L’analisi delle piume di un avvoltoio fossile di 30.000 anni fa rinvenuto in Italia ha portato a una scoperta inaspettata, le rocce vulcaniche sono in grado di conservare tessuti organici con una precisione sorprendente, fornendo una nuova chiave di lettura dei processi di fossilizzazione. La prima segnalazione del reperto si deve a Romolo Meli, un geologo italiano che per primo studiò e riportò l’avvoltoio fossile in una lettera alla Società Geologica Italiana nel 1889. Quello stesso anno, Meli fu chiamato ai piedi del Monte Tuscolo (formazione vulcanica dei Colli Albani), circa 25 km a sud-est di Roma, dal signor Reali, un proprietario terriero locale. Questi riferì di un particolare rinvenimento da parte di alcuni dei suoi operai, mentre rimuovevano dei blocchi di roccia per far spazio a un nuovo vigneto. Durante le operazioni di sbancamento della roccia, gli operai trovarono una strana cavità contenente lo scheletro di un grande uccello, inclusa quella che sembrava l’impronta della testa e tracce del suo piumaggio. Nonostante la sorpresa iniziale, gli operai continuarono il loro lavoro, spostando i grandi blocchi di roccia nel materiale di scarto per essere rimossi e distrutti. All’arrivo sul posto, Meli si rese conto dell’importanza di questa scoperta e, sebbene la maggior parte del reperto risultasse danneggiato, recuperò parte dei blocchi di roccia contenenti il fossile. Nelle sue note, Meli riconobbe che il fossile apparteneva a un avvoltoio della specie Gyps fulvus vissuto 30.000 anni fa. Notò anche che la conservazione del piumaggio era sorprendente data l’origine vulcanica della roccia. L’avvoltoio fossile, come rivela la nota ufficiale di Meli, ha rischiato di scomparire del tutto. Parte del reperto, infatti, è andata perduta. Fortunatamente, ciò che rimane è straordinario: le impronte del piumaggio di un’ala e, soprattutto, della testa. Proprio quest’ultima è stata oggetto di un’approfondita analisi nel 2014. Grazie a tecniche di tomografia computerizzata, i paleontologi sono riusciti a riprodurre in 3D il calco della testa, rivelando particolari eccezionali come le palpebre, la membrana nittitante, la lingua e persino i dettagli della pelle del collo. Con una conservazione superiore a quella dei corpi delle vittime di Pompei, questo fossile rappresenta un caso unico nella documentazione paleontologica. A partire dal 2021, un team internazionale di ricercatori dell’University College di Cork in Irlanda, dell’Università Statale di Milano e dell’Università la Sapienza di Roma, ha studiato per la prima volta le piume fossilizzate di questo reperto con tecniche avanzate di microscopia e analisi molecolari. A differenza della maggior parte delle piume fossili, che appaiono come sottili pellicole di materia organica di colore scuro, quelle dell’avvoltoio dei Colli Albani sono tridimensionali e di un colore arancione ruggine ben distinto da quello della matrice rocciosa.

Ancora più strana è la composizione delle piume dell’avvoltoio, ricche di un minerale chiamato zeolite. Questo minerale non è associato a nessun altro tessuto organico fossilizzato conosciuto a oggi, quindi trovarlo nelle piume dell’avvoltoio ha sorpreso gli studiosi. L’eccezionale fossilizzazione dell’avvoltoio si deve all’ambiente vulcanico in cui essa è avvenuta. Nei sedimenti ricchi di cenere, la zeolite si forma grazie alla dissoluzione di cenere vulcanica e vetro, che rilasciano silicio e alluminio. Questi elementi, i «mattoni» delle zeoliti, precipitano naturalmente, replicando alla perfezione i materiali biologici. Nel caso dell’avvoltoio del Pleistocene, le piume si sono mineralizzate in zeolite, un meccanismo di conservazione finora sconosciuto per le piume e, forse, per altri tessuti fossili. L’analisi microscopica dettagliata ha rivelato la straordinaria conservazione di strutture delicate come le barbe e le barbule, dei minuscoli ganci che si comportano come un velcro naturale che consente alla piuma di avere una superfice piatta ed elastica. Ma ancor più sorprendente è stata l’identificazione dei melanosomi, gli organelli cellulari ricchi di melanina che davano colore alle piume del rapace. Questo livello di dettaglio dei tessuti organici fossilizzati, in aggiunta alla composizione chimica delle piume, suggerisce che il flusso piroclastico che ha sepolto l’avvoltoio fosse molto diverso rispetto al flusso che ha travolto Pompei. A Pompei, persone e animali furono sepolti vivi da flussi piroclastici caldi (>500 °C), veloci e turbolenti in grado di vaporizzare istantaneamente i tessuti organici molli. Purtroppo, non è stato possibile ricostruire le esatte cause di morte del rapace, ma il fatto che la testa e le piume non mostrino segni di traumi da impatto, indica che l’animale non sia precipitato. Questo escluderebbe l’idea che l’uccello fosse in volo al momento della morte. I ricercatori ipotizzano che, una volta a terra, forse attratto da una carcassa, l’avvoltoio sia deceduto a causa dalle esalazioni di gas, comuni nelle zone vulcaniche attive. La carcassa, secondo i risultati dello studio, venne poi sepolta da un flusso piroclastico molto fluido, ricco di cenere e a bassa temperatura. In queste condizioni, la rapida solidificazione del sedimento e la veloce precipitazione delle zeoliti, hanno permesso la conservazione tridimensionale e su scala microscopica di strutture delicate come le piume. Questa importante scoperta non solo apre nuove prospettive per la ricerca paleontologica e per lo studio dei tessuti molli fossilizzati, ma getta anche nuova luce sull’incredibile potenziale delle rocce vulcaniche, custodi di fossili eccezionali ancora da scoprire.
Adam Iurino