In questi giorni è facile imbattersi in due grafici inquietanti che rimbalzano sui social. Mostrano l’andamento dei risultati di alcuni dei test più utilizzati per misurare le capacità cognitive di adolescenti e adulti. E il responso è netto: da almeno un decennio, le competenze matematiche e linguistiche nei paesi sviluppati sono in calo costante. Come è possibile? I grafici arrivano da un articolo del Financial Times, e rendono evidente quello che molti esperti stanno osservando ormai da tempo: effettivamente, le capacità cognitive dell’umanità sembrerebbero aver raggiunto, e superato, il loro picco massimo. I test Pisa (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse – che in Italia vengono svolti nell’ambito dell’invalsi – ad esempio, hanno mostrato un miglioramento medio delle conoscenze matematiche, letterarie e scientifiche dei 15enni fino all’incirca al 2012, per subire poi una brusca inversione di tendenza, che continua ancora oggi. Discorso simile per i test Piaac, che misurano a livello internazionale le competenze linguistiche, matematiche e di problem solving della popolazione tra i 16 e i 65 anni. Il secondo ciclo di valutazione, realizzato a cavallo tra il 2022 e il 2023, ha mostrato infatti un forte calo quasi ovunque, rispetto al primo effettuato nel 2011-2012. E ancora: a supporto del declino delle capacità mentali medie dell’umanità, il Financial Times cita anche i risultati dello studio «Monitoring the Future» dell’Università del Michigan, che ha registrato annualmente il numero di adolescenti americani che valutano di avere difficoltà di attenzione e di apprendimento a partire dagli anni ’80. Anche qui, i risultati sono rimasti stabili per tutti gli anni ’90 e 2000, per poi subire un’impennata (cioè un aumento di ragazzi con capacità cognitive compromesse) a partire dagli anni ’10 del 2000. Le (limitate) statistiche disponibili sono quindi piuttosto negative, e lasciano prevedere un futuro dai tratti foschi: come specie, stiamo diventando sempre meno «intelligenti». Non si tratta di studi scientifici sistematici, e quindi simili conclusioni vanno prese «cum grano salis». Ma è comunque un tema che merita attenzione. Di certo non può essere una questione di natura biologica: i nostro cervello non può essere cambiato irrimediabilmente in un tempo così breve, e difficilmente è immaginabile qualche forma di intossicazione o di effetto ambientale su scala così vasta. Più probabile, semmai, che si tratti di una questione culturale. Il punto di svolta che emerge dai dati sembra arrivare intorno al 2012, e coincide – fa notare l’autore dell’articolo del Financial Times – con un cambio avvenuto un po’ ovunque nel rapporto che abbiamo con le informazioni, e come questo è mediato dai nostri device, smartphone, laptop, e via dicendo. Che che se ne sia detto, infatti, l’utilizzo di internet di per sé non è mai risultato dannoso per le nostre capacità cognitive: i libri possono piacerci più delle pagine web, ma le ricerche dimostrano che gli strumenti digitali, se usati nel modo giusto, rappresentano un valido ausilio per l’apprendimento e il potenziamento della memoria, dell’attenzione, della capacità di problem solving e via dicendo. Nel 2012 però viene fissato un cambiamento importante nell’ecosistema digitale: la fine del cosiddetto internet 2.0, in favore del nuovo internet, quello mobile, dei video e delle app, con i loro feed. È l’anno dell’acquisto di Instagram da parte di Facebook, che ha spostato la fruizione dei contenuti web dal testo alle immagini e ai video. Una trasformazione consacrata dall’ascesa di Tik Tok, che oggi vede la maggior parte degli utenti – soprattutto tra i più giovani – come passivi fruitori dei contenuti consigliati dagli algoritmi. Anche su internet, quindi, non si legge più. Si passa da un video all’altro rapidamente, spesso prestando appena attenzione a quello che guardiamo, guidati dai feed delle app e da una stringa infinita di contenuti che lottano per attirare la nostra attenzione. È questo atteggiamento passivo, a detta dell’autore dell’articolo, il più probabile responsabile del declino cognitivo a cui stiamo assistendo. Sarà vero? Difficile a dirsi, anche se l’idea sembra senz’altro plausibile. Vedremo se nei prossimi anni i risultati dei test continueranno a confermare il trend attuale. E se così fosse, non si può che guardare con una certa preoccupazione alla nuova rivoluzione digitale in atto: l’avanzata delle Ai, che promettono di alleggerirci ulteriormente dalle fatiche cognitive di tutti i giorni, col rischio di renderci ancora più stupidi, in futuro, di quanto non siamo già diventati fin’ora.
Simone Valesini