già eliminato tutte le alternative. E Trump di alternative gliene sta lasciando pochissime.
Mario Piccirillo