Giovanni Cardone
Fino 22 Giugno 2025 si potrà ammirare al Museo Zentrum Paul Klee di Berna – Svizzera la mostra dedicata Le Corbusier ‘ Le Corbusier. The Order of Things’ a cura di Martin Waldmeier. L’esposizione dedicata al maestro dell’Architettura in occasione del ventesimo anniversario del museo concentrandosi sul processo creativo dell’artista-architetto, designer e urbanista svizzero-francese e collocando al centro dell’esposizione il pensiero tridimensionale di Le Corbusier, e realizzata in collaborazione con la Fondazione Le Corbusier a Parigi, intende presentare una panoramica completa sull’intera produzione di Le Corbusier dal punto di vista artistico, includendo sia oggetti iconici sia gruppi di opere finora rimasti in gran parte sconosciuti. Charles-Édouard Jeanneret, famoso in tutto il mondo con lo pseudonimo di Le Corbusier, è uno dei maggiori protagonisti dell’architettura moderna in Svizzera. È stato anche tra i protagonisti più importanti e influenti a livello mondiale del modernismo internazionale. La mostra pone l’attenzione su come Le Corbusier si sia approcciato nei confronti della forma e su quale sia stato il suo rapporto con composizione e spazio, luce e colore. Esposti numerosi disegni e studi. Per tutta la sua vita, Le Corbusier ha concepito il disegno come strumento fondamentale per catturare ciò che egli vedeva e per sviluppare nuove idee. La mostra inoltre vuole presentare le fontiche sono confluite nel processo creativo dell’artista-architetto, dagli oggetti ritrovati sulla spiaggia all’architettura antica. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Le Corbusier e sull’architettura moderna apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che lo studio dell’architettura classica ed in particolar modo lo studio del Partenone, la sua diretta lettura ed analisi, hanno costituito per Le Corbusier un momento altissimo di conoscenza che non ha segnato un punto di crisi con il passato bensì un generoso momento di continuità. Giungere sull’Acropoli e qui passeggiare, riflettere e riportare su carta gli schizzi ha condotto Le Corbusier ad una riflessione profonda e lungamente elaborata che permetterà poi di sviluppare la capacità di integrare il paesaggio con la dimensione umana. Si tratta di un paesaggio, di un ambiente naturale che Le Corbusier riconosce come elemento unificatore, quello del Mediterraneo. Le caratteristiche che egli scorge sono quelle imperiture che hanno permesso a tutti i popoli che vi si affacciano di riconoscersi simili. Una dimensione corale quella che l’architetto ne fa, altamente simbolica e che accanto al dato romantico possiede un paradigma empirico. Il mare così come il sole che si possono scorgere in questa particolare area della Terra possiedono la capacità di sviluppare una specifica dimensione sociale e dunque architettonica. Quello che riesce a sbalordire Le Corbusier è proprio la dimensione vernacolare del vivere di talune popolazioni della Grecia, un’arte del vivere e del costruire molto particolare. Tutto questo è stato intuito nel primo suo viaggio in Grecia, nell’area continentale di essa e poi confermato nella seconda missione greca. In occasione del IV Congresso di Architettura Moderna tutti i membri mostrarono un acceso interesse per l’espressione dell’architettura greca, non solamente quella dell’Acropoli ma soprattutto per quella popolare, quella riscontrabile nelle piccole isole dell’arcipelago greco. L’aspetto che più si è rivelato interessante è stato che, in larga misura, le abitazioni fossero state costruite secondo i principi ed i metodi verso i quali tendeva a servirsi proprio l’architettura moderna. Djelepy riscontra come gli abitanti delle isole dell’Egeo diedero priorità alle esigenze di coloro i quali avrebbero abitato tali costruzioni per i quali il problema dell’alloggio rappresentava una esigenza primaria andando oltre lo scopo estetico. Costruendo le loro case tennero in gran conto della precisa necessità di coloro i quali vi avrebbero risieduto. Questa libertà di spirito spinge i costruttori all’inventiva, alla ricerca di soluzioni impreviste. All’abitante dell’isola interessava adeguare il piano della casa alle proprie esigenze, senza curarsi che la dimora potesse risultare imponente oppure modesta: il superfluo cede il passo all’utile ed al razionale. Seguendo le regole del vivere secondo natura, prende forma l’idea di un’architettura semplice e talvolta originale, integrata con essa ed in piena armonia con il paesaggio. Quello che viene raggiungo istintivamente, è quanto Le Corbusier aveva sostenuto e continuò a sostenere, ovvero una teoria paesaggistica intesa come ricerca dell’unità tra l’opera dell’uomo e la natura, principio che ha profonde radici negli abitanti delle isole greche. I costruttori di tali abitazioni, sebbene fedeli alle loro tradizioni, risultano sensibili all’innovazione; le case, all’apparenza molto modeste e prive di decorazioni, risultavano gradevoli alla vista. Ciò che stupiva, precisa Djelepy, è l’esito plastico di tali edifici. La bellezza delle facciate risulta dalle dimensioni delle masse cubiche di cui sono costituite e dai rapporti tra la massa principale e gli elementi secondari. Questa situazione, derivata dalle condizioni economiche molto modeste dei propri abitanti, realizza alla perfezione l’esempio della ‘casa al minimo’. Tale dimensione dell’abitare ricalca, seppure inconsapevolmente, l’astrazione tipica del periodo lecorbuseriano ne L’Esprit Nouveau, che promuoveva le istanze del Purismo e da questo si dipanava in un ideale estetico artistico ed anche architettonico. Nel suo testo Viaggio in Grecia lo stesso Le Corbusier precisa che già nel 1910 il Partenone aveva insegnato la sua verità impietosa, facendo di lui un ‘ribelle’ fino a portarlo a sostenere che le accademie mentissero. Critico nei confronti della contemporanea civiltà macchinista, che egli definisce insaziabile dominatrice, esorta con una potente metafora ogni uomo che si ritenga innamorato della vita ed angosciato per il lento naufragio della coscienza della tempesta del primo macchinismo ad imbarcarsi da Marsiglia per mettersi in rotta verso la Grecia al fine di ritrovare l’Acropoli, per leggere il Partenone. Nel 1926 Le Corbusier pubblica il suo primo articolo all’interno dei Cahiers d’Art e questo evento segna un momento preciso nel quale ufficialmente l’architetto collabora con la rivista. Trattandosi di una rivista esplicitamente avanguardista è naturale osservare questo contributo e leggerlo come un atto formale della propria adesione a determinate istanze. Si sa infatti che Cahiers d’art è stata una dimensione editoriale che ha abbracciato molti campi ed al cui interno convivono esperienze che mirano a portare alla luce i principi delle avanguardie artistiche. In particolare lo stesso Christian Zervos ha promosso fin da subito l’azione tesa al portare alla luce i veri semi delle prime Avanguardie, ossia l’attenzione verso le culture del lontano passato, le culture primitive, le culture preclassiche porgendo massima cura nello studio dell’archeologia. È inoltre importante riconoscere che Le Corbusier ha aderito a tale progetto editoriale e soprattutto ha avuto al contempo l’occasione di intensificare alcuni fra i rapporti con altri esponenti di spicco della realtà parigina che ruotavano attorno alla galleria di rue du Dragon, entrando in piena sintonia con molti di questi eminenti personaggi Stanislaus von Moos ricorda come dall’esperienza del CIAM del 1933 l’Acropoli sia stata per Le Corbusier la manifestazione dello ‘splendore esteriore’ non rimanendo più come opera architettonica l’unico fulcro del suo interesse. In questa occasione sia l’architetto che lo stesso S.Giedion e J.L.Sert ed un nutrito gruppo di intellettuali che condividevano le sue istanze anti-accademiche si scinsero per dirigersi ad esplorare terre affascinanti e per loro ancora sconosciute: Delo, Micene, Santorini e altre isole dell’Egeo. Tale scissione all’interno del CIAM dovette rivelarsi straordinariamente ricca di conseguenze. Rimarcando il distacco che lo stesso «Le Corbusier aveva già tracciato a partire dalla sua visita nelle Favelas di Rio (1929) e dal suo viaggio del Nord Africa, culminante nella permanenza di otto ore in Ghardaja (1931). Poco più tardi si potè rileggere in La ville radieuse come nei discorsi di Le Corbusier, sotto l’impressione dell’arcaica cultura costruttiva delle Cicladi, fossero prese in considerazione nuove edizioni (1935)». È in questa occasione che Le Corbusier tiene ad Atene una conferenza dal titolo Air, son, lumière. Egli ricorda di aver trascorso ventun giorni, durante il suo primo viaggio, proprio sull’Acropoli rimanendo scosso dagli aspetti sovrumani di questo luogo, travolto da una verità che non è né sorridente né leggera ma forte e implacabile. Tutto questo, sostiene, lo ha plasmato interiormente spingendolo a elaborare quanto studiato attraverso un lavoro onesto, ostinato e sincero. Ciò lo ha reso un ribelle, spingendolo alla riflessione riguardante l’Accademia. Infatti, al ritorno dal suo viaggio, giunge in Occidente ed inizia a studiare gli insegnamenti delle scuole, rilevando che tutte portavano il nome dell’Acropoli. Ha valutato che l’Accademia mentiva e fu per questo che iniziò a riflettere e a rivolgersi al fondo della questione. Le Corbusier sosteneva addirittura che fosse stata l’Acropoli a fare di lui un rivoluzionario, specie nel momento in cui egli ricordava il Partenone netto, pulito, intenso e violento. È qui che vive lo spirito greco, dal rigore matematico e dal canone scaturiscono i rapporti di armonia. Si trattava, per Le Corbusier, di riuscire a trovare questa armonia nel suo insieme per poter scorgere gli elementi essenziali, del costruire e del vivere. Per Le Corbusier era necessario, rivolgendosi all’Acropoli, in nome di questa armonia, tradurre nel mondo intero ed armonizzare i tempi moderni cercando questa qualità di uomini: gli armoniosi di oggi. Le Corbusier di ritorno dalle isole e dalla Grecia non poté sottrarre ormai le sue imprese alla verifica di questi valori umani qui manifestatisi chiaramente. E inevitabilmente si chiede se mai si potrà avere coscienza della grande quantità di artifici che ingombrano la comune conoscenza delle cose. Tutti questi artifici, i riti, le manie installate senza esame preliminare nel nostro pensiero rappresentano solamente deformazioni manuali ed intellettuali che falsificano, sin dalla nascita, le nostre invenzioni, le nostre creazioni, le nostre imprese, le sovraccaricano di parassiti. È come un’amnesia della misura che ci fa disproporzionare in troppo grande o in troppo piccolo, alla rinfusa e si trova lontana da ogni scala umana. Considerando i villaggi greci e le case nei loro villaggi la lezione di armonia appare chiara, e inchioda l’uomo e le sue opere al suo pensiero, alla sua saggezza o alla sua sregolatezza «ici, harmonie. Ici, échelle humaine». Questa armonia è strettamente legata alla purezza delle forme delle loro abitazioni, delle loro creazioni, della loro concezione della realtà; è dunque la loro accezione di bello. Così Le Corbusier apre il suo libretto d’invito alla mostra allestita presso il suo appartamento, dal titolo Les arts dits Primitifs dans la maison d’aujourd’hui. Secondo Le Corbusier le arti dette primitive sono quelle dei periodi creatori, quando una società costruiva i propri utensili, il proprio linguaggio, il proprio pensiero, le proprie divinità, quando una civiltà sbocciava piena di energia. In questa realtà nuova «ogni gesto, nella sue necessità, era lo stile stesso. Niente si ripeteva, tutto avanzava». Solamente in un secondo momento sono arrivati gli stili ed un’altra realtà si apprestava ad esistere: «gli dei erano inventati; non restava altro da fare che spolverarli». La mostra nell’appartamento di Le Corbusier si tenne nel luglio del 1935 e si colloca perfettamente nell’ambiente culturale al quale si fa riferimento. Moos individua proprio in questa esposizione l’esatto momento del ‘coming out’ ufficiale di Le Corbusier quale artista dell’Ellenismo primitivo del Modernismo grecoarcaico, questa sarebbe da individuare nel 3 luglio 1935. Tale evento è la manifestazione definitiva dell’adesione alla corrente primitivista che tuttavia aveva avuto dei prodromi di qualche anno precedenti, come testimoniano tanti episodi, tanto il far parte dei redattori dei già citati Cahiers d’art, intento primitivista che si fece concretamente evidente soprattutto dalle fine degli anni Trenta così come il suo linguaggio scultoreo, l’attenzione per gli arazzi e soprattutto la curiosità nei confronti della pittura parietale come mezzo espressivo pittorico oltre che strumento di reinvenzione architettonica. In questo contesto ‘primitivista’ sia privato che pubblico, in questo approfondimento delle culture preclassiche e nel tentativo di ricostruire e comparare espressioni artistiche di varie fasi e di diversi ambiti del bacino del Mediterraneo si può contestualizzare l’interesse rivolto alle aree prospicienti la Costa Azzurra. Tale luogo venne scelto da Le Corbusier come il più attinente alle proprie ricerche e alle personali intuizioni e che ora avrà un peso nella sua vicenda architettonica. Sono rintracciabili nei documenti d’archivio, tra le lettere private ed i documenti pubblici, le intenzioni di Le Corbusier relative al Mediterraneo. Dietro all’attaccamento per il Sud, per il ‘Midi’ della Francia c’era in realtà un reale e profondo legame con il Mediterraneo. Tale legame di Le Corbusier con il Mediterraneo venne rinforzato dalle sue regolari visite a Cap Martin. Qui costruì il suo ‘Cabanon’, quello che non ha esitato a chiamare il suo ‘castello’, per lui e la moglie Yvonne. Le Corbusier ha trattato il ‘Cabanon’ come una dimora minima in cui sperimentare idee proprie del design oltre a particolari architettonici. L’apparente semplicità degli interni, infatti, venne disegnata con le complesse proporzioni del Modulor. Non troppo distante dal ‘Cabanon’ sorgeva la villa E-1027, una dimora modernista in riva al mare. Edificata nel 1929 su progetto di Eileen Gray e dal marito Jean Badovici, questa residenza era stata il loro luogo di incontro, scambio e vacanze negli stessi anni in cui si incontravano nella città di Vézelay. L’atteggiamento dello stesso Le Corbusier nei confronti delle arti figurative è infatti direttamente riconducibile all’esperienza della pittura parietale, che lo accomuna ad altri artisti ed architetti. L’esperienza con Jean Badovici e Fernand Léger nella casa in Borgogna, nel 1934, vide la realizzazione di opere che volevano ‘distruggere’ la parete stessa. Una nuova interpretazione che vede pittura e architettura abbracciarsi per dar vita ad una nuova spazialità. L’attenzione rivolta alla pittura parietale non ha come unico fine quello di illustrare un mero dato archeologico, bensì è tesa a dimostrare quanto in comune le due esperienze, quella contemporanea e quella arcaica, seppure cronologicamente molto lontane, avessero. Risulta dunque interessante sottolineare ancora il rapporto tra Le Corbusier e Chistian Zervos principalmente per l’attenzione che entrambi hanno dedicato alle tematiche primitiviste. Se l’editore greco, nella sua rivista d’Avanguardia ha sempre difeso e portato avanti le istanze artistiche dell’arte avanguardista e dunque le sue inclinazioni primitiviste, l’architetto ha in parallelo coltivato il culto delle civiltà preclassiche che, come dichiarato precedentemente, è scaturito dalla visione diretta effettuata coi viaggi del 1911 e 1933 nell’Oriente e nello specifico in quei luoghi della Grecia che hanno cullato le civiltà preclassiche. Risulta necessario mettere in parallelo i due ‘progetti culturali’: se Zervos aveva in mente ed ha perseguito per tutta la sua carriera un ‘progetto archeologico’ che abbracciasse tutto il Mediterraneo, similarmente Le Corbusier si è fatto carico di un progetto per certi versi artistico del Mediterraneo, cercando di tessere i fili di un mondo le cui espressioni artistiche, popolari e specialmente vernacolari erano diventate l’occasione per una riflessione d’ambito artistico. La figura controversa del Maestro potrebbe essere paragonata a quella di un artista di altri tempi, un talento completo la cui genialità si rinnova negli anni rivelando interessi nuovi, propensioni e colpi di scena che lasciano trapelare un carattere politropo da cui emerge una conflittualità interiore. La vita di Le Corbusier è stata sin da subito una continua contaminazione di eventi, incontri diversificati, luoghi e mestieri che hanno fatto dello stesso uomo un artigiano-artista, scultore, architetto e scrittore. Una personalità che si è distinta per la capacità di assorbire mutamenti sociali e culturali, capace di caratterizzarsi per una compresenza matematico-razionale e artisticosensibile: una coesistenza che lo accomuna per alcuni aspetti alla figura mitica del Minotauro, ingabbiato nella sua natura doppia che lo rende sofferente. Friedrich Durrenmatt esprime infatti una visone rivoluzionaria del Mito; il suo personaggio legge la realtà al di là, o prima, degli strumenti della ragione. In questo senso, la duplice natura del Minotauro, al confine tra umanità e bestialità lo rende capace di vedere e sentire cose che l’uomo razionale non afferra. Questa situazione lo condanna alla solitudine poiché il suo essere Minotauro gli fa perdere gli strumenti di comunicazione con il resto del mondo. La condizione del Minotauro ricorda la figura di Le Corbusier, la duplicità in essere che trapela dalla sua opera. Una componente che accompagna la vita dell’uomo e si incarna nella sua produzione artistica. Le Corbusier si muove sin dai primi anni della sua attività all’interno di un rigido e rigoroso insieme di principi, ma, andando oltre gli schemi da lui stesso descritti, di pari passo alla maturazione della sua sperimentazione progettuale, si nota che si acuiscono le “divergenze”. Questa scrittura sovrapposta alla ragione, della quale la presente ricerca si occupa, si manifesta nelle fratture del pensiero razionale, per investire lo stato profondo, intimo del sentire irrazionale: è la divergenza dal sistema di regole che lui stesso si impone, figlia della componente emozionale, che anima le sue architetture. La ricerca di un sistema di regole con cui l’architettura Moderna deve cimentarsi per perseguire la chiarezza, la completezza e l’adattamento al processo di industrializzazione dell’edilizia viene elaborata con facilità da Le Corbusier, che, sin dai primi testi, si impegna in una scrittura precisa ed esplicita e propone slogan che, dal 1923, hanno arricchito i dibattiti internazionali dell’epoca, fecondando il terreno per la rivoluzione architettonica Moderna di cui siamo ancora, in parte, partecipi. Questo sistema ordinato, che progredisce nell’ambito della sperimentazione architettonica, si rivela lasciando in ombra il secondo grado di lettura, quello irrazionale, che si manifesta invece più chiaramente nella pittura Purista e nella matrice artigiana dell’architettura; tuttavia queste prime sbavature formali e concettuali, che hanno carattere episodico nell’attività del giovane Charles-Edouard Jeanneret, esplodono poi nelle tarde produzioni del secondo dopoguerra. Le discrepanze emotive si aprono a tratti, creando nelle produzioni una dicotomia tra ragione e sentimento, tanto da proiettare la critica verso la ricerca di una nuova verità Lecorbuseriana, oltre quella teorizzata e dichiarata dal Maestro; il dibattito, già innescato dagli stessi esponenti del Movimento Moderno, si amplifica con la realizzazione di Notre-Dame-duHaut a Ronchamp, (1950 – 1955), il Piano per Algeri (1930) e la realizzazione del Capitole de Chandigarh (1952- 1965), per dispiegarsi con maggiore completezza solo dopo la sua morte. Così come nel mito il Minotauro vive una condizione di marginalità, che si risolve solo con la morte o la riduzione a feto, nello stesso modo, Le Corbusier è imprigionato in un sentire oltre la ragione, che lo rende distante e a volte incompreso dai suoi contemporanei. Durante la prima fase della sua produzione architettonica, e precisamente valutando le realizzazioni teoriche e progettuali elaborate fino agli anni venti, Le Corbusier, quale architetto già di fama internazionale, subisce il giudizio dei suoi stessi colleghi – aderenti al movimento funzionalista – e viene disapprovato per rispettare solo in parte le sue stesse teorie. Viene accusato di promuovere un’architettura formalista, di utilizzare forme che glorificano solo l’architetto, autoreferenziali, che mettono da parte la summa teorica del funzionalismo, e ne dimenticano il fine stesso. Tale atteggiamento è ritenuto inopportuno per trovare soluzioni efficaci alle esigenze della massa, obiettivo perseguito dal movimento funzionalista. L’affiorare di queste critiche, già durante la prima fase, testimonia l’embrione della natura duplice del suo essere architetto. Le compresenze fra sistemi progettuali ordinati e poetici divergono dalla dottrina pura, e non riescono ad essere spiegati in maniera squisitamente razionale. In questo scenario, il gruppo minuto dei suoi critici, costituito da membri del CIAM, non riesce a trovare una cornice su misura alle proposte del Maestro. Le Corbusier, infatti, ricercando nell’architettura una carica umana, oltre la regola della dottrina, si batte contro il “funzionalismo semplicistico”, e questo suo modo personale di intendere e conciliare le regole Moderne con la propria sensibilità lo porta a scontrarsi con i principi razionali da lui stesso enunciati, esponendolo alle contraddizioni fra teorie elaborate ed opere realizzate. Tra i primi critici dell’operato Lecorbusieriano vi è Karel Teige, architetto e critico cecoslovacco, che svolge la sua attività nel Bauhaus accanto a Gropius e Mayer. Egli si dedica principalmente alle tematiche sociali da introdurre nella pratica progettuale della scuola. Teige, intorno al 1929, esprime le sue prime perplessità verso le posizioni di Le Corbusier, contrastando il carattere perturbante delle sue architetture: “Le Corbusier ha confuso il funzionalismo pratico con la forma artistica autocratica”, è l’osservazione avanzata sullo studio del Musée à croissance illimitée, non ritenuto sufficientemente funzionale. Più tardi la critica diventa accesa e precisa: “penso che le leggi della composizione, persino quelle della sezione aurea, siano senz’altro ottime per scultori e pittori. Ma l’architettura non è una composizione, bensì un organismo vivo, che funziona, ed è qui che va cercata la poesia. Una casa, una città, ci aiuteranno a vivere felici e contenti grazie alla perfezione e non al loro ornamento formale”. La critica verso Le Corbusier si muove non solo all’interno del processo formale ma soprattutto sul piano ideologico; in particolare, sul tema dell’abitazione, il più sensibile rispetto agli obiettivi perseguiti dal Movimento, il critico praghese contesta lo status borghese dell’architetto purista. Le Corbusier sarebbe poco attento alla problematica abitativa di massa, tematica cruciale, in quegli anni supportata dal pensiero socialista, da perseguire attraverso l’idea di existenz minimum, abitazioni standardizzate e a basso costo. Al contrario, appare troppo concentrato su costruzioni di lusso, lavora quasi esclusivamente per privati abbienti, producendo opere uniche e difficilmente riproducibili, non riuscendo perciò ad intercettare la committenza pubblica. Infatti, le prime realizzazioni sono prevalentemente ville private o edifici abitativi accessibili a pochi, seppur concepiti secondo principi Moderni: la rivoluzione degli ambienti e la riduzione dei vani, l’introduzione degli standard minimi e la trasformabilità dell’abitazione secondo un processo funzionale dell’organismo. Per Le Corbusier “il tema dell’abitazione è uno spazio mentale piuttosto che uno spazio fisico ascrivendolo necessariamente alla geografia dell’anima anziché a quella della realtà oggettiva” la casa è concepita come un sistema che prevede realtà complesse, “legata alle mutazioni del profondo, all’intensità e alla memoria, si ritrae e nega ogni certezza, per farsi aspirazione segreta, nostalgica taciuta, ascrivendosi ad un mondo immaginario, ripercorribile solo nel gioco, nel desiderio, nell’invenzione poetica”. Le sue proposte abitative sono costruzioni complesse, che si inseriscono nella scia dell’entusiasmo Moderno, ma guardano anche all’avanguardia progressista, avvolte da una poetica che travalica i dogmi del funzionalismo. All’esigenza della creazione di nuovi alloggi Le Corbusier aggiunge una sua idea di modernità che si esprime attraverso l’interazione di più componenti: il funzionamento dinamico degli ambienti, il miglioramento dell’appartato tecnologico impiantistico, l’introduzione di spazi intermedi, devono conciliarsi anche con la ricerca di nuove forme e di un linguaggio Moderno che tenda sempre all’armonia e alla purezza: principi già contenuti nel testo Après le Cubisme. Tuttavia, le sue proposte abitative fanno pensare al borghese. La poetica dell’architetto viene considerata superflua, il cerchio delle istanze proposto tende a stringersi ed il risultato formale, così come la concezione armoniosa dell’insieme, risultano ingombranti forse perché non trasferibili o meglio non riproducibili. La voce di Teige è solo l’apertura dello scenario critico verso le prime inclinazioni controverse del Maestro che nel 1936 viene promosso ad “alfiere del nuovo irrazionalismo”. Questa è la visione che lo storico Nikolaus Pevsner propone nel suo testo Pioneers of the Modern Movement. La posizione di Le Corbusier, secondo lo storico, oscilla tra l’irrazionale e l’apoteosi della razionalità. Dopo aver presentato i protagonisti del Movimento Moderno, di cui Gropius è glorioso esempio e riferimento della corrente architettonica, introduce velocemente l’ambigua figura dell’architetto svizzero, poco inscrivibile nelle maglie strette del Movimento Moderno. Le contraddizioni presenti in nuce nella prima produzione Lecorbusieriana, e colte dalle critiche dei suoi contemporanei, aprono allo sviluppo di nuove poetiche nelle fasi successive. Le “strutture bianche”, caratterizzate dall’armonia e dalle geometrie pure, lasciano posto a nuove contaminazioni artistiche e culturali, dovute all’apertura alla committenza internazionale e alle sperimentazioni su tematiche eterogenee che spaziano “dal cucchiaio alla città”. La fine del secondo conflitto mondiale e le esigenze della ricostruzione creano l’occasione per mettere in pratica le nuove visioni di città. L’Europa faticosamente trova le energie per sanare i disagi primari, il bisogno di nuovi alloggi è dilagante così come il bisogno di nuovi piani urbanistici ed infrastrutturali. In questo contesto si ricerca disperatamente una strada, e quella sviluppata dai CIAM negli anni precedenti al conflitto, ispirata alla Carta di Atene, si afferma con facilità. Nascono i grandi edifici lineari, le megastrutture e le nuove tipologie abitative che aspettavano da anni la possibilità di prendere forma, di uscire dalla carta ingiallita e dalla teoria. Nel bisogno di rinascita dalle macerie, le architetture di Le Corbusier e le sue idee sono un miraggio che si realizza, una promessa di salvezza. La grande occasione di prova che investe gli architetti nella produzione di architetture di massa, realizzate in tempi brevi e con risorse economiche molto contenute, diventa materia di nuove sperimentazioni: i sistemi abitativi di grande scala, immaginati fino agli anni trenta, hanno la possibilità di essere realizzati. In tale occasione la produzione di Le Corbusier compie un salto qualitativo, e al massimo della razionalizzazione si accosta, esaltata, la componente poetica. L’Unité d’Habitation di Marsiglia (1947-1952) è informata da innovazioni debitrici agli interessi di sempre – la misura, al matematica, la proporzione – ma anche alla ricerca di un linguaggio universale dell’architettura, e alla sensibilità particolare dell’architetto. Il sistema Modulor, sistema metrico messo a punto con fatica nello studio di Rue Severin a Parigi dopo quattro anni di lavoro, guarda alla produzione di massa ed al raggiungimento della perfezione antica, quella dei numeri d’oro, che Le Corbusier reinterpreta per l’uomo contemporaneo. Tuttavia, lo strumento che nasce come sistema metrico capace di unificare le codificazioni esistenti per l’industrializzazione dell’architettura, è anche la via per perseguire una legge generale di armonia che egli trae dallo studio della natura. Sono infatti le proporzioni insite nella natura, e quindi nei rapporti del corpo umano, che egli sviluppa matematicamente; ciò lascia intendere che il motore pensante dello studio persegua ancora l’ideale dei rapporti armonici. Alla regola teorizzata ed applicata fa da contrappeso l’estro personale, che si libera sul tetto e sull’epidermide della grande opera razionalmente funzionalista. La figura del Maestro è sempre un riferimento internazionale, e l’occhio della critica, così come quello degli stessi simpatizzanti del Gruppo CIAM, osserva con favore alterno le nuove proposte del Maestro che lascia alle sue spalle la ricca produzione di “bianchi capolavori” per aprirsi ad “u n linguaggio che porta in emersione la morfologia delle forme”. Nel 1950 l’Unité d’Habitation di Marsiglia è già in costruzione: “L’edificio che Le Corbusier erige a Marsiglia «l’Unité d’Habitation de grandeur conforme» è giunto, con la struttura in cemento armato, al suo fastigio. Questo di Marsiglia è l’avvenimento architettonico moderno oggi più importante del mondo. È nella stupenda tradizione francese determinare questi avvenimenti che di un problema tecnico-economico-sociale fanno monumentum (non si intende un monumento in fatto di mole, ché un monumento può non essere grosso, ma in fatto di significato e di inserimento nella storia). Così è di quest’edificio, vero monumento nella storia dell’edilizia francese e nel complesso di realizzazioni destinate a risolvere, in quel Paese, il problema dell’abitazione”. Alla descrizione di Gio Ponti che rileva nella struttura i buoni presupposti alla soluzione del problema abitativo si contrappone una critica che trova riscontro nelle riflessioni sulle “inquietanti forme libere sul tetto giardino”. Una svolta stilistica inattesa che rileva nell’Unité inquietanti “forme concavo convesse, e che esibisce brutalisticamente il cemento armato”. Ancora una volta l’architettura nasce da esigenze concrete, da bisogni primari, razionali, che non diventano mai il limite al flusso delle deviazioni formali allo spirito dell’architettura non inscrivibili in una formula, ma aprono ad una moltitudine di possibilità sempre nuove. Risultato di un continuo rinnovamento della sensibilità umana dell’architetto, che si amplifica con il passare del tempo, e si dichiara in modo consapevole nelle architetture tarde. Per alcuni critici la proposta della Terrazza dell’Unité è figlia di una “deviazione neobarocca”, è la ripresa di alcune costanti formali a carattere plastico- spaziale, a seguito del Purismo funzionalista. Il critico Dorfles descrive gli elementi che compongono il tetto dell’Unité forme aperte non statiche, che si inseriscono in modo plastico nello spazio, figlie di un secondo Barocco, il Barocco Moderno. La sintesi e allo stesso tempo la spaccatura della critica esplodono intorno all’ampia polemica che suscita il progetto della Cappella di Ronchamp. I primi giudizi sono espressi poco dopo l’apertura di Notre-Dame-du-Haut, inaugurata nel Settembre del 1955, quando Ernesto Nathan Rogers raccoglie le sue prime impressioni nel testo “Il metodo di Le Corbusier e la forma della cappella di Ronchamp”. Inizia così la stagione calda del dibattito che pone al centro le dicotomie storiche condensate nel rapporto forma-contenuto. “È una massa abbastanza piccola che biancheggia”, è la prima impressione che si ha rivolgendo lo sguardo verso la collina, una “composizione complessissima, densa di valori timbrici inimitabili“, che appare “poliedrica nei molteplici particolari, eppure unitaria sinfonicamente.
Si può solo cercare di cogliere il linguaggio essenziale per penetrarne il significato suggerito dalle forme”. La chiesa senza facciate è “un gioco di curve e controcurve; di concavità e convessità di ombre proprie e di ombre portate, di sfumature, all’intonaco di spessore elevatissimo, fa da contrappunto insistente, simile a una nota tenuta”. Rogers ricuce i legami con le forme avvalendosi della storia, la storia della memoria dell’architetto, e trova rifugio nei viaggi di gioventù, nelle immagini del Mediterraneo, sottolineando come quest’opera non si discosti dalla storia architettonica. Il giudizio di Rogers è esclusivamente positivo, “il non cattolico Le Corbusier ha ideato una forma che è la più bella chiesa dell’architettura contemporanea” ed aggiunge che “In questo secolo di robot, delle materie plastiche, dell’industrializzazione, l’architetto che più lo rappresenta, che ha gridato da decenni ai quattro venti la necessità che il macchinismo entri nella sfera della produzione edilizia, proprio lui ha innalzato un capolavoro con le sue proprie mani un atto di intelligenza e di sensibilità da parte di un uomo che, quando considera la realtà, è capace di sottrarsi al fascino di qualsiasi slogan – perfino dei propri – perché è libero di intenderla nelle sue esigenze concrete”. Veloce è la replica di Giulio Carlo Argan, che ne fa una questione ideologica partendo da un’analisi artistica, soffermandosi sul fatto che “Ronchamp è fuori centro proprio rispetto alla valenza religiosa”, e aggiunge “nulla nel suo passato poteva far sospettare che, sotto il rigore razionale, covasse il fervore mistico. Non occorre essere mistici per costruire chiese o dipingere quadri il culto religioso sta nella condizione storico culturale, un fatto e un’esigenza sociale, della quale forse non partecipa in proprio, ma civilmente che riconosce e rispetta” Per Argan questo è stato l’atteggiamento professionale ed umano di Le Corbusier. In quanto alle forme, ricorda a Rogers: “tu descrivi la chiesa come fatto plastico posto sul colle, a far da modulo allo spazio infinito; e poco ci dici, perché ben poco può dirsi, di quella che di ogni edificio, anche di culto, dovrebbe essere la funzione sociale, comunitaria”. Secondo Rogers invece, “questa chiesa è anzitutto un monumento, qualcosa che vale per sé, per l’armonia delle forme e delle proporzioni o per la sicurezza dell’invenzione plastica, e non come elemento di un rapporto, di una mediazione. Qualcosa dell’edificio media la visione del paesaggio, della natura un processo siffatto tiene piuttosto del magico che del religioso, e questo spiega perché la costruzione evochi vagamente forme pittoresche”. Al contrario, Argan sostiene che Le Corbusier per superare il razionalismo “non ha trovato di meglio che polemizzare a fondo col razionalismo e fare l’apologia dell’irrazionale: giungendo fino a identificarlo, e gratuitamente, con la religione”. E, infine: “la chiesa di Ronchamp è barocca, non certo per un ricorso a forme seicentesche, ma nel senso che al Barocco dava D’Ors quando lo definiva, esultante “lo stile delle barbarie persistente permanente sotto la cultura Barocca è in questo senso la grande copertura , è l’invenzione delle due orecchie ai lati della porta , è infine la pianta, col suo sviluppo di curve e il suo andamento ambiguamente biomorfico”. Ma in tutto questo ragionamento sottile e preciso, Argan tenta una lettura più ampia dell’evento delle nuove forme, aprendo le vedute verso la strada Surrealista “se il superamento del razionalismo dev’essere il trionfo patente dell’istinto irrazionale per diritto di proprietà, il triste merito di quel superamento spetta a Salvator Dali. Che non è una gloria ma un’onta della cultura europea”. Anche per Bruno Zevi la Cappella di Ronchamp segna un nuovo modo di sentire che vede nelle ultime inclinazioni della produzione Lecorbusieriana il superamento dell’elemento poetico su quello funzionalista. Il dibattito aperto per mesi si esaurisce momentaneamente con le dichiarazioni di De Carlo che riferendosi alle premesse di Rogers spiega: “Io non credo che si possa prendere argomenti dalla Cappella di Ronchamp per impostare, come tu hai fatto, un problema morale dell’architettura. Non credo si possa farlo per nessuna opera di Le Corbusier.”; o come ha detto Argan, “per impostare un discorso politico-sociale dell’architettura”. Crede invece che per “Le Corbusier questa determinazione è univoca: è la cultura e in particolare l’arte, che determina tutto. I grandi eventi plastici dell’architettura, la stessa urbanistica hanno per lui il potere di riscattare gli errori del mondo, trasformare gli uomini, risolvere le condizioni sociali, moralizzare la politica”. Pertanto le forme possono modificarsi continuamente mentre Ronchamp evidenzia “travolgenti novità formali”. I contenuti riferiti ad una sola opera diventano astratti ed infine ingiustificati. Secondo De Carlo vanno anche considerate altre testimonianze, mettendo al centro del dibattito anche la discussa realizzazione, degli stessi anni, di Chandigarh, che vede il Maestro impegnato nella costruzione di un’intera città, e anche l’edificio da poco completato a Marsiglia. In questi altri due esempi, torna ad affacciarsi la discontinuità tra ragione, misura e divergenza. De Carlo sottolinea che il sistema Modulor, generatore dei due complessi, sembra avere poco a che fare con le regole finora imposte dal Maestro, piuttosto sembra applicarsi una contraddittoria dismisura alla ragione e alla misura: se pur si tenta di applicare la scala umana, “gli uomini sono divenuti massa e la scala ha assunto le dimensioni del mito”. La capacità di Le Corbusier di ricevere dal mondo è interpretata dal Maestro in una sua dichiarazione contenuta nell’ultimo capitolo de L e Poème dell’Angle Droit (stesura tra il 1947-1953), in cui spiega la scultura proposta come emblema dello sviluppo della città di Chandigarh: “pleine main j’ai reçu, pleine main je donne”. La mano aperta interpreta il ruolo dell’India e la filosofia di Gandhi, è un gesto di altruismo, un segno di pace nei confronti dell’umanità, ma anche la sintesi poetica del ruolo che Le Corbusier sente di aver rivestito nel mondo la mano “aperta per dare, aperta per ricevere”. La mano aperta è la metafora che mostra l’aspetto umano del Maestro, superando le sovrastrutture culturali che lo hanno reso l’architetto emblema della razionalità: sembra ricordare il senso di altruismo di un uomo che ha saputo ricevere da altre civiltà, e tradurlo nell’impegno prestato alle dinamiche architettoniche del Novecento. La piene mani da cui riceve rappresentano la capacità di apprendimento dal mondo, e le mani con cui dona la produzione architettonica, che Le Corbusier spiega come fosse un processo idealmente circolare, costellato di contraddizioni che si riverberano fra formazione giovanile ed espressione poetica. Egli matura un proprio percorso creativo che si sviluppa attraverso l’osservazione, la meditazione ed il disegno, che viene spiegato dalle sue stesse parole: “la chiave è questa: guardare… guardare/osservare/vedere/ immaginare/inventare/creare”. L’appunto, scritto su un Carnet qualche anno prima della sua morte, mostra l’equilibrio del suo metodo fra razionalità e sentimento: le sei parole utilizzate rappresentano un postulato che nasce dalla ragione, dal dato reale, e sfocia nell’immaginazione e nell’invenzione. I caratteri reali, estrapolati, e assimilati attraverso il disegno, riemergono manipolati dall’inconscio; attraverso una creatività progressiva costituiscono la grammatica delle forme sensibili, essenza della propria poetica. Questo processo di costruzione delle forme architettoniche è stato segnato dal metodo di osservazione della realtà appreso durante la formazione giovanile, e si è realizzato in un percorso creativo che assume gli insegnamenti del passato come base fondamentale del nuovo. L’assorbimento delle forme e delle geometrie della realtà è costituito di due componenti diverse: la prima, razionale, è riferita alla capacità del giovane analizzare le forme reali, coglierne le geometrie e ricondurle all’essenza matematica; la seconda è la registrazione della realtà epidermica, emozionale, suggestiva, che chiama in causa la sensibilità personale del giovane. Queste due componenti configurano un dualismo della capacità di ricevere dal mondo, che si riverbera nella sua fantasia progettuale. Il termine “ricevere” conduce alla capacità di apprendere, dunque alla messa a fuoco di alcuni momenti fondamentali della crescita del giovane architetto: terreno fertile sul quale il giovane Charles-Edouard Jeanneret basa le sue prime convinzioni – confluite negli articoli redatti per la rivista L’Esprit Nouveau, e concretizzate in Vers une architecture momento nel quale si genera il metodo, razionale ed emotivo, del suo studio e della sua formazione come artista prima e come architetto poi. Questi scritti mettono in luce le idee nate dalle esperienze che il giovane riceve durante la sua formazione di base, che costituiscono il primo tassello delle contraddizioni – contraddizioni di una formazione densa di influenze diversificate, che diventano la chiave delle contraddizioni dell’opera architettonica. La stratificazione della sua conoscenza, relativamente all’ambiente culturale nel quale matura, ed ai diversi centri di sapere che costituiscono le basi della “formazione del suo spirito”, chiarita grazie ad un cospicuo numero di testimonianze scritte, corrispondenze, disegni, e cronache di episodi personali, è attraversata e caratterizzata da un duplice ordine di imprinting. È nelle esperienze maturate a La Chaux-de-Fonds che si delineano i primi stimoli duali, indotti dalla formazione scolastica e dall’ambito familiare. Questo dualismo si consolida nel tempo attraverso la scuola da incisore, durante la quale Jeanneret mette a punto un personale e rigoroso metodo di osservazione della realtà e della sua restituzione. Un secondo sistema di influenze è determinato dallo studio dei testi che il giovane matura nella fase di apprendista architetto, che conciliano interessi molteplici: alla passione per la geometria, per la matematica e per la scienza si accompagna l’interesse per la letteratura, per i testi filosofici, e l’apprezzamento dell’arte: aspetti che definiscono l’animo sensibile, emotivo. Attraverso il disegno en plen air il giovane indaga la natura, la vegetazione e i suoi colori; un esercizio che prevede l’estrapolazione degli elementi vegetali dal contesto naturale, primo processo razionale di astrazione, da cui scaturiscono le esatte proporzioni, il rigore geometrico, e l’armonia delle forme naturali. Germogliano gli elementi determinanti per la formazione di incisore, che diventeranno invarianti della composizione architettonica. In parallelo, l’esperienza visiva, sensibile, e la metabolizzazione della percezione della realtà, che il giovane disegna e fissa nel subconscio permanente, genera immagini che riemergono secondo un processo creativo personale, modulato dal proprio modo di cogliere ed interpretare la realtà. Il primo strumento, efficace per l’ideazione delle casse orologiaie, è alla base del suo processo creativo e racchiude il “segreto delle forme”: un vocabolario di configurazioni rigorose, razionali, costruito durante l’infanzia. Questo primo sistema di regole sarà superfetato da “apparenti sterzate creative”, immagini plastiche che stratificano il portato razionale, desunte dell’osservazione della realtà durante i viaggi del 1907 e 1911. Il meccanismo duale, che definisce la struttura creativa di Le Corbusier, si manifesta sin dalle prime osservazioni del Mondo Antico, dove l’ambito razionale, le proporzioni e le armonie, si sommano alle visioni sensibili dei paesaggi archeologici, al rudere e alle forme reali dell’architettura antica capaci di evocare emozioni. La capacità di apprendimento del giovane Jeanneret si delinea pertanto attraverso due sfere dell’intelletto: sensibile ed intellettiva, indotte dalla prima formazione artistica, alimentate dall’avvicinamento all’architettura – in Svizzera, sotto la guida di L’Eplattenier – consolidate con gli studi teorici sull’architettura e il mondo classico – attraverso l’indirizzo di William RItter e August Perret per ricomporsi nel momento del Voyage d’Orient del 1911. Il 1911 è l’anno chiave della crescita di Le Corbusier, in cui si compie la sua formazione del gusto, portando a sintesi la rigorosa capacità di osservare, la formazione teorica, e la sensibilità di percepire la realtà. Sebbene la formazione della sensibilità dell’architetto si alimenti durante tutta la vita del Maestro, successivamente al Viaggio del 1911 Le Corbusier avrà ormai stabilito i propri riferimenti fondamentali e la propria posizione nel mondo. Il Voyage d’Orient si colloca al momento culminante della formazione, quando è ancora sufficientemente vergine per accogliere le suggestioni che l’esperienza diretta gli propone, ma ha ormai acquisito – differentemente dal primo viaggio in Italia – la strumentazione teorica e pratica per poter comprendere l’architettura. A tale momento corrisponde la visita delle rovine del Mondo Antico, prima e ultima volta della sua vita in cui entra in contatto ed esplora attivamente il paesaggio archeologico: ritornerà in futuro sugli stessi luoghi, ma non si soffermerà sugli stessi soggetti. Ad Atene tornerà solo nel 1933 per il CIAM, a Roma, vedrà Michelangelo e la città rinascimentale e barocca, a Pompei non tornerà più. L’imprinting del Mondo Antico riveste dunque un ruolo centrale per la sua natura di architetto, per il momento storico in cui capita, e il valore iniziatico che ha avuto nella sua formazione disciplinare; le logiche e le ragioni di questo momento cardine risiedono nel percorso precedente il Viaggio. La grammatica dei ruderi è costituita di aspetti sintattici e figurativi. La sintassi deriva dalla materializzazione dell’azione del tempo sull’archeologia, costituita da diversi fenomeni: di dissimulazione dei tracciati ordinatori antichi; di sovversione dell’ordine compositivo per successive aggiunte eterotopiche; di privazione della compiutezza dell’opera. Tali fenomeni si riverberano in diversi processi creativi dell’opera progettuale: nella disposizione paratattica delle masse assolute, che gravitano libere entro uno spazio fluido e delle quali sono difficilmente leggibili i tracciati regolatori; nell’accumulazione di strati e frammenti eterogenei, sovrapposti o accostati gli uni agli altri atti ad arricchire l’immagine della struttura Moderna; nella scarnificazione delle superfici e nella sottrazione di parti che mettono in tensione l’architettura con l’esterno. I riferimenti figurativi si possono individuare nella citazione di particolari forme plastiche o di piccoli sistemi spaziali costituiti da gruppi di elementi, podi, colonne, basamenti, scale, replicati nel progetto come objets-reliquia. Le ricorrenze degli aspetti sintattiche figurativi delle rovine del mondo antico, nelle testimonianze dei Carnets e nelle espressioni progettuali, messe in luce dall’analisi sistematica della formazione e della produzione di Le Corbusier, mostrano la fascinazione per il sublime e il processo di progressiva drammatizzazione della propria architettura. La mostra è organizzata sia per temiche per cronologia ed è suddivisa su tre sezioni: arte, architettura e ricerca. La sezione dell’arte illustra l’evoluzione di Le Corbusier dalla sua formazione e il suo ultimo lavoro. L’arte ha sempre avuto un ruolo centrale per Le Corbusier, sia come attività a sé stante che come stimolo per l’architettura e il design: questa parte della mostra inizia con studi sulla natura, sul paesaggio e sull’architettura che raramente sono stati esposti. Dimostrano come il giovane Charles-Edouard Jeanneret si sia confrontato con lo spazio e con l’architettura. Seguono dipinti iconici nello stile del Purismodegli anni Venti, un movimento d’avanguardia che Le Corbusier ha co-fondato con l’artista Amédée Ozenfant a Parigi. L’asse dell’arte comprende anche dipinti astratti e colorati, sculture sorprendenti e collage tratti dalle sue ultime opere. Rivelano un lato di Le Corbusier che è stato finora poco conosciuto. La sezione dell’architettura si concentra sulla pratica progettuale di Le Corbusier e sul suo impegno con i principi architettonici dell’ordine. È qui che vengono mostrati sia i progetti realizzati che quelli non realizzati. Includono schizzi e disegni, modelli e visualizzazioni per la pianificazione urbana, e sono evidenti gli stretti parallelismi con la sua opera artistica. In mostra sono presenti i progetti originali per l’Unité d’Habitation a Marsiglia (1945-1952), per la città di Chandigarh in India (1950-1965) e la Cappella di Notre-Dame-Du-Haut a Ronchamp (1950-1955). La sezione della ricerca, dedicata all’idea di “Atelier de la recherche patiente” (Studio di ricerca paziente), è il fulcro della mostra. Costituisce il legame tra architettura e arte. Qui il pubblico ha modo di comprendere la vita lavorativa quotidiana di Le Corbusier, che divideva la sua attività tra due studi parigini. Nella sezione di ricerca viene esposta, tra le altre cose, la collezione di oggetti naturali dell’artista: li vedeva come “objects à reaction poétique” (oggetti che provocano una reazione poetica). Viene esposta in questa sezione anche una selezione delle sue fotografie. Inoltre, il Zentrum Paul Klee espone per la prima volta in Svizzera la collezione di cartoline di Le Corbusier.
Museo Zentrum Paul Klee di Berna – Svizzera
Le Corbusier. The Order of Things
dall’8 Febbraio 2025 al 22 Giugno 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 17.00
Lunedì Chiuso
Foto Allestimento Mostra Le Corbusier. The Order of Things courtesy Museo Zentrum Paul Klee di Berna – Svizzera
Le Corbusier, anni ’30 © 2025, FLC/ProLitteris, Zurich
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Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret), Poème de l’angle droit (Portfolio, leave 17), 1955 Lithograph, 49 x 32 cm, Fondation Le Corbusier, Paris © 2025, FLC/ProLitteris, Zurich
Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret), Chitarra verticale, (prima versione), 1920 circa, Olio su tela, 84.5 x 104 cm, Fondation Le Corbusier, Paris © 2025, FLC/ProLitteris, Zurich
Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret), Unité d’Habitation Marseille, n. d. Wooden, model 111 × 101 × 48 cm, Fondation Le Corbusier, Paris © 2025, FLC/ProLitteris, Zuric