Giovanni Cardone
Fino 11 Maggio 2025 si potrà ammirare al Parco Archeologico del Colosseo Roma, all’interno delle Uccelliere Farnesiane luogo simbolo della città, riscoperto alla fine del Settecento dai viaggiatori del Grand Tour, la mostra dedicata a Constantin Brancusi – ‘Brancusi . Scoprire il Volo’ a cura di Alfonsina Russo, Philippe-Alain Michaud, Maria Laura Cavaliere e Daniele Fortuna. L’esposizione è in co-organizzazione con il Centre National d’art et de la culture Georges Pompidou di Parigi. Ed esplora uno dei temi principali della produzione artistica di Brancusi: il bestiario degli uccelli. Il percorso espositivo è articolato nei due ambienti delle Uccelliere, il primo dedicato alla scultura, il secondo alla fotografia e ai film dell’artista. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Constantin Brancusi apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che il Novecento ha visto l’affermarsi di definizioni spesso contrastanti dell’arte e del fa re artistico. Da un lato, l’artista non ha mai goduto come in questo secolo di una così ampia autonomia nel definire la sostanza della propria opera. Quasi simile a re Mida, il creatore novecentesco ha tramutato oggetti e spazi bizzarri o quotidiani in realtà dotate del crisma sacrale dell’artisticità. D’altra parte, il Novecento è stato anche il secolo della fenomenologia, dell’attenzione ai modi del manifestarsi originario della realtà nella coscienza umana. Mai come nel secolo appena concluso l’opera d’arte ha mostrato, come ha sostenuto Umberto Eco, il proprio statuto di opera «aperta», catalizzatrice e oggetto di interpretazioni e giudizi a volte pienamente discordanti. L’opera scultorea di Constantin Brancusi riassume esemplarmente questo essere plurale dell’opera moderna. Aedo platonico alla ricerca del significato dei simboli e della spiritualità arcaica della sua terra rumena, come voleva lo storico della religioni Mircea Eliade, Brancusi è apparso ad altri come lo spregiudicato ideatore di oggetti scandalosamente in bilico tra la forma e l’informe, tra arte e non arte. Nato il 19 febbraio 1876 nel villaggio di Hobita, in Romania, Constantin è il quinto figlio di Nicolae Brancusi, amministratore dei possedimenti del monastero di Tismana. La madre, sposata in seconde nozze, è la giovane Maria Deaconescu. Fin dalla primissima infanzia la vita del futuro artista è segnata dai difficili rapporti col padre e con i fratellastri nati dal primo matrimonio. A sette anni scappa di casa per la prima volta, a otto interrompe gli studi elementari per andare a lavorare presso un mercante di botti. Alla morte del padre riprende gli studi, che interrompe di nuovo dopo aver frequentato la quarta elementare. Da quel momento ricomincia a fuggire da casa; si mantiene lavorando come pastore, come apprendista tintore, come commesso in un negozio, ma viene sempre riportato a casa poco tempo dopo dalla madre, disperata. Infine a dodici anni si trasferisce a Craiova, capoluogo della regione dell’Oltenia. Lavora contemporaneamente in un’osteria e in una droghe ria, come garzone. Nel tempo libero inizia a intagliare piccoli oggetti nel legno delle cassette da imballaggio, riprendendo un’abitudine iniziata da bambino, quando scappava di casa per andare a vivere con i pastori, sulle montagne intorno a Hobita. Da quel legno di poco valore, a Craiova, riesce a costruire un violino, a quanto pare funzionante. Brancusi amava narrare questo aneddoto, e l’importanza reale di quel violino per la sua successiva carriera si ammantava nei suoi ricordi del colore delle leggende della sua terra. Sosteneva infatti che gli tzigani di Craiova facessero a gara per suonare quel suo povero strumento, dotato incredibilmente, proprio come i violini incantati degli tzigani nelle fiabe della sua infanzia, di un suono straordinario. Comunque fosse il suono prodotto dal violino, è certo che riesce a impressionare i clienti del locale in cui lavora, che lo convincono a iscriversi alla Scuola d’Arti e Mestieri di Craiova. Dubbioso del le capacità di quel garzone diciottenne, il direttore della scuola lo sottopone a un esame, che consiste nel completare un intaglio in legno ch’egli stesso aveva iniziato. Brancusi porta a compimento il lavoro in maniera brillante: la parte da lui realizzata è indistinguibile da quella precedentemente incisa dal direttore. Le sue singolari capacità vengono ben presto riconosciute alla scuola, dove già l’anno successivo il ragazzo vince una borsa di studio che gli consente di man tenersi, lasciando il lavoro da garzone. Nell’estate del 1897 riesce a pagarsi il primo viaggio, a Vienna. Alla Scuola d’Arti e Mestieri, Brancusi si rivela un allievo modello: i suoi voti in disegno industriale e matematica sono ottimi e si diploma con una menzione di lode. A questo punto, nel 1898, decide di proseguire gli studi e iscriversi alla Scuola Nazionale di Belle Arti di Bucarest. La sua vita nella capitale è quella di uno studente un po’ bohémien ma determinato. Per integrare la borsa di studio concessagli da un istituto religioso fa il lavapiatti, mentre passa il tempo libero cantando come tenore in una corale. L’istruzione della scuola di Bucarest è improntata a uno stretto modello accademico. Brancusi si dedica a copiare le sculture antiche, come per il busto del Vitellio, che gli vale una prima menzione di lode. Ulteriori premi seguiranno: per un busto tratto dal gruppo ellenistico del Laocoonte, per un Antinoo, per alcuni studi dal vero. L’esempio più caratteristico del tipo di insegnamento impartito è la prova del modello anatomico, che gli allievi realizzano riunendo lo studio naturalistico della muscolatura umana a quello delle pose plastiche offerte dalle statue antiche. Come i suoi colleghi, il giovane studia nel Dipartimento di anatomia della Facoltà di medicina e crea uno studio che riprende la posa dell’Ermes dei Musei Capitolini a Roma. Lo scorticato, com’era generalmente chiamato questo tipo di esercizio, vale a Brancusi una medaglia di bronzo. L’opera sarà poi acquistata dallo Stato per il Gabinetto anatomico dell’università. Nasce attraverso la ripetuta esperienza della copia e dello studio d’anatomia un crescente senso d’insoddisfazione che allontana Brancusi dall’interpretazione della classicità offerta dal mondo accademico di allora. Il plasticismo enfatico delle pose e dei muscoli s’intreccia nella sua mente al culto romantico del tormento creativo, dell’artista «nato sotto Saturno» e quindi destinato a una vita che unisce genio e malinconica sregolatezza. Legato ai principi di chiarezza e misura imparati alla Scuola d’Arti e Mestieri, e forse anche alla semplicità di vita e di valori che aveva tentato tante volte di raggiungere rifugiandosi tra i pastori sulle montagne dei Carpazi, Brancusi vede nell’esasperazione formale ed emotiva, che maggior mente interpreta a quell’epoca il gusto del pubblico, il sintomo di una decadenza, morale e artistica insieme. «Osservate gli antichi Greci – sostenne poi –, quando la loro scultura si apre ai movimenti convulsi e al dolore, da quel preciso momento ha inizio la loro decadenza. C’è cascato anche Michelangelo . Michelangelo non si è liberato dal suo tormento interiore. Gli rimprovero il suo dinamismo demoniaco . Io non credo al tormento creativo. Il fine dell’arte è creare la gioia. Si crea artisticamente solo nell’equilibrio e nella pace interiore». In questi anni di studio, tuttavia, il giovane assorbe pienamente ogni stimolo tecnico ed estetico che l’ambiente artistico e culturale di Bucarest può offrirgli. Nel 1902 si diploma con successo alla Scuola Nazionale di Belle Arti e inizia a progettare una carriera come artista. In un primo momento, egli spera di poter ottenere una borsa di studio per l’Italia dallo stesso istituto religioso che aveva in parte finanziato i suoi studi, ma invano. Scoraggiato per le magre prospettive che lo attendono, Brancusi torna sui suoi passi, in un para dossale viaggio all’indietro, che lo riporta dapprima a Craiova, dove scolpisce un ritratto per un amico, e successivamente nei villaggi vicini al suo luogo natale, dove si mantiene lavorando come falegname. L’anno successivo decide tuttavia di riprendere la strada di Bucarest, risoluto a conquistarsi uno spazio degno delle proprie capacità. Per l’ospedale militare propone di scolpire il busto dell’illustre generale Carol Davila, copiandone le fattezze da una fotografia. Ben presto comunque si risolve a partire verso quella che tutti gli artisti di Bucarest considerano la capitale mondiale dell’arte, Parigi. Tra gli allievi della Scuola Nazionale di Belle Arti, del resto, sono numerosi coloro che decidono in quegli anni di trascorrere almeno un certo periodo di perfezionamento nella capitale francese. La presenza di una nutrita comunità di connazionali, comprese molte fra le personalità più importanti della nobiltà rumena, favorisce un continuo dialogo culturale e politico tra Bucarest e la Francia, nonché un ambiente di contatti e relazioni potenzialmente prezioso per i giovani artisti che decidono di stabilirvisi. Nel 1904, Brancusi parte alla volta di Parigi. Ha ventotto anni e per due mesi viaggia a piedi attraverso l’Ungheria e l’Austria, la Baviera, la Svizzera e l’Alsazia. Brancusi arriva a Parigi il 14 luglio e trova alloggio presso la famiglia di un connazionale. I rapporti con la comunità rumena sono decisivi in dai primi mesi della sua permanenza nella capitale francese. Il giovane stringe amicizia con diversi artisti rumeni, come il pittore Theodor Pallady, amico di Matisse, e con il collezionista Victor N. Popp, che diverrà uno dei suoi maggiori sostenitori. Partecipa alle riunioni del Club degli studenti rumeni a Parigi e nel 1905 riesce a ottenere un modesto finanziamento dallo Stato rumeno per continuare i suoi studi all’École Nationale des Beaux-Arts, dove frequenta il corso di scultura di Antonin Mercié. Quest’ultimo era un artista improntato a un gusto accademico e tradizionale, molto stimato anche tra i rumeni residenti a Parigi, tanto da aver ricevuto alcune commissioni in Romania. Sono tuttavia altri i riferimenti in grado di suscitare l’interesse di Brancusi in Francia. Fin dal suo arrivo, la sua attenzione è infatti colpita dalle opere di Medardo Rosso, del quale visita una retrospettiva nell’autunno del 1904. L’opera dello scultore italiano trapiantato a Parigi aveva rivelato un nuovo modo di utilizzare la materia: la superficie delle sue opere, in cera o in bronzo, si allontana da un trattamento uniforme, animandosi di rifrazioni create dalla luce e di volumi modellati dall’ombra. Rosso testimonia inoltre, in quegli anni, un radicale mutamento nel modo di concepire la scultura come oggetto artistico. Alcune sue opere, in particolare, pur riprendendo spesso il modello della tradizionale testa, impongono un nuovo processo di selezione dei particolari da rappresentare. La raffigurazione non si esaurisce nel ritratto naturalistico: la fisionomia del viso può emergere dall’ombra, modellata in un brano di cera come su di una maschera concava (Donna sorridente, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma) o delinearsi indefinita nel blocco grezzo della materia, quasi affiorando dall’interno verso la superficie della massa di cera . Questa rinnovata attenzione per i confini dell’immagine da rappresentare suggerisce un nuovo modo di concepire il corpo umano come soggetto della scultura. Si tratta di un tema sviluppato in quel periodo da un altro grande artista che avrà un’influenza determinante sul giovane Brancusi. Nel primo decennio del Novecento, infatti, Auguste Rodin si era dedicato alla rilettura delle proprie opere create negli anni precedenti. Particolari e frammenti anatomici, nati come studi per più vasti lavori monumentali, vengono ingranditi in gesso e divengono opere autonome. Rodin espone ai Salon torsi acefali e corpi mutilati degli arti che suggeriscono l’immagine di una scultura che rilette in maniera radicale sul proprio oggetto e sulla sua stessa identità. Per l’allievo di Mercié questi esempi offrono una definitiva testimonianza della necessità di liberarsi dalle costrizioni dell’insegnamento accademico. Già nel 1906, Brancusi tenta di orientare i propri lavori nelle direzioni che vede precorse da questi artisti. In quell’anno Medardo Rosso è membro della giuria del Salon d’Automne, presieduta da Rodin; lo scultore rumeno vi espone tre opere, tra cui Orgoglio. Si tratta di lavori che mostrano una particolare attenzione al l’effetto della luce e delle ombre sulla superficie dell’opera e alla resa psicologica dei soggetti ritratti, allontanandosi da ogni tentazione di monumentalità. Questa ricerca formale diviene più chiara e coraggiosa nelle opere esposte al Salon de la Société Nationale des Beaux-Arts l’anno successivo: l’Abbozzo in gesso riprende infatti il Busto di bambino del 1906, ma ne offre una versione psicologicamente più incisiva, caratterizzata da un modellato veloce e materico. È tuttavia soprattutto con Tormento che Brancusi riesce a dare una prima affermazione, alquanto controversa, delle proprie capacità. Sembra che in quel l’occasione Rodin abbia pubblicamente lodato quest’opera, suggerendo tuttavia a Brancusi di «non correre troppo», cioè di non creare troppo velocemente le proprie opere. La velocità d’esecuzione era del resto una caratteristica di cui Brancusi era allora orgoglioso: aveva confidato infatti a un amico di essere riuscito a portare a termine ben tre lavori in gesso nel corso di un solo pomeriggio.
Tormento, con il taglio peculiare del torso e l’eliminazione antinaturalistica del braccio destro, del quale Brancusi aveva lasciato solo una forma embrionale, non poteva del resto trovare l’approvazione del suo maestro d’Accademia, Mercié. «È facile fare sculture senza testa e senza braccia» si dice che questi abbia commentato alla mostra, riunendo in un unico giudizio il giovane allievo e il celebre Rodin, di cui era esposta in quell’occasione la statua acefala dell’Uomo che cammina . Proprio in quel periodo del resto Brancusi, terminati gli studi all’École des Beaux Arts, entra per qualche mese come praticante nello studio di Rodin. Decide però ben presto di seguire una strada autonoma convinto che, come affermerà più tardi, «non cresce niente sotto i grandi alberi». Il 1907 è comunque un anno decisivo per la carriera del giovane scultore. Tramite amici ed estimatori rumeni riceve la commissione per un monumento funebre da erigersi in patria, per il quale in quell’anno, dopo una lunga rielaborazione, porta a termine la Preghiera. L’opera, caratterizzata da una radicale essenzialità delle forme, mette in pratica in maniera innovativa l’idea, mutuata da Rodin, di eliminare alcuni elementi anatomici. L’anno successivo, Brancusi sospende la sua produzione di opere in bronzo. Probabilmente influenzato dalle ricerche primitiviste di André Derain, lo scultore inizia a interessarsi al lavo ro della pietra. Nel 1907 Derain aveva infatti esposto una Figura accovacciata che aveva suscitato notevole scalpore. Iscritta in un blocco cubico di pietra, la Figura di Derain era incisa direttamente nel rozzo materiale e presentava una geometrizzazione e semplificazione delle linee caratteristica fino ad allora solo delle opere primitive. Già l’anno precedente, una retrospettiva di Gauguin aveva potuto sollecitare l’interesse di Brancusi per la tecnica dell’incisione diretta, in quel caso su legno. Del resto diversi artisti si stavano indirizzando in quegli anni alla pietra, un materiale intagliato e scolpito direttamente, eliminando d’un colpo la tradizione del modellato, del bozzetto e della fusione successiva in bronzo, così radicati nella pratica accademica. Joseph Bernard ad esempio, con la sua testa femminile dall’aspetto massiccio realizzata nel 1906 e intitolata significativamente Sforzo verso la natura (al Museo d’Orsay, Parigi), sosteneva di utilizzare questa tecnica per attingere a una nuova sincerità dei mezzi artistici e liberare dal blocco di pietra «la ninfa prigioniera». Brancusi realizza in quegli anni una serie di opere scolpite in pietra che si allontanano progressivamente da una troppo marcata citazione di esempi africani e primitivi. Il primo lavoro in pietra è una Testa di ragazza, che risente fortemente del modello offerto da alcune maschere africane. L’opera successiva, invece, il Bacio riprende la concezione già messa in pratica da Derain di inscrivere le figure all’interno del blocco geometrico della pietra. La soluzione formale è tuttavia del tutto originale: Brancusi delinea i due amanti l’uno di fronte all’altra, a dividere verticalmente a metà il cubo di pietra, mentre il loro abbraccio orizzontale sembra ricucire quella frattura visiva, inserendo l’unico elemento a rilievo, le braccia sovrapposte, in una superficie altrimenti quasi piatta. Quest’opera è una delle più celebri dell’artista e certamente parte della sua fortuna deriva proprio dalla capacità di saper riunire la riproposizione di certi valori formali tipici delle sculture primitive, come la stilizzazione e riduzione degli elementi rappresentati e la resa geometrica dei volumi, senza tuttavia cadere nella mera citazione dei modelli africani. Nel 1909, tramite l’interessamento di un amico ed estimatore, Brancusi riceve la commissione di un secondo monumento funebre, questa volta da erigersi a Parigi nel cimitero di Montparnasse. Si tratta di una scultura da collocare sulla tomba della giovane Taniusa Rasewsky, una ragazza suicidatasi per amore. Per quel l’opera lo scultore decide di creare una seconda versione del Bacio: i due amanti sono rappresentati a figura intera, accovacciati l’uno di fronte all’altra, inscritti in un parallelepipedo. Alcuni anni più tardi, commentando quest’opera, Brancusi volle sottolineare il suo tentativo di trovare attraverso l’immagine ideata per il Bacio un nuovo simbolo, estraneo alla tradizione naturalistica e capace di rendere l’idea della fusione spirituale tra due esseri.
Osservando i modelli offerti per questo tema dalla scultura accademica, sostenne in fatti: «Capii quanto sia lontana dalla vera essenza l’immagine esteriore delle forme di due persone. Quanto distanti siano queste statue dall’evento grandioso della loro nascita, della loro felicità e tragedia. Esse non dicono nulla della nobiltà della vita e della morte». La ricerca di un nuovo linguaggio simbolico, capace di riunire scelte formali e significato spirituale in un’unica immagine, diviene in questo periodo il fulcro concettuale attorno al quale Brancusi inizia a sviluppare la propria opera. Per far questo tuttavia egli ritorna in parte sui suoi passi, riprendendo con maggior spregiudicatezza alcune suggestioni tratte dagli esempi di Rodin. Nel 1909, Brancusi crea un Torso di ragazza , intitolato alternativamente Frammento di un torso, la cui concezione implica una profonda riconsiderazione del significato della classicità e della sua possibile riproposizione in un’epoca moderna. Visto frontalmente, il Torso presenta il morbido profilo del corpo femminile, tagliato dalla parte inferiore del busto, sotto la linea del seno, fino alla metà dell’anca. Ma appena il punto di vista si sposta su di un lato, il Torso rivela la sua instabile identità di Frammento: il retro dell’opera è grezzo, quasi si trattasse del brano di un altorilievo staccato a forza da un monumento antico. I torsi acefali e mutilati degli arti, che Rodin presentava come opere autonome, diventano dunque per Brancusi immagini ambigue, che si propongono visivamente e concettualmente come frammenti: di corpi inconoscibili nella loro interezza, di monumenti perduti. Paradossalmente, l’incompiutezza anatomica, esibita come frattura, diventa rimando a un significato ulteriore, a un passato classico che la scultura in realtà non ha mai posseduto. Poco più tardi, Brancusi ritorna sul tema della classicità e su quello dell’incompiutezza, attingendo questa volta al mito. Riadattando i modelli offerti da opere molto diverse tra loro, realizzate negli anni immediatamente precedenti, Brancusi concepisce nel 1910 l’idea di una nuova soluzione formale per un tema che lo aveva interessato per tutti i primi anni del secolo: quello del sonno. Nel 1908 aveva affrontato questo soggetto con la piccola Testa di bambino addormentato in bronzo e col marmo sbozzato del Sonno, dal quale emerge il viso di un uomo addormentato. Ora, due anni dopo, lo scultore rumeno, impegnato nel ritratto del volto ovale della baronessa Renée Frachon, riesce a riunire alcuni elementi emersi in quelle due opere e a ideare un’immagine definitiva per quel tema del quale si era occupato così a lungo. Come nel caso del Torso, Brancusi si è forse ricordato di un lavoro precedente, creato da Rodin ed entrato già nel 1902 tra le collezioni pubbliche del Museo del Luxembourg. Il pensiero che il maestro aveva realizzato tra il 1893 e il 1895, rappresenta una testa femminile scolpita in un blocco di marmo di grandi dimensioni. Il viso e il collo emergono sopra la massa squadrata del materiale, che l’artista volle lasciare inalterata, allo stato grezzo. Quello spazio doveva esse re riempito dalla rappresentazione del corpo, oppure semplicemente eliminato, come l’artista aveva fatto già tante volte, quando voleva ritrarre solo la fisionomia di una testa. Lasciando invece il blocco incompiuto a sorreggerla, l’opera si allontana dal modello del ritratto naturalistico. Assume un valore simbolico: quello della testa, privata del corpo, sede della mente assorta nei propri pensieri. Sebbene realizzata in maniera molto diversa sul piano stilistico, anche la Musa addormentata di Brancusi allude alla propria autonomia dal corpo come frattura radicale con la tradizione della scultura ottocentesca e, al tempo stesso, come indizio di un significato che va oltre il mero realismo del ritratto. Il capo della Musa addormentata è un volume ovoidale, adagiato su di un lato, isolato in una forma conchiusa. Distaccato dal corpo, diventa un oggetto a sé stante. Non si tratta del ritratto di una donna addormentata, ma di una riflessione sul sonno come momento magico, nel quale l’essere umano è visto ma non può vedere il suo osservatore e diviene così esso stesso immagine da guardare, opera d’arte per eccellenza. In questo periodo, l’opera di Brancusi vede il ripetersi di temi tratti dal mito greco: tra il 1909 e il 1915 egli crea sculture dedicate a Narciso, Una Musa, Danaide, Prometeo. Sono soggetti certamente già ampiamente trattati nella tradizione della scultura accademica dell’Ottocento. Tuttavia per Brancusi rappresentano anche la possibilità di allontanarsi da temi quotidiani che imporrebbero a un osservatore un immediato confronto con la realtà. Il mito permette di suggerire sempre un significato simbolico dell’opera, che tra scende le fattezze umane dei personaggi rappresentati. Prometeo, ad esempio, diviene l’immagine di una sofferenza cosmica ed eterna. Progressivamente, lo scultore inizia anche a riprendere i miti della pro pria terra. Nel 1910, in particolare, crea l’immagine della Maïastra l’animale mitico delle fiabe rumene, che è al tempo stesso uccello e principessa. Attraverso quest’opera, Brancusi inizia una lunga riflessione sul tema del volo, che lo impegnerà per tutta la vita. L’interesse dello scultore non risiede infatti tanto nella descrizione delle fattezze del l’uccello in sé, ma nell’idea di rendere, rappresentando un uccello con il capo alzato, un’immagine capace di suggerire «l’impulso del volo». I lavori di questi anni dunque provano una continua attenzione verso l’invenzione di forme nuove ed elementari, capaci di contenere un significato al tempo stesso emotivo e spirituale. Questo concetto è espresso dallo stesso Brancusi quando sostiene: «La naturalità in scultura è nel pensiero allegorico, nel simbolo, nella sacralità e nella ricerca dell’essenziale nascosto nel materiale, e non nella riproduzione fotografica delle apparenze esteriori. Lo scultore è un pensatore e non un fotografo delle apparenze instabili, multiformi e contraddittorie». Questo interesse per un significato più profondo delle immagini e per il rifiuto delle apparenze esteriori caratterizza del resto moltissimi artisti in quegli anni. Gleizes e Metzinger, in particolare, ne fanno allora il punto di forza della loro interpretazione del cubismo. È in questo periodo che Brancusi viene progressivamente a far parte dell’ambiente artistico più d’avanguardia: frequenta tra gli altri Henri Rousseau, detto il Doganiere, Fernand Léger, Alexander Archipenko, Max Jacob e Marcel Duchamp. Le suggestioni di un paesaggio urbano rinnovato dalla tecnologia s’intrecciano a quelle provenienti dall’arte di paesi lontani. Modernità e primitivismo sono i due poli tra cui si muovono tutti i gran di artisti francesi di quest’epoca. Nel 1912, accompagnato dagli amici Léger e Duchamp, Brancusi visita un grande evento di quell’anno, l’Esposizione della Locomozione Aerea. Passeggiando tra le sale gremite dei primi modelli di aeroplani, Duchamp si ferma davanti a un’elica gigantesca, lucida e scintillante. «La pittura è finita – commenta –. Chi potrà far meglio di quest’elica?». E, rivolgendosi all’amico scultore: «Di’, credi tu di poterlo fare?». Non sappiamo cosa abbia risposto Brancusi, che amava però raccontare questo aneddoto. Tra lui e Duchamp l’amicizia continuò per tutta la vita e si deve in parte proprio all’artista francese, che si sarebbe trasferito a New York all’indomani dello scoppio della Prima guerra mondiale, la fortuna di Brancusi in America. Mentre però Duchamp rilette sul movimento, studiando da vicino la pittura futurista esposta quel l’anno a Parigi, Brancusi continua la sua ricerca sulle figure del mito, iniziando dal 1910 a fondere in bronzo le sue nuove creazioni. Il trattamento della superficie del metallo è tuttavia completamente diverso da quello delle sue prime opere, influenzate da Rodin e Medardo Rosso. I nuovi bronzi sono lisci e levigati. Rispecchiano la superficie polita del marmo da cui sono tratti. Lo scultore sperimenta l’impiego di patine con cui colorare i capelli o gli occhi delle proprie immagini femminili; altre opere nascono invece lucide e scintillanti, come specchi e come l’elica con cui Duchamp gli suggerisce di confrontarsi. Parallelamente, nel corso degli anni Dieci, Brancusi riprende lo studio delle sculture arcaiche e primitive. Questo rinnovato interesse si deve forse anche all’influenza del suo grande amico Amedeo Modigliani, ch’egli aveva conosciuto nel 1908 e con il quale aveva compiuto l’anno successivo un viaggio a Livorno. Come Modigliani, Brancusi inizia a studiare il tema delle cariatidi e ne abbozza le forme stilizzate in alcuni disegni che richiamano in maniera impressionante quelli dell’amico. Nascono a partire dal 1913 molte opere in legno che riprendono i modelli della scultura africana, come Primo passo, Eva, Cariatide, Ragazzina francese. Poco più tardi, lo scultore inizia a concepire immagini in legno slegate dagli esempi primitivi. In queste opere egli assembla diversi elementi che solo indirettamente alludono a forme naturali; ne offrono invece, per così dire, degli equivalenti. Nel rappresentare Socrate ad esempio, lo scultore non vuole rendere un’immagine stilizzata della figura umana, ma un sistema di segni che alludano alle grandi doti del filosofo antico: una mente aperta alla comprensione del mondo, una bocca dischiusa nel dialogo. L’ispirazione della scultura africana non è più necessaria, dunque. Anzi, secondo la testimonianza dello scultore inglese Jacob Epstein, ben presto Brancusi la ricusò completamente, arrivando a distruggere tutte quelle, tra le proprie opere, che gli sembravano troppo influenzate da un preciso modello primitivo. Se nei suoi anni di studio all’Accademia aveva sviluppato un deciso rifiuto della pratica del modello «non porta che a scolpire cadaveri», diceva – ora cerca di liberarsi anche da quel nuovo accademismo dell’inizio del Novecento che è a suo giudizio il primitivismo. Del Primo passo in particolare, ci rimane solo la testa che egli, significativamente, ricrea come scultura autonoma, appoggiandola su di un piano orizzontale, come aveva fatto quattro anni prima con la Musa addormentata. A di stanza di anni, immagini e soluzioni nuove vengono sempre riviste alla luce dei lavori precedenti. Questa testa di bambino tratta dal Primo passo, sostiene Brancusi, «ha una forma definitiva – il percorso dal la testa di una donna addormentata a un bambino visto in quello stesso instante». Esistono infatti forme che si ripetono nel suo lavoro, e quella, altamente simbolica, del volume ovoidale è una delle più note. Non si tratta mai tuttavia di forme geometricamente perfette, solidi ideali. Il valore «definitivo» di queste immagini risiede in altro, nella capacità di suggerire contemporaneamente una pluralità di significati concettuali e allegorici. Il Primo grido , il Neonato, una nuova versione della Musa addormentata, la Scultura per ciechi e l’Inizio del mondo sono tutte opere che Brancusi crea tra la metà e la fine degli anni Dieci a partire da una figura ovale. Ciascuna opera è autonoma ma, come sottolinea l’autore, si tratta di lavori uniti da una parentela di forme, da rimandi e percorsi interni all’insieme delle sue creazioni. Nel 1917 scrive a un amico collezioni sta giustificando la propria tendenza a riproporre soggetti già trattati in opere precedenti: le nuove versioni «non vanno considerate come semplici copie poiché sono concepite in tutt’altro modo, e se le ho riprese non era per farle diversamente, ma per approfondire una mia ricerca». L’interesse per il legno come materiale da scolpire si infittisce negli anni di guerra, quando diventa pressoché impossibile approvvigionarsi del più prezioso marmo o progettare una fusione nell’ormai irreperibile bronzo. Vicino al suo atelier vengono distrutte molte case per far posto a nuovi edifici. Gli amici lo ricordano intento ad aggirarsi in questi cantieri, alla ricerca di assi e vecchie travi. Numerose sculture nascono dunque dal legno di quercia stagionato di quelle travi. Alcune, come abbiamo visto, di più chiara influenza africana, altre, come la Porta, la Panca e la Colonna, ricordano la funzione archi tettonica delle travi da cui derivano. «Non vorrei che questi lavori venissero presi per imitazione di opere antiche – sostiene Brancusi –: lungi da me una simile intenzione, ho pensato soltanto a valorizzare la bellezza di quel legno, che mi piace particolarmente, e dunque li ho costruiti diversamente da come avrei potuto fare con un materiale nuovo». Attento alle venature e alle piccole imperfezioni del legno, egli inizia a scolpire forme suggeritegli proprio dalle caratteristiche del materiale che ha davanti. Verso la fine degli anni Dieci Brancusi comincia a lavorare ad alcune sculture in legno di acero, più duttile di quello di quercia e disseminato di nodi e biforcazioni in corrispondenza di quelli che erano in origine i rami dell’albero. Proprio a partire da queste biforcazioni egli crea alcune soluzioni formali di grande impatto, come il Torso di giovane quasi un controcanto essenziale al Torso dell’uomo che cammina di Rodin. Sempre attento a inserire in maniera coerente nel corpus della propria opera ogni nuova immagine ideata, lo scultore inizia a lavorare contemporaneamente a un Torso di ragazza in onice che riprende il Frammento di un torso del 1909. Il Torso di giovane e il Torso di ragazza vengono poi ristudiati e riproposti a più riprese da Brancusi: sempre in coppia, sempre in materiali diversi. Diviene sempre più determinante, per Brancusi, il valore del legame tra l’immagine e il materiale in cui essa deve essere realizzata. A questo proposito egli scrive: «La semplicità fine a se stessa non è più il mio obiettivo, cerco infatti soltanto di far in modo che il mio pensiero si identifichi con il materiale che ho davanti.
Ognuno di essi ha una propria lingua, e il mio scopo non è di sopprimer la per sostituirvi la mia, bensì di riuscire a fargli esprimere nella sua lingua (il che costituisce di per sé una parte di bello) ciò che penso, ciò che vedo. Così, né il legno, né il marmo sono in alcun modo risultato del caso, ma di un lungo, enorme lavoro, sorretto dallo scrupolo della più assoluta equità». Dopo il suo arrivo a Parigi nel 1903, Brancusi non interrompe i rapporti con la Romania, dalla quale gli provengo no numerosi riconoscimenti e alcune committenze. Per quanto all’inizio degli anni Dieci lo scultore sia ormai un’artista conosciuto in Francia, dove espone insieme ai più importanti artisti moderni suoi contemporanei, i suoi lavori continuano tuttavia a essere acquistati prevalente mente da collezionisti rumeni residenti a Parigi. Invia quasi ogni anno diverse opere alla mostra della Tinerimea Artistica di Bucarest, dove vengono acquistate dai collezionisti locali e, in alcuni casi, dallo Stato. La ragione del mancato riconoscimento dell’artista da parte del mercato dell’arte di Parigi risiede con molta probabilità nel suo rifiuto di legarsi in esclusiva a una galleria e a un mercante, come avevano fatto già da tempo i maggiori interpreti del cubismo, Picasso e Braque. Fedele a una pratica comune a molti scultori dell’epoca, Brancusi invece presenta la propria produzione ai periodici Salon e riceve solo molto raramente la visita di alcuni selezionati mecenati che, come nel caso della baronessa Renée Frachon, gli commissionano un ritratto. Questa situazione inizia a mutare gradualmente con il crescente sviluppo, negli Stati Uniti, di una nuova generazione di collezionisti d’arte moderna che guardano a Parigi e non temono di acquistare opere che la maggior parte del pubblico giudica bizzarre, irriverenti e insensate. Il primo incontro decisivo per la carriera di Brancusi in questo senso è quello con il fotografo americano di origine lussemburghese Edward Steichen. Cresciuto nei sobborghi di Milwaukee, Steichen aveva appreso l’arte litografica e si era appassionato in da giovane alla fotografia. Nel 1901 decide di trasferirsi a Parigi e in quell’anno entra a far parte della cerchia di artisti riunita intorno a Rodin, nella casa dell’artista a Meudon. Delle opere di Rodin, Steichen realizza numerose fotografie, che iniziano a circolare tra il pubblico degli appassionati d’arte e vanno a costituire un mercato parallelo a quello delle opere vere e proprie. Nelle sue immagini, Steichen segue il cosiddetto stile pittorialista: i soggetti so no sfumati, immersi in un gioco di ombre che suggeriscono un’atmosfera evocativa e sognante. Parallelamente, egli diviene famoso come autore di ritratti fotograici ed è ben presto conteso da tutto il bel mondo parigino. Quando il fotografo e critico d’arte Alfred Stieglitz fonda a New York la Photo-Secession, una associazione finalizzata all’avanzamento della ricerca fotografica e al suo riconoscimento come arte, Steichen è tra i primi irma tari e contribuisce a realizzare il periodico del gruppo, Camera Work. Intorno al 1907, Brancusi lo incontra nello studio di Rodin e in quello stesso anno si trasferisce nell’atelier di Rue du Montparnasse, a due passi da Steichen, dove rimarrà fino al 1916. La prima opera che Steichen acquista da Brancusi, nel 1911, è una Maïastra in bronzo lucidato che l’artista aveva esposto quello stesso anno al Salon des Indépendants. Il fotografo la installa su di un alto pilastro nel giardino della propria villa a Voulangis, nei dintorni di Parigi. Per questa residenza, Brancusi eseguirà verso il 1920 anche una Colonna senza fine alta circa sette metri, scolpita nel tronco di un albero trovato nel giardino stesso. L’amicizia con Steichen non si nutre soltanto dell’interesse manifestato dal fotografo per il lavoro dell’artista rumeno. I due sono accomunati anche da una visione del mondo molto simile, che cerca di rendere un’immagine della realtà mediata da una ricerca che, nelle parole di Steichen, «dia forma al contenuto tra mite una distillazione di idee, pensieri, esperienze, visioni e comprensioni». Intorno al 1914 Steichen abbandona il pittorialismo in favore di nuovo stile caratterizzato da un contrasto di luci e ombre molto marcato e una maggiore nitidezza nella messa a fuoco. In quello stesso anno, sotto l’influenza dell’amico, Brancusi sostiene di non essere più soddisfatto del fotografo d’arte che aveva fino ad allora utilizzato e inizia a fotografare da solo le proprie opere.
All’inizio incerte e un po’ sfuocate, le fotografie di Brancusi mostra no a partire dalla seconda metà degli anni Dieci una sempre più decisa somiglianza, nell’inquadratura e nel trattamento del contrasto tra luci e ombre, con il rinnovato stile di Steichen. Negli anni Venti lo scultore riuscirà a creare attraverso la fotografia immagini di grande drammaticità e raffinatezza che sono parte integrante, a tutti gli effetti, di quel continuo processo di studio e revisione delle proprie opere che caratterizza appieno il suo essere artista. In qualche modo il lavoro dello scultore sembra riflettere il motto dell’amico: «Non appena cominci a vedere realmente le cose, è allora che cominci realmente a sentirle». È tuttavia solo a partire dal 1913 che negli Stati Uniti Brancusi attinge al rango della più vasta notorietà. Un gruppo di artisti moderni newyorkesi avevano deciso di presentare le proprie opere in quell’anno nella vecchia armeria del Sessantanovesimo Reggimento di Fanteria. Un obiettivo piuttosto modesto ma che, attraverso l’impegno dei pittori Walter Kuhn e Arthur B. Davis, nonché del critico Walter Pach che viveva allora a Parigi, si trasformò nel la più famosa e controversa esposizione di arte moderna del Novecento. Quando l’Armory Show viene inaugurato il 17 febbraio 1913, il pubblico americano si trova di fronte a un’immensa distesa di opere che negano in un giorno tutte le nozioni sulla storia dell’arte mondiale che quelle persone erano faticosamente riuscite a costruirsi nel corso di una vita intera. Accostate a dipinti di Picasso e Duchamp, vengono disposte Il Bacio, Una Musa, Mademoiselle Pogany, Torso e Musa addormentata. Per i visitatori l’esposizione ha l’impatto di una bomba. I giornali iniziano una campagna di denigrazione che continuerà per mesi, lanciandosi in accuse alternate a lazzi. Il Bacio, in particolare, ha l’onore di una poesiola irriverente pubblicata in quei giorni su di un quotidiano. «Le strinse la snella cubiforma in un rettangolare abbraccio» – recita il primo verso. E conclude: «La baciò squadrato sulle labbra». Trasferita a Chicago, la mostra incontra un’avversione se possibile ancor più decisa. Una lega di studenti della locale Accademia brucia in piazza le immagini di Brancusi, Matisse e dell’organizzatore Walter Pach. Insieme alle critiche e allo scandalo, emergono tuttavia anche i primi collezionisti. Tra questi, il più grande estima tore e mecenate di Brancusi sarà John Quinn che aveva contribuito, sollecitato dall’amico Kuhn, al inanziamento del l’Armory Show. Quinn era un avvocato in vista nel Foro di New York. Di origini irlandesi, nato in un paesino dell’Ohio, era quello che comunemente si definisce in America un self-made man. Fin dai primi anni del secolo aveva sposato la causa dell’autonomia irlandese e aveva sostenuto la rinascita letteraria celtica. Amico di William Butler Yeats e di James Joyce, sarà proprio Quinn a difendere quest’ultimo quando, nel 1921, la Lega per la soppressione del vizio lo trascinerà in tribunale per aver scritto l’Ulisse. Insieme al patrocinio della letteratura d’avanguardia, Quinn aveva sviluppato un deciso interesse per l’arte moderna. Nel 1909, all’indomani di una nuova legge che aveva abolito i diritti di dogana sull’importazione di opere d’arte antiche di più di cent’anni, l’avvocato protestò in maniera clamorosa, accusando i parlamentari di preoccuparsi solo di quei collezionisti miliardari che potevano permettersi di comprare Rembrandt e Raffaello e che «non avevano occhi che per i copti», e cioè che si interessavano solo a manufatti millenari come i tessuti e i manoscritti copti. Quinn riuscì, da solo, a far cambiare la legge e a creare una prima definizione legale di opera d’arte, che comprendesse anche i lavori di artisti viventi. All’indomani dell’Armory Show, Quinn inizia una fitta corrispondenza con Brancusi che si interromperà soltanto in occasione della sua morte, undici anni dopo. Tra i due si instaura una vera amicizia, nutrita da vicendevole rispetto. «Lei spiega tutto assai meglio e con maggior precisione di quanto non facciano generalmente gli altri artisti» scrive il collezionista. Dobbiamo infatti alle sue lettere a Quinn le riflessioni estetiche più approfondite che lo scultore compie sulla propria opera. In particola re, emerge da questo scambio epistolare l’importanza che Brancusi attribuiva alle varianti della sua scultura. Quando, nel 1917, Quinn gli chiede espressamente una copia in bronzo di Una Musa, che aveva visto esposta in gesso all’Armory Show, Brancusi non risponde. Dopo due mesi gli invia un bozzetto a matita, che mostra una serie di impercettibili mutamenti rispetto al l’equilibrio visivo della Musa originale, e si scusa dicendo: “Ho aspettato un po’ a risponderle perché volevo vedere se potevo fare un bronzo che fosse veramente un bronzo e non semplicemente un calco del marmo (calco che secondo me sarebbe meglio in gesso) e per questo ho dovuto lavorare molto”. L’opera in bronzo viene terminata e inviata in America sei mesi dopo, alla fine di un lungo processo di perfezionamento e lucidatura. Un catalogo non esaustivo delle opere che Quinn acquista nel corso del decennio comprende: Prometeo (marmo), Mademoiselle Pogany (marmo) e Made moiselle Pogany II (marmo venato), Musa addormentata II (marmo), Una Musa (bronzo lucidato), Torso di giovane (legno d’acero), Scultura per ciechi (marmo), Chimera (legno di quercia), Principessa X (marmo), Neonato (marmo), Panca (legno di quercia), Porta (legno di quercia), Coppa (legno), Uccello d’oro (bronzo), Una mano (marmo giallo), Torso di ragazza (onice), Uccello nello spazio (marmo), Pesce (marmo venato). Al momento della morte di Quinn, nel 1924, la sua vasta collezione venne mes sa in vendita. Marcel Duchamp e lo scrittore francese Henri-Pierre Roché, amici dello scultore, cercarono di mantenere unite le sue opere, spingendo un altro mecenate dell’avanguardia newyorkese, Walter Arensberg, ad acquistarle. Alla morte di quest’ultimo, il suo lascito al Museo di Philadelphia conterrà una della più vaste e significative raccolte mondiali delle sculture di Brancusi. Nel frattempo numerosi altri collezionisti s’interessano al lavoro dell’artista rumeno. Grazie all’amicizia con Edward Steichen, nel 1914 la Galleria della Photo-Seces sion diretta da Alfred Stieglitz allestisce una esposizione dei suoi lavori a New York. Brancusi ha trentotto anni e questa è la sua prima mostra personale. In questa occasione, a Quinn si affianca nel gruppo degli estimatori dello scultore Arthur Jerome Eddy, anch’egli avvocato e collezionista. Eddy, allora famoso per essere stato il primo americano a scrivere un libro sul cubismo, acquista il marmo della Musa addormentata. Con lo scoppio della Grande guerra, le esposizioni cui Brancusi prenderà parte sono quasi esclusivamente organizzate sul territorio americano. Nel 1917 si apre la mostra della Society of Independent Artists, sostenuta da Arensberg e organizzata da Duchamp e Ka therine Dreier. Brancusi vi espone Principessa X , un’opera in marmo che deriva da un ritratto della principessa Marie Murat Bonaparte. L’anno successi vo la sua Musa addormentata è esposta, insieme alle opere di Manet e Whistler della collezione Eddy, alla Cubists and Post-Impressionists Exhibition. Nel 1920, Brancusi è ancora una volta presente a New York, alla prima esposizione della Société Anonyme, fondata nel frattempo da Duchamp e dalla Dreier. Rispetto al ritmo incalzante degli avvenimenti che mutano il panorama dell’arte moderna in America, la scena artistica parigina sembra non attrarre particolarmente l’artista. Nel 1920, decide di esporre soltanto la nuova versione in bronzo di Principessa X al Salon des Indépendants, risorto dopo la parentesi bellica. Come all’epoca dell’Armory Show, il suo lavoro si trova di nuovo al centro di uno scandalo, se possibile ancor più eclatante. Ne offre una succinta e gu stosa relazione lo scrittore Henri-Pierre Roché: «È difficile immaginare adesso che la Principessa X, poesia in marmo bianco, tradotta in bronzo levigato, pura e fantastica, sia stata accusata di fallimento totale ed estromessa dal Salon des In dépendants, malgrado qualche protesta, la mattina stessa del vernissage, poiché ‘Deve arrivare il ministro, e non gli si può certo mostrare una cosa simile!’». Per quanto non pochi vedessero nella scultura un riflesso dell’ironia iconoclastica del suo amico Duchamp, Brancusi sostenne sempre di non aver voluto creare alcuno scandalo. In breve tempo tutti gli artisti più in vista del tempo firmano una sottoscrizione del “Journal du Peuple” per far riammettere l’opera alla mostra, cosa che avviene dopo alcuni giorni. Brancusi tuttavia rimane profondamente amareggiato dall’accaduto e decide di non partecipare alla mostra della Section d’Or, alla quale avrebbe dovuto esporre la scultura in legno Chimera . Nel corso degli anni Venti e Trenta lo scultore invierà le proprie opere a ventidue diverse esposizioni, di cui però soltanto tre in Francia. Questo progressivo estraniarsi dal mercato dell’arte parigino non significa tuttavia un allontanamento dagli amici e dalle vicende artistiche che vivacizzavano la capitale francese in quegli anni. Attraverso la profonda fratellanza che lo lega al compositore Erik Satie, attorno al quale si riunisce un folto gruppo di intellettuali e artisti, lo scultore continua a partecipare in prima persona ai dibattiti e alle pole miche dell’epoca. Disegna i costumi per le Gymnopédies, un recital di danza della ballerina rumena Lizica Codreanu su musica di Satie, e, insieme a Picasso, la copertina del programma per il Balbanal, anch’esso danzato dalla Codreanu. Probabilmente tramite Satie conosce il suo compatriota Tristan Tzara che da Zurigo si era trasferito a Parigi, fondandovi un nuovo centro del dadaismo internazionale. Quando nel 1922 Tzara si vede attaccato da André Breton, Brancusi, insieme a Satie, Cocteau, Man Ray e molti altri si schiera in favore del poeta rumeno. Tra mite questi contatti, nel corso degli anni Venti alcuni mecenati residenti a Parigi si interessano all’opera di Brancusi. Il sarto e couturier Jacques Doucet, gran de sostenitore degli artisti e dei letterati più importanti del primo Novecento in Francia, acquista nel 1921 una Danaide in bronzo, ora alla Tate Gal lery di Londra. Cinque anni dopo il coreo grafo dei famosi Balletti Svedesi, Rolf de Maré, acquista una versione del Neonato. Nel frattempo Brancusi riprende a viag giare. Nel 1921 parte per un lungo viaggio in Romania passando per l’Italia, la Grecia, la Turchia, Praga e Berlino. L’anno successivo ritorna di nuovo in patria, accompagnato dalla giovane americana Ei leen Lane, che presenta come sua figlia. Visitano i luoghi dell’infanzia di Brancusi: Craiova, Tirgu Jiu, e successivamente tornano a Parigi passando da Roma e da Marsiglia. Il 1926 è la volta del primo viaggio negli Stati Uniti. Nel corso dell’anno, le sue opere sono esposte oltreatlantico in quattro diverse occasioni: alla Memorial Exhibition della collezione di John Quinn, alla Wildenstein Gallery per la tappa newyorkese della Tri-National Exhibition, una mostra collettiva che aveva già fatto scalo a Parigi e Londra, e in due personali: una ancora alla Wildenstein Gallery e l’altra, in autunno, alla Brummer Gallery. Dopo una prima visita a New York, lo scultore rientra in Francia, dove passa l’estate, e si imbarca una seconda volta per l’America nel settembre del 1926. Lascia a Marcel Duchamp l’incombenza di seguirlo un mese dopo, portando con sé sul piroscafo le opere da esporre da Brummer. In occasione di questo secondo viaggio, le creazioni di Brancusi vengono a trovarsi per la terza volta al centro di una controversia. Al momento del suo arrivo nel porto di New York, Duchamp viene fermato dalla dogana statunitense e gli viene intimato di pagare quattromila dollari, cioè il quaranta per cento del valore dichiarato degli oggetti che porta con sé. In altri termini, le opere di Brancusi ven gono tassate alla stregua di un qualsiasi carico di materiale grezzo, blocchi di mar mo e metallo. Il caso diviene ancor più paradossale se si considera che la legge sull’importazione delle opere d’arte negli Stati Uniti era stata emanata grazie al decisivo contributo del grande ammiratore e collezionista di Brancusi, John Quinn. Seguendo la legislazione, il regolamento doganale riconosceva infatti, come opere d’arte, sculture o statue «originali», cioè «lavorate a mano» e «realizzate a titolo esclusivo di produzioni professionali di scultori». Nell’imminenza dell’inaugurazione della mostra, il gallerista Joseph Brummer stipula un accordo con la dogana, secondo il quale i diritti di importa zione sarebbero stati imposti soltanto alle opere rimaste sul territorio americano. Tra queste una delle sculture esposte, l’Uccello nello spazio che Edward Steichen aveva acquistato da Brancusi prima di trasferirsi in America e che sarebbe quindi rimasto negli Stati Uniti, viene tassata per la somma allora esorbitante di duecentoquaranta dollari. Lo scultore scrive a Duchamp: «Ti ho cablato di protestare energicamente perché è una grande ingiustizia. L’errore della dogana è di credere che tutti gli Uccelli che ho esposto a New York siano tutti uguali e che è solo il titolo ad essere diverso. Per sconfiggere quest’idea bisognerebbe esporre pubblicamente tutto insieme – solo allora si vedrà l’errore. Si vedrà allora che si tratta dello sviluppo di un lavoro onesto per raggiungere uno scopo diverso da quello di una serie manufatta, ideata per far soldi». All’inizio dell’anno successivo la questione non è ancora appianata e Duchamp decide di rivolgersi al tribunale, mobilitando un folto gruppo di personalità della New York artistica e culturale. Silano davanti alla corte il fotografo Edward Steichen, proprietario dell’opera, lo scultore Jacob Epstein, il caporedattore della rivista “The Arts” e quello di “Vanity Fair”, il direttore del Brooklyn Museum of Art e il critico d’arte Henry Mc Bride. Ben presto il contenzioso, che verte sulla dibattuta originalità artistica dell’Uccello nello spazio, si espande in un contrastato dibattimento sulla definizione di arte ed esperienza estetica. Sotto questo punto di vista il processo di “Brancusi, querelante, contro Stati Uniti, querelato”, come riportano con precisione i documenti dell’epoca, diventa il primo processo pubblico sull’identità dell’arte moderna e sull’autonomia crea tiva dell’artista. Non è un caso del resto che dietro questo processo si delinei la figura di Marcel Duchamp, che nel 1917 aveva inviato un orinatoio alla mostra della Society of Independent Artists, pre sentandolo come Fontana . Dieci anni dopo, la questione di dove porre un limite alle possibilità dell’interpretazione e dell’autonomia artistica ritorna con forza negli interrogatori della corte. Tra i testimoni favorevoli a Brancusi, emergono due gruppi equamente divisi: coloro che riconoscono espressamente Uccello nello spazio come la rappresentazione in qualche modo ‘ideale’ di un uccello, e coloro che valutano l’opera solo in base al suo equilibrio formale e compositivo. L’interrogatorio di uno di questi testimoni, a tratti esilarante, ci at testa però anche la cautela e l’attenzione della corte nel porre questioni che si riveleranno capitali per l’arte del Novecento: «La corte le ha chiesto se lei chiama questo ‘uccello’ . Se il signor Brancusi l’avesse chiamato ‘pesce’, vi vedrebbe un pesce?». «Se l’avesse chiamato ‘pesce’ io lo chiamerei ‘pesce’». «Se l’avesse chiamato ‘tigre’, cambierebbe di avviso e la considererebbe una tigre?». «No». «E se l’avesse chiamata ‘tigre che vola’?». E ancora: «Se prendesse una sbarra di ferro perfettamente curvata e simmetrica, magnificamente lucidata, la affascinerebbe altrettanto come opera d’arte?». «No, signore. Ma se accadesse che un grande artista avesse fatto la sbarra…». «Immagini di non sapere chi l’ha fatta». «Questo non cambierebbe niente». «Cambierebbe qualcosa della sua qualità artistica, della sua qualità di seduzione, o del suo equilibrio armonioso, della sua forma, ecc. che fosse l’opera di un operaio o di uno scultore?». «Se è bella, non può essere l’opera di un operaio». Verso la fine del 1928, la corte riconosce infine l’Uccello nello spazio come esempio di una «nuova direzione» artistica, che impiega l’armonia formale per creare sensazioni di piacere estetico nell’osservatore. Non manca però di sottolineare come questo status sia garantito all’opera in questione perché creata da uno sculto re professionista, debitamente munito di certificazioni accademiche e riconosciuto da un vasto pubblico di amatori. Forse proprio l’esperienza del processo statunitense aiuta a chiarire alcuni elementi che emergono sempre più evidenti nella produzione di Brancusi degli anni Trenta. L’energica protesta dell’artista non era causata, infatti, dall’accusa generica di non aver realizzato un oggetto definibile come opera d’arte. Il suo rincrescimento nasceva invece dal vedere la propria opera interpretata come un catalogo di forme sempre uguali, codificate e astratte. In realtà il lavoro dello scultore rumeno appare come una riflessione continua sugli equilibri o, più spesso, sui disequilibri formali che egli rintraccia nelle apparenze della realtà. Come ha scritto il critico Friedrich Teja Bach: «Brancusi crea delle irregolarità e asimmetrie – deviazioni che distinguono le sue forme plastiche dalle ‘forme pure’» . Queste, sempre secondo Bach, mirano a valutare «l’atto di creazione della natura e il carattere di ciò che è creato: ora, quest’ultimo non consiste nell’imitare le forme oggettuali della natura, ma nell’imitare il suo fare e renderlo in immagine per mezzo di equivalenti artistici». Diversi artisti, nel corso degli anni Venti e Trenta, studiano i modelli offerti dal mondo naturale per comporre e sviluppare le proprie creazioni artistiche. Il rapporto con la natura assume tuttavia in Brancusi un valore ulteriore. Il suo è uno studio della complessità contenuta nelle immagini della natura e del procedimento attraverso cui questa complessità può essere resa in una nuova immagine più semplice, creata dall’artista: quasi una traduzione in una lingua semplificata di quegli stessi rap porti interni. A coloro che vedevano nella sua opera la volontà di rappresentare le forme platoniche della realtà, rispondeva: «Non cerco mai quello che chiamano la forma pura o astratta». E aggiungeva: «La semplicità nell’arte è, in generale, una complessità risolta […]. Vi sono due tipi di semplicità: una è sorella dell’ignoranza e l’altra dell’intelligenza. La sorella dell’intelligenza è la complessità; la sorella dell’ignoranza è anche la stupidità».
All’interno di questa riflessione sulla complessità delle forme, Brancusi inserisce la meditazione sul linguaggio simbolico, sulla pluralità dell’allusione che è possibile ottenere tramite un’unica figura, ingegnosamente ideata. Nascono a partire dagli anni Venti e per tutti gli anni Trenta numerose sculture dedicate al tema degli animali. Sono opere in cui il conine tra forma e rappresentazione è volutamente rarefatto. Sempre meditando sul mondo classico, come aveva fatto all’inizio della sua carriera, Brancusi approfondisce la riflessione sul concetto di metamorfosi, la trasformazione di una forma nell’altra ma anche, etimologicamente, ciò che è «forma insieme», riunione di due forme. In Leda ancora un titolo tratto dal mondo greco, il profilo di un uccello acquatico racchiude quello di una donna inginocchiata ed entrambe le immagini si rivelano, come una doppia epifania, in un’unica sagoma scolpita nel marmo. Il principio della compenetrazione di una forma nell’altra si espande concettualmente sino a rendere parte integrante dell’opera in bronzo lucidato anche il riflesso che si può leggere sulla sua superficie. A questo riguardo Sebastiano Marassi ha recentemente sottolineato il ruolo cruciale della modulazione della luce sulle sculture dell’artista: «Brancusi esplorò strategie differenti nell’impiego della luce per dissolvere la superficie delle sue opere. Le superfici lucide gli permisero di creare effetti sia con luce riflessa che diffusa e di includere ambiente e movimento circostanti nella scultura, sfruttando occasionalmente ipnotici effetti di moltiplicazione». Anche Henri-Pierre Roché ha indicato l’importanza di questo processo, che mette in relazione la scultura singola con l’universo di forme che la circonda, e in particolare con le altre opere raccolte nell’atelier. Nello studio di Brancusi, egli ricorda in particolare “la Leda in bronzo levigato, che ruota senza fine, lenta, sulla sua base, e rilette come uno specchio d’oro, ondeggiando e muovendosi, il con tenuto dell’atelier, mescolando fino alla vertigine le sue forme mitiche a quelle delle statue e dei personaggi circostanti, suscitando in me una meraviglia ancora crescente dopo cinquanta visite”. Brancusi dava molta importanza alla disposizione delle proprie sculture nello spazio dell’atelier, tanto che prima di morire decise di lasciare tutte le opere allo Stato francese, a patto che lo studio rimanesse com’era e le sue creazioni fossero mantenute nella disposizione in cui egli le aveva personalmente collocate. Per questa ragione, numerosi critici hanno interpretato l’atelier di Brancusi quasi come un’opera globale, a sé stante. Il rapporto tra l’opera e lo spazio che la circonda è un tema che appassiona particolarmente lo scultore nel corso degli anni Trenta e che egli può approfondire grazie a due commissioni che gli giungono in quel periodo. Verso la metà del decennio, il marajà Yeshwant Rao Holkar di Indore, in India, gli chiede di costruire un Tempio della Meditazione, nel quale collocare tre versioni dell’Uccello nello spazio: una in bronzo, una in marmo bianco e una in marmo nero. La struttura non verrà poi realizzata, ma lo scultore lavora a questo progetto per diversi anni. D’accordo con il marajà, decide di creare uno specchio d’acqua di forma quadrata al centro del tempietto, e disporre i tre uccelli su tre lati della vasca centrale. Sul quarto lato il marajà avrebbe voluto la statua di una divinità indiana ma, successivamente, lo scultore decise di sistemarvi un’opera da realizzare in legno, chiamata alternativamente Il Re dei Re o Spirito del Buddha . La luce sarebbe dovuta entrare da un’apertura nel soffitto e, a un’ora designata, colpire l’Uccello di bronzo, illuminando di rilessi accecanti l’interno del tempio. Quasi nello stesso periodo, intorno al 1935, l’artista ottiene dalla Lega nazionale delle donne di Gorj, in Romania, la com missione per un monumento in onore dei soldati rumeni morti nella Prima guerra mondiale a Tirgu Jiu. Nel corso dei suoi viaggi in patria, negli anni Venti, Brancusi aveva sollecitato più volte le autorità locali per permettergli di costruire un monumento di quel tipo, gratuitamente. Questa commissione pubblica gli permette finalmente di realizzare un vasto complesso monumentale, composto da una Colonna infinita, alta circa 30 metri, di una porta, poi chiamata Porta del Bacio per i motivi decorativi che la ricoprono, desunti dal Bacio in pietra realizzato per il cimitero di Montparnasse venti anni prima, e di una semplice tavola circolare con dodici sgabelli, in pietra, la Tavola del silenzio . L’aspirazione a creare opere enormi, capaci di dialogare da pari a pari con le forme della natura, si era rafforzata del resto proprio in quel decennio. Presentando l’Uccello nello spazio in una delle sue personali statunitensi, fa scrivere in catalogo che «la sua realizzazione ideale dovrebbe essere un ingrandimento tale da riempire la volta celeste». La colonna monumentale viene consacrata con una messa solenne di sedici sacerdoti del rito ortodosso, nell’ottobre del 1938. Il suo forte valore spirituale, che riprende basamento per tenerla in piedi, il vento non l’abbatte, sta ritta con la sua stessa forza come un cactus gigante nei deserti della California ]. Vorrei che i miei la vori si alzassero nei parchi e nei giardini pubblici, che i bambini giocassero su di loro come avrebbero giocato sulle pietre e i monumenti nati dalla terra, che nessuno sapesse cosa sono e chi li ha fatti, ma che tutti sentissero la loro necessità, la loro amicizia, come qualcosa che ap partiene all’anima della natura». Poco dopo la realizzazione del complesso monumentale di Tirgu Jiu, all’inizio degli anni Quaranta, lo scultore smette di creare nuove forme. Il suo ultimo lavoro è la Tartaruga che, collocata capovolta, diventa nel 1943 la Tartaruga volante . All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, la fama dello scultore si rafforza: in Europa e negli Stati Uniti si susseguono numerose esposizioni retrospettive e prestigiosi riconoscimenti. In questo stesso periodo, tuttavia, l’artista si ritira completamente dalla vita pubblica. Per tre volte, nel corso degli anni Cinquanta, rifiuta l’invito a esporre alla Biennale di Venezia e suggerisce di concedere il Gran premio, che gli era stato offerto, all’amico Jean Arp «che ne ha più bisogno». Agli amici Marcel Duchamp e Henri-Pierre Roché chiede di aiutarlo a scegliere la destinazione dei suoi lavori dopo la morte. Brancusi muore il 16 marzo 1957, a ottantuno anni. Lascia tutte le sue opere e gli oggetti contenuti nel suo studio di impasse Ronsin al Museo d’Arte Moderna di Parigi. Nel 1977, una prima ricostruzione dello studio venne realizzata a fianco del Centro Georges Pompidou dove, recentemente restaurata, si trova tuttora. Il percorso della mostra si apre con prima sezione dedicata alla scultura sono esposte Il Gallo (Le Coq) 1935, L’Uccellino (L’Oiselet) 1928 e Leda 1920/1926 circa, opere emblematiche della ricerca dell’artista che inventa una f igurazione simbolica per esprimere l’essenza dell’animale, attraverso la semplificazione delle forme e l’eliminazione di qualsiasi tipo di dettaglio. A queste opere, prestate dal Centre National d’art et de la culture Georges Pompidou di Parigi, si aggiunge una selezione di sculture antiche che arricchiscono l’esposizione: sono statue, balsamari, are e sonagli di età romana, provenienti dal Museo Nazionale Romano, dal Museo Archeologico Nazionale di Venezia e dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, che raccontano di come le espressioni artistiche del passato abbiano influenzato la cultura visiva di Brancusi. Gli uccelli con la loro simbologia sacro-rituale sono portatori di messaggi divini, in connessione con la sfera celeste. Il motivo dell’uccello, che Brancusi declina in versioni differenti nel corso di tutta la sua vita, simboleggia il volo, il sogno dell’uomo di sfuggire alla propria condizione terrena, in un’ascesa verso l’infinito. In uno dei suoi celebri aforismi Brancusi afferma: “Non è l’uccello che voglio rappresentare, ma il dono, il volo, lo slancio”. Con una vera e propria rivoluzione del gesto, l’artista abbandona la tecnica tradizionale del modellato privilegiando l’intaglio diretto del marmo, della pietra, del legno, per far emergere lo spirito della materia. Mentre la seconda sezione della mostra indaga sull’utilizzo del medium fotografico, come espressione artistica, ma anche di ricerca, da parte di Brancusi. Negli anni Venti e Trenta del Novecento l’artista si dedica alla fotografia e al cinema, sfruttando questi mezzi espressivi per esaltare le qualità plastiche delle sue sculture, oltre che per documentarle. La fotografia e il cinema furono per Brancusi strumenti per catturare il carattere effimero e frammentario della scultura, che sfuggiva a una percezione totale della forma. Nel film Leda in movimento del 1936, Leda è collocata su un grande disco ruotante di acciaio lucido che rappresenta la superficie dell’acqua in cui si riflette e modifica le sue forme all’infinito. L’allestimento, curato dall’architetto Dolores Lettieri, mette in evidenza la dicotomia tra il bianco, il colore dell’atelier di Brancusi, considerato un vero e proprio elemento progettuale, e il nero, un richiamo alla camera oscura e all’alchimia del processo fotografico.
La figura dell’uccello ricorre nell’opera di Brancusi con particolare insistenza: per lo scultore, tuttavia, non si tratta di rappresentare il volo in sé, ma il suo levarsi in volo, quindi l’emancipazione della forma dalla materia. La mostra sarà accompagna da una raccolta di saggi su Brancusi editi da Electa in arrivo per la fine di marzo, che colma una grave mancanza nel panorama editoriale italiano dello scultore che ha inventato la modernità e al quale il Centre Pompidou ha consacrato una grande antologica lo scorso anno.
Biografia di Constantin Brancusi
Arriva dalla Romania a Parigi all’età di 28 anni, e per un breve periodo è assistente di Auguste Rodin. Del 1908 la scultura Bacio segna la prima grande affermazione di una carriera ricca di riconoscimenti internazionali. La sua ricerca si caratterizza da un rapporto con la materia del tutto originale, in un processo di semplificazione delle forme e di espressione dell’“essenza delle cose”. Pietre, legno, metallo divengono la sostanza stessa della forma artistica. A Parigi Brancusi frequenta gli ambienti bohémiens di Montparnasse divenendo amico, fra gli altri, di Marcel Duchamp, Fernand Léger, Man Ray, Amedeo Modigliani, Blaise Cendrars, James Joyce. Il suo atelier – dal 1916 nel 15° Arrondissement di Parigi, Impasse Ronsin – è stato luogo di creazione, esposizione ed esso stesso opera d’arte poiché i suoi lavori creavano un insieme di relazioni spaziali. Alla sua morte lo ha donato allo Stato francese, che nel 1997 lo ha ricostruito sulla piazza del Centre Pompidou.
Parco Archeologico del Colosseo Roma – Uccelliere Farnesiane
Brancusi . Scoprire il Volo
dal 13 Febbraio 2025 al 11 Maggio 2025
dal 1 Marzo 2025 al 29 Marzo 2025 dalle ore 9.00 alle ore 16.45 ( Tutti Giorni )
dal 30 Marzo 2025 al 11 Maggio 2025 dalle ore 9.00 alle ore 18.00 ( Tutti Giorni)
Foto Allestimento Mostra Brancusi . Scoprire il Volo Parco Archeologico del Colosseo Roma – Uccelliere Farnesiane dal 13 Febbraio 2025 al 11 Maggio 2025 Ph. Simona Murrone
Constantin Brâncuși Foto: George Rinhart / Corbis / Getty Images