Giovanni Cardone
Fino al 26 Gennaio 2025 si potrà ammirare a Palazzo Reale Milano la retrospettiva dedicata a Edvard Munch . Il Grido Interiore a cura di Patricia G. Berman in collaborazione con Costantino D’Orazio. La Mostra è promossa da Comune di Milano – Cultura con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, e prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia in collaborazione con il Museo MUNCH di Oslo. In questa Retrospettiva dedicata a Munch si vuole raccontare tutto l’universo dell’artista, il suo percorso umano e la sua produzione grazie a un percorso di 100 opere in esposizione. Protagonista indiscusso nella storia dell’arte moderna, Munch è stato uno dei principali artisti simbolisti del XIX secolo ed è considerato un precursore dell’Espressionismo, oltre a essere un maestro nell’interpretare le ansie e le aspirazioni più profonde dell’animo umano. La vita di Munch è stata segnata da grandi e precoci dolori. La perdita prematura della madre a soli 5 anni e della sorella, la morte del padre e la tormentata relazione con la fidanzata Tulla Larsen sono stati il materiale emotivo primigenio sul quale l’artista ha cominciato a tessere la sua poetica, la quale si è poi combinata in maniera originalissima, grazie al suo straordinario talento artistico, con la sua passione per le energie sprigionate dalla natura. I suoi volti senza sguardo, i paesaggi stralunati, l’uso potente del colore, la necessità di comunicare dolori indicibili e umanissime angosce sono riusciti a trasformare le sue opere in messaggi universali e Munch uno degli artisti più iconici del Novecento. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Munch apro il mio saggio dicendo : Nell’arte scandinava è centrale il rapporto che vige tra l’uomo e la natura, in paesi come la Danimarca, la Finlandia, la Svezia e la Norvegia, l’elemento naturale è profondamente legato ad una sensazione di solitudine. Si tratta di una natura immensa di fronte a cui l’uomo, nella sua finitezza, non sa come rapportarsi le viene così riconosciuta una sorta di tragicità, una dimensione oscura e inquietante che scuote l’animo di colui che la vive, lasciandolo impotente di fronte alla sua immensità. Anche la grande introspezione riscontrata nei lavori dell’artista è uno dei temi cari alla tradizione scandinava: quella nordica è infatti una cultura strettamente legata alla dimensione del mito e della leggenda, i quali rimandano indubbiamente ad una riflessione circa i moti dell’animo umano. La solitudine provata dall’uomo del nord non è però causata solo dal rapporto che vige tra di esso e la natura, ma anche da un contesto geografico ben preciso: gli uomini si trovano infatti a vivere molto distanti tra di loro, in un contesto in cui i contatti umani risultano particolarmente rarefatti. Nel momento in cui, con l’avvento dell’età moderna, questi uomini si trovarono catapultati a vivere nelle grandi città, la loro incapacità di integrarsi e di rapportarsi all’altro viene messa ancor di più in evidenza. La solitudine provata in questo contesto urbano e l’incapacità di relazionarsi sono alcuni dei temi principali del dipinto Sera sul viale Karl Johan, opera che prende il nome dalla strada che a quel tempo era diventata il centro del nuovo mondo borghese che si stava affermando. Lo spettatore si trova ad osservare un gruppo di uomini-spettro che occupano la maggior parte del quadro; questa folla che incombe su di noi crea un senso di oppressione e minaccia, sentimenti che vengono accentuati anche nel modo in cui i personaggi vengono rappresentati: questi sembrano in effetti degli spettri che indossano delle maschere, la loro pelle è pallida e i loro piccoli occhi sono estremamente penetranti. In questo dipinto l’artista riesce a portare a galla l’alienazione della società moderna proponendoci una massa di persone tutte simili tra loro che trasmettono un forte senso di solitudine, come se si trattasse di anime sole che vagano per la strada. Tutti quanti guardano dritti davanti a loro, non c’è alcun tipo di interazione tra i personaggi, sembra quasi che essi non siano consapevoli di essere circondati da altri esseri umani.
Quella che era una strada che faceva da sfondo a incontri tra cittadini, attraverso le pennellate dell’artista diventa invece un mondo nel quale incubi e angosce prendono vita. In uno dei testi di Munch che sono giunti fino a noi è possibile leggere le parole che egli utilizzò per descrivere la situazione che probabilmente lo portò a realizzare il dipinto: «Vedo tutti gli uomini dietro le loro maschere, volti sorridenti, quieti, pallidi cadaveri che si affrettano frenetici lungo una strada tortuosa il cui termine è la tomba» . Le città si riempiono di uomini e donne fantasma che indossano maschere nel tentativo di rapportarsi all’altro e ad un mondo che non riconoscono più, che non gli appartiene. Le opere di Munch andavano quindi a rappresentare «the disappearance of the individual in the age of industrialization.» , il passaggio traumatico da una società principalmente rurale e statica, ad una società industriale e dinamica, spostamento che senza dubbio segnò profondamente la vita degli uomini e delle donne del tempo. Posso affermare che nel novembre del 1880, a dispetto della volontà del padre che lo avrebbe voluto ingegnere, abbandona gli studi tecnici per iscriversi alla Statens Håndverks-og Industriskole di Kristiania ovvero : Scuola per l’industria e l’artigianato poi Scuola Reale di Disegno una pseudo-accademia artistica, fondata da un suo lontano parente, Jacob Edvardsson Munch , che frequenta, in orario serale, dal 16 dicembre dello stesso anno. Le lezioni prevedono insegnamenti tradizionali, improntati al tipico Naturalismo di matrice nordica praticato e diffuso in tutto il Paese forme artistiche usuali, lontane dai grandi ideali d’avanguardia che si stanno diffondendo in Europa, frutto di una mentalità ancora gretta, perbenista e schiacciata dalle convenzioni bigotte del tempo e del luogo. Dapprima segue il corso di ornato disegnato, quindi, dall’agosto del 1881, accede alle classi di modellato tenute dallo scultore classicista Julius Olavus Middelthun che lo forma egregiamente nel disegno a mano libera . Presso la Scuola Reale, però, si respira la stessa soffocante atmosfera provinciale, chiusa e ristretta del mondo scandinavo e dell’ambiente familiare in cui cresce. Kristiania è, infatti, una piccola città di provincia, con centomila abitanti, è dominata da una borghesia puritana e da un protestantesimo settario che non consente agli stimoli e ai fermenti culturali delle capitali europee di penetrare. Il dibattito sull’arte nella capitale, si apre solo negli anni ‘80, grazie alla generazione di artisti, di ritorno dalle città europee, che diffondono un fare legato al Realismo pittorico della Scuola di Monaco, al Naturalismo di ispirazione francese che talvolta si spinge sino all’immagine fotografica e all’Impressionismo, secondo una resa assolutamente originale ed indipendente, rispetto ai modelli, che declina verso un Verismo intensificato e malinconico, che accentua la percezione visiva e che piace molto al pubblico conservatore scandinavo . Questo soggettivismo di fondo, tipico delle opere dei maestri nordici, inizialmente, ben si adatta all’indole fragile e malinconica del Norvegese che, in principio, ne adotta anche lo stile, per poi, però, allontanarsene drasticamente attraverso la sua inappellabile e, per certi versi, incomprensibile rivoluzione pittorica. In Munch matura, infatti, la vivida ed indiscutibile idea che l’arte debba rispondere a nuove esigenze, molte delle quali ancora inespresse e latenti, quelle di una compagine i cui valori stanno entrando decisamente in crisi . In Norvegia, però, domina ancora radicata la classica concezione secondo cui è compito del pittore documentare la propria vita attraverso la produzione artistica. Questo ritardo culturale, di una società legata saldamente a formule del passato, è alla base del difficile rapporto del maestro con la sua città di origine; Kristiania e i suoi abitanti non sono pronti ad accogliere le novità presto introdotte dalla sua pittura, né provano a comprendere il fatto che l’arte si sta evolvendo verso forme e linguaggi nuovi e mai praticati fino a quel momento. E anche quando il maestro, celebrato come capostipite dell’arte moderna, raggiungerà una certa fama internazionale la sua città faticherà a comprenderlo e manterrà sempre un atteggiamento di tiepida accoglienza. Nel marzo del 1882, terminato il suo breve ciclo di studi superiori, inizia un percorso di tipo professionale, in atelier, luoghi non istituzionale, sotto forma di apprendistato e sotto l’egida di quella cerchia di pittori più anziani che, come abbiamo detto, rientrati da un soggiorno formativo all’estero, è piuttosto aggiornata sui movimenti d’avanguardia europei e ritiene che sia loro dovere istruire le nuove reclute. Nello stesso anno, Edvard e cinque colleghi amici prendono in affitto uno studio e Christian Krohg , affermato e valente pittore naturalista, esponente di punta dell’arte nazionale, si propone come loro guida . Di questo periodo è l’imperioso Autoritratto del Munch Museet del 1882, in cui l’effigiato, in posa teatrale e con tratti spigolosi ed asciutti, ostenta una indubbia sicurezza mista ad ambizione, sottolineate da un forte contrasto di luci e ombre. Il risultato è in evidente antinomia con la palese e coinvolgente emotività dei ritratti più tardi, già analizzati. Di poco successivo è l’Autoritratto del ByMuseet dove l’autore introduce un sensibile cambiamento in senso sperimentale della tecnica: la pennellata perde definizione e il soggetto acquista l’intensità psicologica dei quadri successivi . Il pretenzioso ed altero cipiglio dell’effige giovanile lascia il posto ad una vulnerabilità che sopraffà e turba il pubblico, sorpreso di scorgere in un adolescente uno sguardo così carico di tensione e fragilità: gli occhi lucidi, consapevoli e l’espressione profondamente malinconica dovrebbero, infatti, trovarsi in fisionomie adulte, provate dalla vita e non in giovani appena ventenni che si stanno affacciando al mondo. I segni di inquietudine e tristezza fanno, dunque, presto la comparsa nella personalità, nell’arte e negli scritti del pittore che annota che «malattia, pazzia e morte» sono «gli angeli negri attorno alla mia culla». Nelle estati del 1883 e del 1884 Thaulow crea, a Modum (Contea di Viken), un’Accademia en plein air per allievi-pittori, i cui corsi, nel 1884, sono seguiti da Munch. L’anziano maestro riconosce subito il talento del giovane e gli propone di farsi carico delle spese di viaggio affinché possa completare la sua formazione a Parigi e visitare i Salon, imprescindibile vetrina dell’arte d’avanguardia europea . Per problemi di salute la visita è, però, rinviata alla primavera dell’anno seguente. Nel 1883, il giovane debutta alle mostre di Kristiania Kunst og Industristiutstillingen, prima, e Høstutstillingen, poi, con alcuni lavori, studi selezionati di paesaggi urbani e scene di povertà e d’interni norvegesi, che già si distinguono per originalità e modernità. Sebbene il suo modus operandi ricordi ancora uno stile riconducibile al tradizionale Naturalismo nordico, in linea con i gusti dominanti della società dell’epoca, i quadri già esibiscono una maniera riferibile ad una personalità decisamente autonoma e fuori dal coro. Queste opere, indiscutibilmente innovative, contraddistinte da esiti non comuni, da un’espressione pittorica particolarmente movimentata e da un lessico artistico assolutamente personale ed avanzato, sin da subito, suscitano un certo interesse e molto trambusto. L’abbondanza di dettagli, le prospettive inusuali, il linguaggio formale apparentemente sommario e la pennellata frammentata, indicano un fare che, la mentalità del tempo, abituata alla paludata compiutezza accademica, riconduce, però, all’idea di abbozzo o di schizzo Ragazza che accende la stufa del 1883. Lo spaesamento generale è tale, da indurre la critica a scrivere dell’esordiente in termini molto poco lusinghieri. Giornalisti, colleghi pittori e pubblico sono confusi e accusano l’artista di non portare a termine le tele e di usare una palette troppo spenta, ancorché ricca e variata nei toni . Oggi escludiamo fermamente che le prove esibite al Salon siano, come insistentemente è stato insinuato dalla stampa dell’epoca, il frutto di impreparazione, imperizia, incapacità o ancora il risultato di studi superficiali, incompleti o scarsi, riteniamo, piuttosto, che l’aspetto di apparente “non finito” sia fin dagli inizi una scelta estetica consapevole e mirata, «poco importa che a una figura manchi naso, orecchie o bocca, come nel caso di Malinconia» , afferma il pittore nei Diario, o che un volto sia privo di dettagli, lui le dipinge così perché le vuole così . La tendenza al “non finito” diventa presto per l’artista un τόπος, che nel corso della sua esistenza acquisisce un carattere sempre più drammatico; le larghe ed energiche pennellate, sembrano fondersi con l’immediatezza primordiale delle forze della natura e vanno a costituire il tema personale dentro il flusso grandioso e incessante della vita di tutti. E nonostante queste prime opere esibiscano un linguaggio pittorico già sfranto, poco definito e scarsamente chiaro, vi riecheggiano ancora ombre del Naturalismo dei maestri nordici intrise di influssi francesi; esse vanno, dunque, ricondotte ancora all’alveo del Realismo, in quanto sono rette dall’idea di rappresentare persone normali in ambienti comuni . Ne Il Mattino del 1884, una scena d’interni con una giovane, che, interrotto il gesto di infilarsi la calza, osserva con aria incantata e sognante il chiarore del sole mattutino, ritroviamo, per esempio, nell’uso della luce, come pratica di catturare l’impronta di un determinato istante, il fascino nutrito per pittori come Monet e Renoir, mentre l’attenzione per ambienti intimi e quotidiani rivela l’interesse per Manet e Dagas . Inoltre, la pennellata sintetica richiama il fare alla Gauguin . Munch, dunque, si dimostra estremamente attento e ricettivo rispetto a quanto sta accadendo in Europa, ma non imita né copia i colleghi francesi, su di essi attua la sua personalissima rivisitazione esibendo una forma espressiva decisamente nuova e già inconfondibile. La luminosità è verosimilmente il vero soggetto della tela: la ragazza rivolge lo sguardo alla finestra e lungo la prospettiva si palesano studiati riflessi di luce (si osservino le superfici di vetro, il vassoio, la tenda bianca, la testata del letto, i capelli e la pelle della protagonista, che si tinge di sfumature rosse, bianche, blu) . La critica locale e il pubblico conservatore non apprezzano il quadro che viene licenziato come “affrettato ed insicuro” . Nel 1885, grazie ad una borsa di studio, il maestro si reca, per la prima volta, all’estero, le esperienze fatte rafforzano la tendenza verso un progressivo disfacimento della forma e verso un’espressività sempre più intensa: la sua ricerca si orienta ancora di più in senso tecnico sperimentale e assistiamo all’affermarsi di elaborazioni e stesure pittoriche inedite, nonché all’ottenimento di immagini che esprimono affetti profondi. Raggiunge, prima, Anversa, dove partecipa all’Esposizione Universale con alcuni quadri il Ritratto della sorella Inger in nero del 1884. L’occasione gli consente di osservare e studiare le opere dei maestri simbolisti francesi esposti: Pierre Puvis de Chavannes e di Jules Bastien-Lepage. Arriva, poi, a Parigi, e, per tre settimane, visita con accorta e famelica curiosità i Salon e il Louvre , nonché le gallerie private, tra cui quella di Paul Durand-Ruel , il gallerista degli impressionisti, che gli consente di registrare con attenzione e grande interesse l’adesione alle minime variazioni della luce esercitate dai moderni francesi e di prendere ad amare le loro rapide esecuzioni. Oltreché con gli ambienti impressionisti, entra in contatto con quelli simbolisti e cromo-luministi, e rimane particolarmente affascinato dall’espressività violenta della pittura emotiva di Vincent Van Gogh , che in vita raccoglie il plauso e l’apprezzamento dei soli colleghi-pittori, mentre viene ignorato, se non pesantemente dileggiato, dalla critica e dalla stampa. Pur non trovando alcuna affinità con il plain air, che non è ancora nelle sue corde, e difatti per il momento non lo adotta, la sua tavolozza, fino ad ora alquanto limitata e tetra, si vivacizza e si illumina di colori. Sulla scorta dell’esperienza parigina, tornato in patria, accantona definitivamente e senza riserve il paludato Classicismo, la pittura di atmosfera e il Naturalismo quasi fotografico, prevalentemente praticati dai pittori norvegesi, e, secondo un taglio assolutamente innovativo, memore delle prospettive alla Caillebotte, comincia a dipingere ritratti alla Manet e opere che restituiscono le suggestioni divisioniste provate per i maestri neo-impressionisti: la pennellata si carica di luce, le tinte vengono apposte pure, infine, introduce quel sentimento per la natura, che successivamente diventerà angoscia e dolore, sua cifra stilistica, ma che in questa fase è insolitamente vivace e sereno. A questo stadio appartengono Musica sul Viale Karl Johan del 1889, Primavera sul Viale Karl Johan del 1890 e Corso Karl Johan sotto la pioggia, del 1891. I tre dipinti sono ambientati sulla principale e centrale arteria cittadina, che collega il Parlamento alla Residenza Reale, frequentata dall’alta società di Kristiania, ma anche dal popolo e dagli artisti bohémien alla ricerca di soggetti degni di essere rappresentati. L’ombrello rosso, presente nei primi due quadri, e quelli neri, del terzo, rappresentano evidentemente un omaggio ai maestri parigini Monet, Renoir, Caillebotte e Seurat. A quest’ultimo, inoltre, vanno ricondotti anche i tocchi di colore puro affiancati, dati, però, irregolarmente, non rispettando il rigore scientifico della teoria dei complementari, perseguito dal Puntinismo francese. Infine, da segnalare è il rapporto contrastante tra le figure in primo piano e la strada che corre diagonalmente su uno sfondo piatto e privo di dettagli di Musica. Solo due anni dopo, come in una macabra danza della follia moderna, il piacevole viale cittadino, si trasforma in una immagine piena di ansia ed inquietudine: in uno scenario notturno la via, infatti, assume le sembianze di un corso di spettri, non liberi e costretti dalle convenzioni sociali. Nell’estate del 1886, trascorre con lo scrittore Hans Jæger un periodo in barca, lungo la costa sud-occidentale della Norvegia; l’anno prima, dopo la pubblicazione di Fra Kristiania-Bohéme, romanzo, tacciato di immoralità, l’intellettuale è dapprima censurato, quindi, condannato alla prigionia. Personaggio colto, carismatico e controverso, esercita sul Nostro una forte influenza emotiva: da lui il pittore mutua la fermezza nell’inseguire ed attuare le sue idee e convinzioni, e il coraggio di servirsi delle proprie esperienze, profondamente intime e tormentate, come materia prima, per le sue tele. Alla loro frequentazione, dunque, facciamo risalire il nuovo atteggiamento introspettivo che caratterizza la produzione del pittore a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, e che lancia di diritto il maestro nel più ampio dibattito europeo sul rinnovamento dell’arte e sul ruolo da assolvere in una fase storica complicata e controversa come quella a lui contemporanea. L’artista elabora un proprio linguaggio, ma, non essendo interessato né all’aspetto oggettivo delle cose, all’epoca fenomeno già molto in voga, né all’astrazione, atteggiamento che inizia a farsi strada nell’Avanguardia europea, spronato dal pensiero dell’intellettuale anarchico, che considera l’esperienza soggettiva l’unico tema degno di essere indagato e raccontato, comincia a “parlare” della condizione umana; ne risulta un’espressione visuale fortemente comunicativa, in cui le vicissitudini individuali, sono al centro della sua attività creativa . Questa circostanza, per noi banale, all’epoca si pone in forte discontinuità con il mondo artistica; rispetto, cioè, alle coeve ricerche, perlopiù, ancora legate alla figurazione, rappresenta una vera e propria rivoluzione estetica. Munch dà inizio ad una pittura che non si vede, ma si percepisce emotivamente, «non dipingo ciò che vedo – scrive significativamente l’artista – ma ciò che ho visto» , i suoi soggetti non traggono ispirazione dalla realtà circostante, piuttosto da quanto gli è occorso nel bene e nel male, e la sua arte diventa espressione di momenti psicologici universali che analizzano profondamente l’anima dell’uomo moderno, tralasciando totalmente l’aspetto fenomenologico. L’amicizia tra i due si rivela, però, difficile, con Hans il pittore rivive il problematico rapporto con il padre: la figura del genitore ossessivo ed autoritario, educatore severo e repressivo , ma al tempo stesso altruista, dedito alla famiglia, rispettosamente borghese e pietista, è nettamente in conflitto con il suo istinto di autoaffermazione, che subisce il fascino dell’ardente sovversivo, visionario, figura egocentrica ed ‘egoica’. L’uno è l’esatto opposto dell’altro e si genera in Munch una condizione di crisi ed incertezza, soprattutto perché Jæger è apertamente e fermamente disapprovato dall’anziano padre . Alla loro frequentazione, facciamo risalire l’ennesimo cambiamento nel percorso artistico del Nostro che, dopo la parentesi di vivace e luminoso colorismo alla francese, torna alle ambientazioni cupe, tipiche degli anni della formazione. Ricompaiono e prevalgono i toni scuri e, in linea con quanto accade nei paesi nordici, l’attenzione passa dal leggero sentimentalismo, tipico di Il mattino o della Primavera sul Viale Karl Johan, a questioni più marcatamente esistenziali ed intime. A partire dalla fine degli anni ’80 sia l’arte e che la letteratura, infatti, si riempiono di atmosfere di matrice neoidealista e si calano nella cultura con una spiccata attenzione all’introspezione e un ricorso alla fantasia nell’elaborazione dei soggetti. D’altra parte, nel decennio 1880- 1890, assistiamo, in tutti i campi, ad un generale slittamento dell’interesse intellettuale, lato sensu, che passa dalle descrizioni ottocentesche della vita a questioni più profonde e tormentate, dalla malinconia romantica a stati emotivi più tragici ed angosciosi. Negli anni più intensi della loro amicizia Edvard vive la dolorosissima relazione con Milly, del legame non riesce a parlarne con il padre, che contrario all’adulterio non può che disapprovare, elegge allora l’amico agitatore a confidente; in quello stato di condivisione della soffocante sofferenza, come condizione esistenziale, è, dunque, Jæger, e non il genitore, a stargli vicino . E quando l’amante, che non ricambia il suo sentimento, sposa un terzo uomo, Munch si ritrova particolarmente afflitto ed inizia a maturare quella concezione, secondo la quale, ogni tipo di relazione amorosa è destinata al fallimento. La delusione, dunque, ha un impatto devastante sulla mente dell’artista e il suo ricordo, combinato con la κοινὴ culturale esistenzialista, in cui cresce e si forma, con la propensione familiare alla fragilità ed instabilità emotive e con la cultura misogina che contraddistingue in gran parte l’ambiente intellettuale in cui opera si rifletterà su ogni suo futuro rapporto con l’altro sesso, producendo, altresì, effetti significativi e duraturi sulla produzione artistica, qualificandone i soggetti amorosi in senso drammatico e profondo. Per tutta la sua vita, Munch avrà un rapporto estremamente complesso e controverso con l’altro genere, ritenendo il matrimonio incompatibile con le sue ambizioni artistiche e per il timore di trasmettere ai figli quella delicata condizione psico-fisica di carattere familiare (consunzione polmonare e il gene della follia), non si è mai voluto sposare. In una nota diaristica riporta che sarebbe stato «un crimine (…) sposarmi (…) mia madre è morta di tubercolosi (…), mia zia, forse a causa nostra, vive in uno stato tubercolare. Io ho sofferto per tutta la vita di raffreddore e bronchite con espettorato di sangue. Mia sorella Sofie è morta di tubercolosi. Noi bambini della famiglia crescendo abbiamo sofferto di forti raffreddori – sono venuto al mondo malato, sono stato battezzato in casa e mio padre non ci credeva che potessi sopravvivere – ho dovuto trascurare quasi completamente la scuola – sono stato costantemente attaccato da raffreddori violenti e febbre MM reumatica – ho avuto perdite ematiche. Mio fratello aveva un petto debole ed è morto giovane di polmonite. Mio nonno il prevosto è morto di stenosi spinale – Da questo… mio padre ha ereditato il suo nervosismo morboso e la sua ferocia – La stessa che si è sviluppata sempre di più in noi bambini …» . Le sue storie amorose sono paradigmatiche: iniziali incontri, brevi e spontanei, seguiti da frangenti di attrazione fatale, condivisa, il più delle volte, da entrambe le parti, quindi, alla passione, subentrano il tormento e la gelosia che conducono all’inevitabile e drammatico epilogo di allontanamento. Combattuto, tra lo slancio verso il genere femminile e la paura di essere respinto, Edvard muore celibe, nel 1944, all’età di 80 anni, dopo aver vissuto certamente significative, ma infelici relazioni con diverse donne. Questo difficile e problematico relazionarsi è, sin dall’inizio della carriera, fonte di ispirazione per gran parte delle sue tele, nonché stimolo creativo determinante al concepimento del Fregio, come abbiamo visto, opera cardine della sua produzione, “poema di vita, amore e morte”. La visione dell’amore maturata dal pittore e trasmessa attraverso il suo lavoro è, dunque, sempre destinata a fallire tragicamente. Pur considerando ogni esperienza di coppia necessaria ed indispensabile e sebbene viva sempre appieno ogni momento di ogni singola vicenda, non arriva mai, l’abbiamo detto, a prendere la decisione di sposarsi. Quest’atteggiamento di non apertura verso l’istituzione del matrimonio provoca, nel tempo, situazioni di attrito e forte conflittualità con le sue compagne, in particolare con Mathilde Larsen, donna ricca, viziata, gelosa ed ossessiva che avrebbe voluto convolare a nozze. La tormentosissima relazione culminerà in un drammatico evento in cui verranno sparati dei colpi di pistola che feriscono l’artista alla mano sinistra. Tra l’autunno dell’1885 e l’1886 iniziano le prime versioni di alcuni soggetti che poi lo renderanno famoso: Bambina Malata e Pubertà. In un’epoca dominata, in tutta Europa, dalla pittura dei maestri impressionisti, che cattura l’attimo, il riflesso, l’istante visivo, Munch, ritenendo suo compito dover andare oltre l’impressione come manifestazione artistica visuale e, dunque, penetrare gli animi e comunicare sentimenti e sensazioni vere, dolorosamente vive e tragicamente attuali, opera scelte artistiche che, per la cultura del tempo, abituata ad un fare pittorico realistico ed intimista, risultano “discutibili” se non addirittura incomprensibili. Come indicato dall’amico Jæger, attraverso il ricordo e la memoria, attinge alla propria esperienza personale e giunge al pubblico, in modo inatteso, creando un imprevisto coinvolgimento emotivo che rompe con la tradizione e fa della tela lo spazio della manifestazione e condivisione del dolore . Così, con Fanciulla malata (simbolico e, allo stesso tempo, letterale addio al Naturalismo della formazione), si conclude la fase giovanile e comincia la prima maturità, caratterizzata da una ricerca intima, profonda e forsennata, come sperimentazione estrema nei mezzi e nei soggetti, che conduce all’adozione del nuovo e sorprendente modus operandi, tecnicamente d’impatto e radicalmente moderno, che va viepiù affinandosi nel tempo . Nel percorso del pittore, il quadro, allora, diventa, l’opera di rottura e assurge ad essere l’emblema della svolta creativa, su cui, come testimoniato nel Diario, nei successivi 40 anni, l’artista vi ritornerà più e più volte realizzando diverse versioni e repliche, modificate nella tecnica e nel linguaggio espressivo . Un fare nervoso ed asciutto esprime, in modo pieno, intatto ed essenziale, i turbamenti del passato, e mette a nudo quella sofferenza vissuta che diventa il vero soggetto dell’opera. Non il banale, per quanto amaro, episodio della malattia, dunque, ma lo strazio provato sottopelle e il senso di impotenza, dell’artista e di tutta l’umanità, difficili da gestire. Il debutto in “chiave espressiva”, che è anche il centro della produzione artistica del periodo, nasce, pertanto, dall’intima rievocazione ed estrinsecazione, non dell’evento in sè, ma del dramma patito rispetto al ricordo della malattia della sorella Sophie, morta appena quattordicenne. Un secondo impulso al concepimento deriva dall’incontro con una paziente del padre, Betzi Milson; oltre a ricordargli la sorella defunta, suscita in Edvard una tale compassione da nutrirne l’ispirazione al punto da convincerlo a riprodurre quel senso di pietà che aleggia profondamente nel quadro e che rappresenta significativamente l’inizio dell’auspicio, risultante diffusamente nei taccuini, secondo cui non sia più tempo di dipingere «interni con gente che legge o donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno uomini che vivono, che respirano, che sentono che soffrono, che amano » . La vicenda si svolge all’interno di una cornice opprimente e deformata, che sembra consumarsi lentamente, sgretolarsi con la malattia e seguirne il decorso fino all’imminente dipartita: una bambina sofferente, pallida come un lenzuolo, con uno sguardo vacuo e dolente e la testa girata verso un’ombra nera, l’incombente presenza della morte, si rivolge lucidamente alla persona accanto a lei, che, china al suo capezzale, provata e prostrata dalla disperazione, sembra sbiadire nell’ambiente circostante, probabilmente rassegnata allo strazio della perdita . È evidente che l’opera, anche dal punto di vista compositivo, oltreché nella sua componente tragica, vada al di là della mera rappresentazione oggettiva dell’avvenimento e mostri i segni tangibili della sua ricerca che, attraverso un’impostazione prospettica mai vista, volta a toccare il pubblico ed ad infondere una frustrazione emotiva, si prefigge di esprimere quell’insopportabile impotenza, provata più e più volte. E, allora, assistiamo ad un processo di semplificazione formale che, unito all’intensa figura di colei che, mentre veglia la protagonista, già proiettata in una dimensione ultraterrena, pare dissolversi nel colore, instilla in chi osserva quello stato di ansia ed afflizione, che, fuoriuscendo dal quadro, si insinua nel sottopelle del riguardante per far rivivere e percepire quell’insopportabile senso di impossibilità ad agire ed ineludibilità per un destino infelice. Non c’è alcun intento mimetico-descrittivo, l’autore tende solo ad una piena ricerca espressiva, sostenuta dall’inedita, quanto incomprensibile, per i tempi, resa pittorica. E allora il pittore, dopo aver abdicato all’idea di ripetere la realtà, come dimostra la mancanza di disegno, di definizione prospettica e di chiaroscuro, e aver rivissuto emotivamente la vicenda nella scrittura, per il tramite del ricordo personale, infelice, particolarmente traumatizzante e stampato indelebilmente nel suo animo, richiama alla mente l’episodio e lo ripropone, a beneficio del pubblico, in Fanciulla malata, attraverso un uso originale e sorprendente del colore, dato con una forza espressiva sconosciuta, che giunge all’emotività più intima dello spettatore, sconfinando nel territorio, ancora in massima parte sconosciuto, dell’evocazione . Così facendo Edvard rende partecipe il fruitore del dolore e, in uno stadio successivo, quella stessa sofferenza diventerà sensazione universale. Non è la morte di Sophie a pronunciarsi, ma tutto ciò che afferisce all’aspetto più recondito e viscerale dell’evento, tutte le sensazioni penose e contrastanti provate. Il fulcro narrativo e compositivo dell’invenzione munchiana è la dolcezza vicendevole tra le due protagoniste, la bambina si rivolge alla donna che le accarezza teneramente le mani in un saluto estremo; il dettaglio rappresenta il centro prospettico del dipinto, nonché l’apice emotivo della creazione: un gesto reso volutamente con tratti veloci e sommari, rapidissimi tocchi di colore che non definiscono, ma, ancora una volta, evocano, richiamano, invocano sensazioni inattese . Affinché il riguardante partecipi alla tragedia in modo incondizionato e totale, l’artista riduce la fuga prospettica ad una visione molto ravvicinata e schiacciata che, amplificando ed esaltando il senso di sofferenza, che impernia ed aleggia nel quadro, e, dilagando verso lo spettatore, su cui grava il denso e frastornante silenzio della stanza, esalante l’odore acre della malattia e della morte, rende l’astante non un mero spettatore, ma attore della vicenda. Nessuno può sottrarsi alla situazione di disagio in quanto, suo malgrado, è proiettato all’interno dell’opera: respira la stessa aria malsana e partecipa all’incomprensibile dolore dell’angosciante sorte. Fino a questo momento nessuno, o quasi, ha mai tentato nulla del genere, non ci sono modelli a cui guardare o a cui rifarsi e, al fine di suscitare l’empatia e la commozione auspicate, l’artista si affida, l’abbiamo detto, all’inusuale impostazione prospettica che proietta chi guarda nell’evento e alla tecnica pittorica, senza precedenti, qualificata da pennellate corte, dense, verticali, di tinte cupe, sovrapposte e successivamente, in alcuni punti, graffiate via, con la spatola o con le unghie, per far riemergere suggestivamente le cromie sottostanti. La superficie, allora, diventa materica, grezza, estremamente espressiva, ed è la pittura stessa, intesa come gestualità, ad essere dolorosa e travagliata in ricordo dell’agonia e della sofferenza patite per la morte della Quattordicenne e forse, come abbiamo detto, reminiscenza della scomparsa della madre. Sulla sinistra, per esempio, incombe soffocante il dettaglio della tenda, di un verde scuro indefinito, ottenuto con graffi verticali che liberano le pennellate materiche e grezze di tinta sottostanti, e che creano, in chi guarda, l’auspicato e ricercato coinvolgimento. Il giovane pittore trasforma così le vibrazioni luminose dell’Impressionismo in fremiti psichici anticipatori di alcuni principi della futura estetica espressionista, attua, cioè, quel intendimento di memoria arganiana per cui Munch “non crede al superamento, ma al ribaltamento dell’Impressionismo: dalla realtà esterna all’interna”. In questa fase della sperimentazione, ma in generale per la maggior parte della sua vita professionale, l’artista sceglie e predilige l’uso della pittura ad olio, una tecnica che si confà per carattere di malleabilità e duttilità allo scopo di far emergere il ricordo, che sublimandosi si rivela nel colore per poi apparire violentemente, come un pugno, nella tela. E, alla ricerca di effetti evocativi e suggestivi, introduce, anche, diluenti che, liquefacendo la vernice, fanno scorrere il colore sulla superficie e, segnando e “sporcando” simbolicamente la tela con metaforici atti di angoscia, la qualifica come il luogo della manifestazione del dolore. Ed è sempre in ottica sperimentale che, a distanza di tempo, l’artista introduce la cd “cura da cavallo”, come atto finale dell’asciugatura delle opere, le quali, per acquisire l’espressività autentica e sincera strenuamente ricercata, quella che commuove e persuade il pubblico, devono essere sottoposte ad un’azione temprante e brutale, La sagoma nera rappresenta, allo stesso tempo, presagio di scomparsa della spensieratezza infantile ed entità ineludibile con cui in età adulta il genere femminile deve inevitabilmente misurarsi, il trapasso, cioè, dallo stato di fanciulla a quello di donna, le cui sorti, prestabilite dalle convenzioni del tempo, sono spietatamente quelle di amare, di procreare, di accudire e di morire senza alcuna possibilità di deviare da una vita prefissata socialmente. L’opera, quindi, si carica di quella valenza socio-culturale ampiamente dibattuta nei circoli intellettuali nordeuropei dell’epoca: al di là, infatti, dell’insopportabile evento psico-fisico che testimonia, essa si inserisce nella più ampia querelle relativa alla questione femminile, in cui autori come Ibsen e Jæger, prima di lui, si sono già pronunciati. Nel 1879, il primo pubblica Casa di Bambola, un’aperta critica al perbenismo alto-borghese e alla condizione della donna nella società vittoriana, qualche anno più tardi, nel 1885, il cattivo maestro si inserisce nel battage culturale, con il suo romanzo di rivolta, Fra Kristiania-Bohéme, contro la morale conservatrice, per la liberazione dai pregiudizi e dai costumi sociali. Con Pubertà Munch, alludendo alla perdita della leggerezza e della libertà, tipiche della fanciullezza, attacca le rigide consuetudini, che non condivide, cui il genere femminile, suo malgrado, è costretto . Ancora una tavolozza scura e poco realistica, in cui il colore risponde ad esigenze di tipo espressivo: l’incarnato livido del corpo allude, infatti, ad un fisico sessualmente ancora acerbo, il quale, però, già mostra i cambiamenti in atto (i seni appena delineati che contrastano con i fianchi ormai maturi); l’aspetto terroso del volto rende l’incredulità e lo sbigottimento di colei che rimpiange l’infanzia e mostra turbamento ed ansia per uno sviluppo sessuale, anelato, ma per il quale non si sente ancora pronta. L’opera è da ricondurre al clima del Simbolismo europeo: il letto integro e le braccia in posizione pudica sottintendono metaforicamente alla verginità intatta della ragazza che, nel nascondersi timidamente, con un gesto di cosciente imbarazzo ed incrociando allegoricamente gli arti superiori sul pube, dimostra consapevolezza per il venir meno della spensieratezza infantile e, allo stesso tempo, palesa il timore per ciò che l’aspetta. A rinforzare il messaggio emotivo la scelta di dipingere solo l’essenziale, pregno di significato: il letto, la fanciulla attonita e la sua ombra sulla parete, tesa a gridare in un urlo sordo come materializzazione della paura. Durante tutti gli anni Ottanta Munch si è fatto notare, ha fatto parlare molto di sé ed è diventato uno degli artisti più attivi nella vita espositiva e culturale di Kristiania. A 25 anni, tra l’aprile e il maggio del 1889, presso la sede della Società Studentesca della città, tiene la sua prima personale: 110 opere che suscitano ancora reazioni forti e contrastanti sia tra gli esperti che tra gli spettatori. Piovono critiche da ogni dove, il pubblico conservatore continua a detestarlo e, sebbene, l’artista raccolga il plauso e l’ammirazione di molti amici, intellettuali e colleghi-pittori più anziani, diviene nuovamente bersaglio della feroce stampa tradizionalista e conformista. Il maestro, inoltre, nella vita, come nel lavoro, non riesce a mettersi in dialogo formativo con le nuove reclute, che, invece, si aspettano, così come era accaduto anni prima con lui, che si proponga come guida e mentore. I lunghi periodi di isolamento, di cui il Norvegese necessita, per trovare la giusta concentrazione e per dedicarsi alla spasmodica ricerca di una nuova arte, dal significato profondo, lo tengono lontano dall’insegnamento e dalla condivisione, e la distanza fisica ed emotiva dalla cerchia di giovani artisti è mal interpretata, così anche le nuove leve si pongono in atteggiamento negativo: mal sopportando i suoi ritiri e la sua riservatezza, non lo comprendono e lo ritengono egoista ed egocentrico. Inaspettatamente, giungono anche articoli cautamente favorevoli: Aubert continua a non apprezzare l’aspetto “non compiuto” dei suoi lavori, ma sul quotidiano “Dagbladet”, scrive di un grande talento coloristico attribuendo il “non finito”, non più ad imperizia o incapacità, piuttosto a una forma d’indifferenza dell’artista per struttura e disegno; si lancia, quindi, nella previsione che, negli anni, egli possa imparare ed eccellere come “pittore di figure” . Sul “Verdens Gang”, l’amico Krohg stende, invece, una vera e propria ovazione: pur rimarcando la deplorazione per un modus operandi definito “debole e fiacco” e ricondotto, con rammarico, ad una formazione poco accademica, ritiene che egli sia l’artista del momento e del futuro, l’unico, in Norvegia, capace di mostrare “(…) quello che ha sentito e che lo ha emozionato». In questo periodo matura e lentamente si affaccia quel concetto di natura stilizzata ed alterata in senso simbolico, tanto da perdere ogni riferimento con la realtà, che, sebbene la vecchia generazione di pittori naturalisti, cui appartiene lo stesso Krohg, faccia fatica a seguire, diventa presto tendenza. Le deformazioni del soggetto e dell’ambiente rappresentano una tappa fondamentale, una scelta necessaria che gli consentono di giungere ad una forma espressiva più intima e profonda; gli enunciati estetici e i valori classico-formali di ordine e razionalità, già messi in discussioni precedentemente, ora vengono definitivamente infranti e lasciano il posto a segni e colori usati in modo anti-naturalistico. Fonti di ispirazione e tematiche sono ancora riconoscibili ed intellegibili in restituzione non più imitative, ma percettive. E come i soggetti affrontano la decadenza, la distruzione e il dissolvimento della forma sulla tela, così i quadri materiali subiscono il medesimo processo di disfacimento attraverso l’introduzione della pratica della “cura da cavallo”, per la quale supporti e relative pellicole pittoriche sono fisicamente ed intenzionalmente esposti alle intemperie della natura. Così operando i dipinti diventano protagonisti di un percorso artistico che è già una moderna performance, anche se priva di pubblico, e non è un caso che, a partire da questo momento, il maestro scelga, quasi sempre, di lavorare all’aperto, nonostante le rigide temperatura che il clima del Nord-Europa raggiunge, soprattutto, in inverno. Durante l’estate del 1889, affitta una casa a Åsgårdstrand, e, in novembre, dopo aver ottenuto la borsa di studio per Primavera, che in ottobre lo porta nuovamente in Francia, il padre muore per un ictus.
L’immagine del genitore morto, rievocata più o meno direttamente in diverse opere del periodo parigino L’uscita del feretro del 1898-1900, in cui si compie il trasporto, poco agevole, della bara del defunto fuori dalla casa. Un’uscita mesta, carica di tensione, sia per la difficoltà fisica di portare fuori il pesante feretro, che per lo strazio emotivo del momento luttuoso . Inizia un periodo che lo tiene lungamente lontano dalla sua città d’origine, diviso tra Parigi, Berlino e altre città mitteleuropee, passeranno circa 20 anni prima del suo ritorno definitivo in Norvegia, favorito ed orchestrato dall’amico Jappe Jacob Nilssen. Durante il secondo soggiorno parigino, poiché, in patria, la sua opera è stata così aspramente giudicata per mancanza di disciplina e precisione, decide di iscriversi, assieme a 5 giovani compagni, alla Scuola di Disegno di Léon Joseph Florentin Bonnat , dove, però, per una questione di insofferenza, rimane solo pochi mesi (da ottobre a dicembre), durante i quali ha il privilegio di poter studiare la collezione personale del maestro (con opere di Ingres, Géricault, Delacroix, Couture e des Chavannes), e di recepire, limitatamente ai suoi intendimenti, e dunque, per la critica solo parzialmente, quell’esigenza di correzione lamentata, più volte, dalla stampa norvegese. Dalle lettere giunte ai famigliari, all’inizio di gennaio 1890, dopo quasi tre mesi di lezioni, apprendiamo che alla scuola l’artista è piuttosto apprezzato, “a Bonnat piacciono i miei disegni», ma aggiunge anche di annoiarsi e che preferirebbe “dipingere qualche quadro» a Saint-Cloud, dove si è trasferito per sfuggire all’epidemia di colera che imperversa nella capitale. Prende, quindi, la decisione di interrompere le lezioni. Anche se, per il compagno di corso, il pittore Karl Konow , la scelta di allontanarsi, potrebbe, invece, essere dovuta ad un disaccordo sorto tra l’allievo e il docente sul colore del muro in un modello . Parigi è l’indiscusso centro artistico d’Europa, il fermento culturale nella città è al massimo della sua effervescenza, oltre alle celebrazioni per il centenario della Rivoluzione Francese, svolte sulla riva destra della Senna, in Campo di Marte, si sta organizzando la nuova edizione de l’Expositione Universelle, in occasione della quale viene eretta quella meraviglia dell’ingegneria del ferro che è la Torre Eiffel (1889). La sezione delle arti figurative, curata dal critico Roger Marx , ospita, per la prima volta, pittori, ancora controversi, come Manet, Monet, Pisarro e Cézanne, e il padiglione norvegese espone orgogliosamente il Mattino che dà al maestro una certa visibilità e l’apprezzamento meritato. Dopo pochi mesi dall’arrivo nella capitale, prostrato dalla morte del padre, e per sfuggire ad un’epidemia di colera che ha colpito la città, si trasferisce nel sobborgo di Saint-Cloud, in una pensione sulla riva sinistra della Senna dove incontra provvidenzialmente colui, dalle cui conversazioni prenderà vita il cd Manifesto di St Cloud sul Simbolismo in pittura: Emanuel Goldstein. Nella piccola, fredda e umida camera d’albergo, al secondo piano dell’Hôtel Belvédère, si crogiola nei ricordi della perdita del padre e, devastato dalla malinconia per il senso di colpa, che lo assale ad intervalli intermittenti, scrive di non sapere “cos’altro fare se non lasciare che la pena invada l’alba e il tramonto. Resto solo con milioni di ricordi che sono milioni di pugnali che mi lacerano il cuore – e le ferite restano aperte. L’aria è grigia e pesante sui tetti, la luce svanisce cosi presto – tutto si disegna come un profilo d’ombra sul vetro – fuori la neve copre con strati sottili camini e tetti. » . Non sappiamo se siano state le poesie di Goldstein sull’amore doloroso o se sia stato lo stato di sofferenza per la dipartita del genitore o ancora l’esperienza della solitudine e della lontananza da casa, ma reminiscenze del suo amore non corrisposto per Milly, vissuto, anni prima, tra l’estate e l’autunno del 1885, tornano prepotentemente e malinconicamente alla mente. Nel Diario parigino il ricordo de “la signora Heiberg” ricompare insistentemente, a conferma del tormento che continua a presentarsi e ripresentarsi, ma anche del disturbo di cui soffre, per cui l’intelletto del maestro non riesce ad elaborare fino in fondo le vicende occorse, che riappaiono ad assillarlo ed affliggergli la mente. Tra il 1889 e il 1890, Munch si avvicina al Simbolismo europeo, per l’artista il movimento implica una forma profondamente intima, personale e mistica di esplorazione della condizione umana: la sua opera, già nutrita di suggestioni derivanti dai pittori francesi, si arricchisce di rimandi ed allusioni .
Ai temi prediletti di Toulouse (legati alla condizione umana di coloro che vivono ai margini della società), affianca, una tecnica coloristica che, a partire dalla sperimentazione cromo-luministica, si unisce in un fare pittorico mutuato idealmente dai due “confratelli di Arles”, anche se con asperità maggiori: l’uso del colore si fa ancora più espressivo, travalica, fortifica e consolida la potenza e il temperamento delle tele di Van Gogh (il cui ductus pittorico riempie di pittura densa e violenta i suoi quadri) e di Gauguin (la cui maniera palpitante si alimenta della decoratività del cloisonné, di segni curvilinei e di larghe campiture cromatiche, tipiche del Sintetismo). Il Norvegese, esasperando la pastosità dei pigmenti e, allo stesso tempo, diluendone la corposità, raggiunge una fusione quasi totale tra ambientazione e soggetti ritratti, questi ultimi lentamente, ma profondamente, mutano aspetto ed assumono fattezze più o meno spettrali. Uno dei primi risultati di quest’inedito esercizio è Notte a St. Cloud, forse il quadro più significativo dipinto nel sobborgo parigino . Per una parte della critica l’opera alluderebbe alla scomparsa del genitore e rappresenterebbe l’ennesimo tentativo di elaborare il dolore della perdita sulla tela. Suo padre, Christian, infatti, è morto da poco meno di un anno, tra i due c’è sempre stato un rapporto difficile, d’incomunicabilità e di estrema conflittualità, il lutto, però, fa cadere il maestro nello stato di intima e profonda depressione che affiora ed aleggia nel quadro: all’interno della stanza, immersa nella penombra, permeata da un’atmosfera triste e malinconica, suggerita da malcelate simbologie (come la croce proiettata a terra) e dal predominare di una tavolozza prevalentemente bicroma nei toni dell’azzurro e del marrone, Munch si ritrae mestamente nelle vesti del genitore scomparso, « quando era seduto nell’angolo del canapé davanti alla finestra / nel fumo bluastro del tabacco» , diventandone l’alter ego se non la nemesi. L’uomo, o piuttosto la sua ombra, emerge incorporeo, in secondo piano, e si staglia evanescente contro una finestra. I tratti del protagonista, assorto nei suoi pensieri, si fondono nel colore denso del divano, alludendo ad un’esistenza che sopravvive soltanto nei ricordi del figlio . Il pittore dà forma alle magmatiche sensazioni della sua psiche partendo dall’esperienza atmosferica di tipo francese: crea, però, un ambiente dall’aurea apparentemente impalpabile, caratterizzata da un tratto soffice e lieve, che traduce l’angoscia e le pulsioni interiori, ma che non ha nulla della leggerezza o della felicità dei soggetti impressionisti o sintetisti, né delle effimere atmosfere mondane parigine. La cornice entro cui scorgiamo la pensierosa figura, seduta controlume, si delinea, piuttosto, pregna di gravità e ricca di richiami ed allusioni. Un senso di inquietudine interiore e di angoscia pervade la tela, e i timori e le paure, frutto della fantasia afflitta del maestro, prendono forma nella mente del pubblico . La luce della luna proietta nella stanza la doppia croce degli infissi (ossessivo raddoppiamento di un simbolo di morte che chiude a tenaglia uno spazio dilatato dalla diagonale prospettica, ma soffocato dalle tende), mentre fuori dalla finestra, nel tremolio incerto ed effimero delle barche sul fiume, si avverte quel senso di fugacità come condanna di tutta l’umanità . L’inquadratura obliqua, di tipo fotografico, rinvia alla lezione appresa da Degas e Lautrec, ma mentre nei francesi, è atta a creare un coinvolgimento ed una partecipazione fisica alla vicenda descritta, serve, cioè, a far entrare il pubblico nell’opera in modo privilegiato, mantenendo, però, lo status di spettatore, il taglio trasversale, in Munch, diventa funzionale ad altro, realizza, cioè, uno spazio circoscritto di tipo ansiogeno, posto ad una distanza tangibile dal riguardante, entro cui l’ignaro testimone si trova suo malgrado proiettato, come un coprotagonista costretto a vivere quel senso di impotenza, di afflizione ed ansietà derivanti dal disagio della prossimità. Si noti, infine, la restituzione sommaria, senza precedenti nelle esperienze d’avanguardia parigine, della figura che risulta, ad ogni evidenza, da un’esasperazione del tratteggio cromatico di Monet. Nel 1890, partecipa, con una decina di lavori, tra cui Notte a St Cloud e Primavera, al Salon d’Automne di Kristiania le tele, contraddistinte dai citati esiti nella stesura pittorica, sono genericamente e superficialmente, ascritte dalla critica al Neo-impressionismo e, esposte accanto ai quadri di Monet, Degas e Pisarro, ottengono critiche molto positive, Notte è valutato dalla stampa come il risultato più promettente del soggiorno estero del pittore.
Nella successiva edizione, del 1891, presenta il quadro Notte a Nizza del 1891, che al termine della mostra, è acquistato, dalla NasjionalGallieret della capitale per 200 corone. Per la prima volta,un’istituzione statale acquisisce un’opera del maestro che entra a far parte di una collezione pubblica!. Con le tele successive, l’intensità emotivo-psicologica della sua arte si rafforza sempre di più. Nei primi anni ’90 l’artista, diviso tra Francia, Norvegia e Germania, dipinge la maggior parte delle tele che entreranno a far parte del Fregio. Grazie alle varie esposizioni a cui prende parte e alla grande potenza delle sue invenzioni, il maestro raggiunge una certa fama internazionale. Esercita uno stile avanti anni luce al Naturalismo nordico, e i suoi temi e soggetti sono più articolati e profondi rispetto alle ultime scie impressioniste e neo-impressioniste. Durante le estati del 1890 e del 1892, conosce e frequenta la cerchia di giovani intellettuali simbolisti norvegesi, formata da poeti (Vilhelm Krag, Sigbjørn Obstferdere, Trygve Andersen) e dallo storico Thiis. Il gruppo trova estremamente interessante ed innovativa la pittura del maestro, intrisa di quel Simbolismo dilagante nella letteratura di tutta Europa, il cui ductus, abbiamo visto, derivato dalla linea nervosa e morbida di Toulouse-Lautrec e da suggestioni coloristiche ascrivibili a Gauguin e Van Gogh, si arricchisce dei nuovi stimoli derivanti dalla neonata linea curva dell’Art Nouveau. Il fascino provato per il pittore è tale da vedere in lui “l’uomo nuovo” di Nietzsche, colui che, libero dalle catene del passato, sa essere protagonista del proprio cammino e si trasforma nel viandante che si avvia verso la nuova aurora dell’arte . Il 9 febbraio 1891, George-Albert Aurier , acuto e noto critico d’arte francese, primo ed unico giornalista ad aver scritto positivamente di Van Gogh ancora in vita 138, pubblica, sulla rivista “Mercure de France”, l’articolo Le Symbolisme en Peinture. Paul Gauguin, in cui il movimento, inteso fino a quel momento come una corrente squisitamente letteraria, viene, per la prima volta, messo in relazione all’arte ed alla pittura . Lo stile praticato in questo momento dal Norvegese, intriso di segni ed allusioni, nonché nutrito di un uso metaforico ed antinaturalistico del colore, ricade secondo l’accorto “articolista” pienamente nella nuova κοινὴ simbolista. Già verso la fine del 1889, Munch sente che, le opere nate dall’intenso lavoro di esplorazione della propria intimità, alla ricerca di sentimenti interiori ed esperienze personali, sono decisamente superate e si imbarca in una nuova ricerca creativa per reinventarsi come artista. Quando l’Europa si sveglia in un mondo moderno pieno di cambiamenti, tecnologie, mass media, trasporti ad alta velocità, industrializzazione ed urbanizzazione, il maestro cerca forme espressive idonee a comunicare queste trasformazioni. Secondo Robert Rosenblum storico dell’arte americano specializzato in arte europea dei secoli XIX e XX, solo Munch avrebbe potuto giungere a rappresentazioni così intensamente psicologiche: «fra quei pittori che negli anni intorno al 1890 conducevano a maturità un’arte che era visivamente ed emozionalmente così potente da trasformare il mondo laico in immagini dotate di autorità sacra, nessuno era più grande del norvegese . Per il decennio successivo egli raggiunse tale meta da un’opera all’altra, elevando le emozioni ad altezze psicologiche così sublimi, da proporre incisivamente agli astanti le verità di vita, amore e morte» . Nell’estate del 1890, Edvard è di passaggio in Norvegia, con una decina di opere, decide di partecipare all’Høstutstillingen , tra queste presenta la prima versione di Malinconia , in cui l’autore affronta il tema della separazione, esposta con il titolo provvisorio Sera del 1890. Il rapporto con la madre patria, da sempre difficoltoso, permane tale: la giuria di artisti del Salon, a dispetto della notorietà riconosciuta al pittore a livello internazionale, nei suoi confronti si dimostra ancora sostanzialmente chiusa e il pubblico locale, troppo provinciale e culturalmente arretrato, non lo comprende, d’altronde, non apprezza neanche quei fenomeni ed atteggiamenti d’avanguardia che si stanno diffondendo in tutta Europa. Le reazioni sono complessivamente negative: l’intera stampa dalle colonne dei principali giornali cittadini sminuisce e ridicolizza il suo lavoro ritenendolo stravagante. Werenskiold seguita ad essere critico nei suoi riguardi e gli rimprovera ancora “le cose … lasciate a metà: i colori a olio e i pastelli spalmati tra loro e spesso e volentieri grandi parti di tela non sono dipinte» .
F. Thaulow, dalle pagine del “Dagbladet”, in riferimento alla tela, la dice incompiuta ed offensiva “per la sua goffaggine» (17 dicembre 1891). Aubert reputa l’invenzione “come suggerimento” bella e percepisce che essa sia, per semplificazione formale e trattamento della superficie, un “un cambio di direzione” che preannuncia una visione più grande . Solo Krohg, che, assieme alla moglie Oda, ha posato per la coppia sullo sfondo del quadro, si esprime favorevolmente, lo dice “un dipinto davvero commovente, è solenne e quasi religioso». La tela segna emblematicamente il termine della fase di ricerca e sperimentazione, iniziata anni prima con la Fanciulla malata e continuata attraverso Notte a Saint-Cloud fino a Sera, in tutte le sue versioni. Da ultimo, gli sforzi profusi in anni di intense riflessioni scritte e ricerche artistiche, dentro e fuori i soggetti e nei materiali utilizzati, danno i risultati ricercati, Munch sente di essere riuscito ad imprimere e trasporre pienamente i suoi pensieri, le sue emozioni e le tensioni perseguite, di aver saputo rivolgersi direttamente all’animo dell’osservatore “come non aveva ancora fatto . Lui è il primo e il solo che si cimenta con l’idealismo e che osa fare della natura, del modello i portatori del suo stato d’animo e così facendo osa di più». Soddisfatto dello stile, intenso e psicologico raggiunto, per il decennio successivo, lo adotterà in tutti i suoi lavori . L’opera è ritenuta, a ragione, da Krohg il primo quadro simbolista prodotto in Norvegia, è analizzata con puntualità, vi coglie la grandissima novità legata al senso di armonia musicale, innestata dalle linee morbide e flessuose del litorale, nonchè la sinestesia attivata dai colori impiegati. «La lunga spiaggia si incurva nella pittura per concludersi in una linea armoniosa. È musica. In un gentile intaglio si tende laggiù contro l’acqua quieta, con piccole interruzioni discrete, il tetto di una casa e un albero, di cui molto abilmente il pittore ha omesso di suggerire pur un singolo ramo, perché ciò avrebbe guastato la linea. Fuori sull’acqua quieta c’è una barca parallela all’orizzonte – una magistrale ripetizione della linea di fondo. Dobbiamo ringraziare Munch se la barca è gialla; se non fosse stata gialla, egli non avrebbe mai dipinto questo quadro. Quando Krohg, nel recensire Aften, mette in evidenza che le tinte impiegate esprimono lo stato d’animo del protagonista, rileva quel meccanismo simbolico-sinestetico per cui Munch affida alla pittura il compito di evocare emozioni e sentimenti. Introdurre colori contrastanti e stridenti diventa per l’artista lo strumento per rendere in modo palpabile quel senso di conflittualità che l’uomo, in primo piano, sta vivendo. Il pubblico non immagina empaticamente, ma avverte fastidiosamente lo stato emotivo del protagonista che aleggia nel quadro e si diffonde, sotto forma di malessere ed angoscia. A questo particolare impiego delle cromie, il maestro, dunque, si affida per una restituzione precipua e soffocante della condizione psicologica che, fuoriuscendo dall’interiorità del giovane, si espande a chiunque osservi la composizione: il verde suscita invidia (Krohg riporta di “un paio di macchie verdi velenose”), mentre il bianco esprime orrore e il rosso vergogna . Il principio cromatico, sopra descritto, non rappresenta l’unica novità individuabile nella pittura del Norvegese, che, a partire da quest’olio, per suscitare sentimenti e disposizioni psicologiche, affianca un’ulteriore e drastica riduzione dei dettagli e della μίμησις: alberi, fiori, personaggi e quant’altro non sono concepiti come oggetti specifici, ma come semplici presenze, tutto ciò che include nei dipinti non ha alcuna finalità descrittiva, piuttosto allusiva, per cui abdica ad ogni dettaglio in favore di macchie di pittura evocatrici. Colori e forme, dunque, non ripetendo la realtà, assolvono al nuovo compito di esprimere condizioni interiori e relazioni tra figure . Lo scarno ed aspro scenario – il sottile e brullo lembo di terra, sospeso tra il bosco e il mare, attraversato dalla fascia costiera soggetta alla marea e cosparsa di sabbia e sassi – fa da cornice e, allo stesso tempo, contribuisce a rivelare lo stato d’animo del ragazzo, qualificato da una tensione emotiva, su cui incombono i conflitti interiori che minacciano di esplodere da un momento all’altro. Indubbiamente, la situazione psicologica del protagonista influenza l’aspetto e la fisionomia della natura circostante, arida e spoglia come il suo status emotivo, di cui è, evidentemente, diretta emanazione. A fronte di impulsi felici e leggeri, il panorama avrebbe avuto connotazioni di carattere sensibilmente diverso, certamente positive.
E allora, nel gioco altalenante tra illusione e realtà, assistiamo all’estendersi al paesaggio della sofferenza che angoscia l’umanità: la riva serpeggiante che, snodandosi ad onde e piroettando sinuosamente tra l’interno e l’esterno, si congiunge all’orizzonte, agli alberi e alle nuvole, finisce sul pontile di attracco e crea un’ansiogena profondità prospettica che rimarca la lontananza fisica e mentale. E se nel 1894, Munch scrive che la gelosia è «una lunga riva deserta» probabilmente ha in mente gli esiti felici ottenuti con il dipinto in questione, dove, attraverso giochi intellettivi basati su colori, dettagli e binomi grafico-stilistici, l’artista sa di aver raggiunto risultati significativi: la tela è diventata il luogo del ritorno-incontro degli affetti dove ogni singolo particolare compositivo e/o cromatico è asservito e finalizzato alla ricerca e rievocazione della giusta atmosfera. Per esempio, l’andamento orizzontale e zigzagante della costa, interrotto ritmicamente da linee verticali (i tronchi e altri elementi naturali), provoca, nell’osservatore un sottile senso di disorientamento, non facilmente definibile o individuabile. Oppure, la prevalenza di forme bidimensionali, ampie, dai contorni semplificati, al limite della riconoscibilità, rese attraverso pennellate dense e compatte come il petrolio, di tinte opache, invade e turba la mente dello spettatore che si sente implicitamente minacciato da un qualcosa di imprecisato. E ancora, la tridimensionalità plastica delle sole mani e testa del protagonista, associata alla profondità spaziale, suggerita dalla linea costiera, è intimamente percepita in contrapposizione all’incombente e generale bidimensionalità delle forme. Infine, l’impiego del principio di complementarietà dei colori di matrice francese, come l’arancione affiancato al blu, che, esaltando le qualità cromatiche degli stessi, rivela una palette cupa, spenta, spesso “insensata”, concorre a infondere le ricercate sensazioni di tristezza, disperazione e turbamento dell’animo umano. In letteratura esistono diversi interessanti approfondimenti concernenti il particolare impiego di colori combinato con le novità stilistiche, che, come abbiamo visto, non è sfuggito neanche al contemporaneo Krohg. Hans Dieter Huber storico dell’arte tedesco, ha analizzato gli effetti della sua pittura sul pubblico ed ha individuato nella composizione diverse situazioni significative: il gialloverde della foschia è ancora ricondotto alla gelosia, mentre l’irrealistico ed insensato “serpeggiante blu-viola” della riva, oltre a stabilire un collegamento tra il malinconico personaggio e la scena del molo, sembra voler “ammaliare e intrappolare” il protagonista. Nel suo studio, inoltre, rileva che la palette adottata, sebbene con toni più spenti e cupi, nelle forme e nella densità cromatica, delimitate da contorni netti, riflette lo spirito del Cloissonisme, appreso a Parigi; infine, il volto del protagonista, ridotto a pochi tratti, che si staglia su un paesaggio, riesce a rendere concretezza visiva alla continuità desolata di un sentimento di vuoto, espresso dalla linea sinuosa della spiaggia e dalle striature di un cielo nuvoloso . Anche la storica dell’arte statunitense, Shelley Wood Cordulack, esperta del maestro, si è concentrata sulla funzione particolare della tavolozza impiegata: l’insolita spiaggia nera è interpretata come un elemento di collegamento emotivo e compositivo tra la figura, anch’essa scura, in primo piano e le sagome torbide sullo sfondo, un escamotage per creare una movimento emotivo tra il quadro e lo spettatore che risulta investito dalla tristezza affiorante dall’opera . L’articolo di Krohg è, anche, l’occasione per sottolineare l’ampio divario tra la “stanca” tradizione pittorica locale, cui egli stesso appartiene, e l’incedere rivoluzionario del maestro che, privo di modelli di riferimento nel panorama artistico internazionale, fa da apripista alle future esperienze delle Avanguardie Storiche. Mentre nella primavera del 1892, mentre l’artista si trova ancora a Nizza, concepisce il suo capolavoro più celebre, che, ispirato a un’esperienza realmente vissuta, in una fresca serata estiva, durante una vacanza a Kristiania, e testimoniata in diversi passi del Diario, viene alla luce solo nel tardo autunno del 1893 l’Urlo. L’invenzione, ritenuta a torto, sintesi di tutta la pittura e la personalità del maestro, è diventata, per il suo potente e travolgente carico emotivo-emozionale, metafora, del dramma di fine secolo, latrice di quell’impossibilità a comunicare, della solitudine, dell’angoscia interiore e del profondo disagio che esplodono ed atterriscono, come un incubo senza fine ogni creatura vivente. Il critico e accademico Achille Bonito Oliva , associa emblematicamente l’opera alla sentenza schopenhaueriana «il mondo stesso è il giudizio Universale», intendendo il dipinto come la manifestazione delle conseguenze e degli effetti immediati delle proprie azioni in questa (o altre) vite . Nessuno è stato in grado di rendere, in una sola immagine, in modo così energico, palpabile ed iconico, l’ansia e l’alienazione moderne, al punto da diventare una delle più celebri tele della storia dell’arte, che ispira fumetti, poster, parodie e pubblicità. L’Urlo raffigura un individuo non-individuo in piena costernazione, per uno stridore diffuso, avvolgente ed insopportabile emesso dall’universo. Al grido di attacco della natura l’uomo, cerca di difendersi coprendosi le orecchie ed emettendo, a sua volta, un contro-urlo disperato, sordo e soffocato che rivela la vulnerabilità del soggetto-umanità, di fronte alle avversità della vita . Nel quadro il maestro sancisce la definitiva rottura dell’utopica armonia primordiale tra la natura e l’uomo, condannato a vivere nell’indifferente ed orrifica solitudine (l’esclusione del protagonista), nel disinteresse insensibile della società (la coppia di amici in lontananza, alla fine del ponte, ignara, inconsapevole o volutamente noncurante del disagio del primo) e nell’incomunicabilità tra pari (il grido muto, silenzioso ed inascoltato contro il disagio causato dalla natura). I due personaggi, sullo sfondo, interpretano la falsità del comportamento della società nel più ampio contesto dei rapporti umani, che, a dispetto della condizione confusionale ed allucinata del protagonista, consunto e bloccato dal dolore, sia metaforicamente e che materialmente continuano freddamente a camminare, nella completa indifferenza per la sua condizione, per cui non lo aiutano né lo aspettano . E allora vediamo che l’Urlo munchiano diventa il grido universale contro il silenzio codardo e pavido dell’intera società contemporanea. Le soluzioni compositive anti-naturalistiche e la tecnica espressiva, fatta di linee e colori particolarmente intensi, rendono, supportano e rivelano il messaggio perseguito dal maestro. L’insidiosa e viscida natura circostante si muove lentamente, ma inesorabilmente, cerca di risucchiare la figura-umanità, la cui sagoma sta già per sparire, inghiottita nelle linee espressive del colore del paesaggio che consuma ogni cosa mutando tutto in un groviglio di densa pittura. L’ostile scenario, originato nella parte inferiore della composizione, è realizzato con pennellate nervose, lunghe e filamentose, alternate a tocchi di colore distorti, sommari, vigorosi, materici e dinamici, ossessivamente ripetuti, con pigmenti diversi, secondo un andamento che traccia e sottolinea la traiettoria del propagarsi delle simboliche onde sonore che devastano la psiche del soggetto. La ridotta, accesa, violenta e stridente palette cromatica contribuisce a rivelare l’anima ed ad intensificare l’emotività del contenuto: le tinte dense e spettrali e gli accostamenti complementari esaltano le qualità coloristiche dell’invenzione che, indifferente alla μίμησις, rivela quello stato di malessere generale legato alla difficoltà di vivere e al profondo dolore panico . La scena è dominata da un volto deformato e sfigurato, ridotto a mero teschio, spogliato da qualsiasi elemento fisiognomico-identitario, irriconoscibile per genere ed età, immerso in un ambiente inconoscibile, riconducibile alle sole fibre di pittura filamentosa, il cui andamento suggerisce il propagarsi dello strillo della natura che atterrisce l’uomo e l’umanità. Ha gli occhi sbarrati ed esterrefatti, la bocca deformata in un grido muto, le mani sulle orecchie, in gesto di difesa, e il corpo, privo di fisicità, che sta per diventare colore e fondersi con il paesaggio cannibale . Il tutto evoca emozioni e sensazioni intime e recondite, restituisce quel cogente senso del dramma in atto (la consapevolezza e presa di coscienza della solitudine assoluta a cui tutti sono destinati) e rivela l’animo agitato del protagonista, le cui forme, ancorché semplificate, ridotte all’essenziale e deformate, pur disfacendosi nell’angoscia profonda del sordo urlo, formalmente rimangono tali. Non c’è astrazione, ma solo uno sfrontato anti-naturalismo, suggerito probabilmente dalla visione di una mummia maya, dal volto scarnificato (Chachapoya mummy, Musee de l’Homme, Parigi), che probabilmente ispira anche l’opera di Paul Gauguin del 1897. Il linguaggio, dunque, abdica al senso mimetico delle cose, ma rimane ancora figurativo. Il quadro, nelle sue diverse versioni, rappresenta ancora una volta un laboratorio di ricerca, uno strumento di studio e perfezionamento in continuum.
I vari esemplari si diversificano per tecnica e per combinazioni cromatico-pittoriche, in particolare quella di Oslo del 1910, dipinto su cartoncino, con una mistura di tempere all’uovo e a pastello e altri materiali delicati e sperimentali sta dando, da tempo, svariati problemi conservativi, che, aggravati dalla consueta pratica della “cura da cavallo”, in cui il maestro, abbiamo detto più volte, crede molto, non consentono, almeno fino ad ora, una regolare esposizione da parte dell’istituzione proprietaria . Di recente, però, un team internazionale coordinato dal nostro CNR di Perugia, in collaborazione con alcune Università straniere, il MunchMuseet e alcuni enti di ricerca e diagnostica, ha pubblicato uno studio su Science Advances in cui si dichiara di aver individuato la soluzione ai noti problemi di scolorimento del quadro: non sarebbe la luce, come si è sempre creduto, il principale fattore di degrado dei pigmenti gialli di cadmio (motivo per cui l’esposizione al pubblico è stata a lungo fortemente contingentata), bensì l’umidità . Grazie ad esami non invasivi effettuati sul quadro , la ricerca è stata in grado di fornire ai conservatori del Museo indicazioni precise e di massima sicurezza per poter esibire in maniera continuativa e in tutta tranquillità il dipinto. Infine analizzando gli scritti e le opere dei due autori finora esaminati è possibile individuare la presenza di punti in comune ma anche delle differenze. Innanzitutto non si può non riconoscere come Kierkegaard e Munch, durante il corso del loro operato, si siano fatti portavoce della figura del singolo, analizzando con grande attenzione la sua soggettività e il suo rapporto con il mondo circostante. Kierkegaard infatti guardava «all’uomo soggettivo, il cui compito principale è comprendere se stesso nell’esistenza» , portando avanti quella che era una verità individuale e provando un forte disinteresse per quella che era la «verità in sé». Avendo dato così tanta importanza al singolo e alla sua individualità, il filosofo danese si mise in aperta lotta contro la folla: la considerava portatrice di falsità: essa spingeva l’uomo all’anonimato annullando così la sua personalità. Kierkegaard criticò tutti coloro che, per fuggire alla solitudine, si rifugiano nella massa, soccombendo a quell’impulso gregario insito nell’uomo e non accettando la solitudine. Questa folla è stata rappresentata in diverse occasioni da Munch: la sua è una massa di personaggi anonimi che vagano come mossi dalla stessa forza e tra cui l’unico personaggio che spicca veramente, osservabile ne Sera sul viale Karl Johan, è l’uomo di spalle che si allontana da questo gregge umano. Come Kierkegaard, anche Munch mette in primo piano la soggettività del singolo, probabilmente influenzato dalle letture del filosofo danese: la sua è un’analisi delle ansie che l’uomo prova nei confronti di un mondo che è in cambiamento, di un mondo che adotta linguaggi sconosciuti e che gli chiede di indossare della maschere anonime che lo rendono uguale a tutti gli altri. Entrambi gli autori riconoscono come il singolo si ritrovi a condurre un’esistenza in una «società che non lo riconosce, che tenta di far ingiuria alla sua unicità, imponendogli schemi di comportamento e modi impersonali di vita» , una società che lo costringe a rinnegare la sua particolare essenza optando per una personalità insapore, uguale a tutte le altre attorno a lui. Entrambi gli autori hanno dimostrato di aver avuto a cuore il tema della solitudine e dell’isolamento, raccontandolo con personaggi letterari o attraverso immagini evocative, ma allo stesso tempo vivendolo in quella che era la loro vita privata. Se si osservano la vita e i rapporti interpersonali di entrambi, o la lo loro vita privata. Se si osservano la vita e i rapporti interpersonali di entrambi, o la loro mancanza, si potrebbe pensare che essi fuggirono quella che Kierkegaard chiama “vita etica”. Si tratta di un’esistenza basata su stabilità e responsabilità, sulla scelta da parte dell’individuo di intraprendere una determinata carriera o sulla scelta di dichiarare fedeltà ad una sola compagna: l’uomo etico sceglie solo una delle molteplici possibilità che la vita gli offre. La linea che separa l’esistenza estetica da quella etica è molto marcata: da un lato troviamo il Don Giovanni che, per quanto sia continuamente circondato da donne, è destinato alla solitudine, dall’altro troviamo la figura del marito che coscientemente sceglie una sola donna con cui condividere la sua vita e alla quale rimanere fedele. La vita dell’uomo etico si dimostra così come l’antitesi di una vita di solitudine, una sorta di celebrazione della condivisione con l’altro.
Andando ad osservare quindi la vita privata dei due autori, notiamo come nessuno dei due si fosse mai sposato, anzi, di come avessero fuggito il rapporto con la donna. Emblematici sono il fidanzamento tra Kierkegaard e Regine Olsen e la relazione tra Munch e Tulla Larsen: in entrambi i casi i due autori fuggirono la relazione con la donna perché convinti che questa sarebbe andata ad intralciare i loro studi o il loro lavoro artistico. Kierkegaard non si riteneva adatto alla vita da marito e fece di tutto per allontanare la giovane Regine che, innamorata di lui, continuava a volergli rimanere accanto; Munch, costantemente assillato dalle sue ossessioni e timori, scappò continuamente dalla relazione con Tulla. Uno dei suoi timori principali, a parte quello di vedere il suo lavoro intralciato dalla relazione con la donna, era quello di mettere al mondo una prole malata: «Si era abituato all’idea che non si sarebbe sposato. Non ne aveva il diritto avrebbe dovuto mettere al mondo una famiglia malata avrebbe dovuto far sì che la sua giovinezza si ripetesse ancora?» . Per quanto entrambe le relazioni siano state interrotte per motivazioni piuttosto simili, piuttosto particolare è il caso di Munch che dimostra un rapporto profondamente problematico con il mondo femminile: le donne dei suoi dipinti sono spesso ritratte come dei vampiri che con i loro lunghi capelli attanagliano l’uomo e lo prosciugano della sua anima. Queste donne-vampiro vennero realizzate a immagine e somiglianza di Tulla Larsen, rappresentazione forse condizionata anche dalla brusca rottura della loro relazione che venne sancita da un violento litigio che raggiunse l’apice con uno sparo che ferì la mano dell’artista. In entrambi i casi osserviamo comunque come la vita del marito fosse profondamente incompatibile con l’esistenza del filosofo e dell’artista e per quanto i due amassero le rispettive compagne, preferirono comunque fuggire la relazione, continuando invece a vivere una vita di solitudine. Per quanto entrambi abbiano trattato ampiamente della solitudine, diversi sono i loro approcci nei confronti di questo tema. Kierkegaard riconosce due tipi di solitudini fondamentalmente diverse, quella estetica e quella religiosa, ma che sono entrambe scatenate da una scelta dell’uomo: la scelta di non legarsi a nessuno e continuare a vagare come un’anima senza meta, la scelta di non mostrarsi veramente a nessuno e di indossare maschere fittizie o la scelta di isolarsi dal resto del mondo per intraprendere l’incerto cammino verso l’Assoluto. Se entrambe le solitudini nascono dalle volontà dell’uomo, solo quella religiosa viene riconosciuta come positiva dal filosofo danese. Si tratta di una vita di isolamento grazie al quale il singolo riuscirà ad abbandonare le angosce e i tormenti di una vita estetica o etica, una solitudine che lo condurrà nelle braccia dell’Assoluto: quella religiosa diventa così una solitudine necessaria. Ben diverso è invece il rapporto in cui si pone Munch nei confronti di questa condizione dell’uomo. Quella dipinta dal pittore è una solitudine imposta all’uomo da forze esterne, che siano queste l’immensità della natura, la morte o il veloce progresso della modernità che fa sparire tutti i punti di riferimento. È una solitudine causata dalla malattia e dalla precarietà della vita dell’uomo, una solitudine che ci blocca e ci fa osservare il mondo da dietro una finestra; non gli viene riconosciuto alcun grado di positività, nessuna via di fuga da angosce e tormenti. La solitudine religiosa benefica riconosciuta da Kierkegaard, nei dipinti di Munch prende le forme di un’ombra oscura che riempie di tenebre lo sguardo dell’uomo e che lo costringe a terra.
La Mostra è Suddivisa in Sette Sezioni:
Prima sezione – Allenare l’occhio
Munch riteneva che la mente individuale, le visioni interiori e il recupero cosciente dei ricordi dessero forma alla percezione diretta della realtà, fino a sostituirla: “Non dipingo la natura: la uso come ispirazione, mi servo dal ricco piatto che offre. Non dipingo cosa vedo, ma cosa ho visto.” La formazione artistica di carattere accademico che riceve in gioventù si trasforma presto in tecniche inventive capaci di esprimere i ricordi e le emozioni che sfuggono all’occhio umano. Dopo una breve parentesi quale studente di ingegneria e poi di disegno accademico nel 1880, l’artista viene rapidamente catturato dalla sfera d’influenza di Christian Krohg, autore e pittore dai toni politici e radicali, nonché di un gruppo artistico e letterario (il Kristiania Bohéme) che, secondo lo stesso Munch, contribuisce a “far maturare” le sue idee in materia di predominanza dell’esperienza interiore sulla realtà materiale. In mostra opere del periodo come Autoritratto (1881-82), Malinconia (1900-1901) e Il circolo bohémien di Kristiania (1907). I viaggi in Francia della sua gioventù fanno da sfondo alle sue incursioni nelle tecniche dell’Impressionismo, del Neoimpressionismo e del Sintetismo. Durante gli anni ‘90 del XIX secolo vive a Berlino, dove entra a far parte di una stretta comunità di scrittori, scienziati e libertari che studiano la teoria psicologica contemporanea e le espressioni dell’inconscio. Ad esempio, i pochi anni che separarono i ritratti della sorella Laura (il primo nel 1882, Laura Munch, presente in mostra; il secondo nel 1900) illustrano bene il viaggio che porta il pittore dall’universo del visto a quello del non visto. Munch presta una particolare attenzione alle immagini, ai suoni, ai colori e persino alle vibrazioni percepibili nell’aria; è estremamente consapevole dei modi in cui le emozioni filtrano le sue esperienze del mondo, riflettendo la ricerca di Hermann von Helmholz e del filosofo William James. Nei suoi scritti annota più e più volte come la sua vista influenzi la sua esperienza sensoriale, incluso i suoni che sente e gli stati emotivi che prova, producendo capolavori come L’urlo.
Seconda sezione – Fantasmi
“La malattia fu un fattore costante durante tutta la mia infanzia e la mia giovinezza. La tubercolosi trasformò il mio fazzoletto bianco in un vittorioso stendardo rosso sangue. I membri della mia cara famiglia morirono tutti, uno dopo l’altro” Dagli anni ’80 del XIX secolo, a partire dalla La bambina malata e opere di Munch iniziano a raccontare i suoi ricordi manipolati attraverso la pittura e la scrittura, un’attitudine che durerà per tutto il resto della sua vita. Durante l’infanzia sperimenta perdite molto importanti: la madre muore di tubercolosi quando Edvard ha appena cinque anni, mentre sua sorella maggiore Sophie, con cui condivide un rapporto speciale, è portata via dalla stessa malattia un mese prima che l’artista compia tredici anni. Il decesso del padre sopraggiunge, poi, mentre il pittore si trova in Francia, e il fratello Peter Andreas muore ad appena trent’anni, negli anni ‘90 del XIX secolo. Munch filtra il lutto della sua famiglia in alcuni dei suoi motif più toccanti. Se le raffigurazioni sentimentali della malattia erano popolari nei paesi nordici, le immagini di Munch sono, di contro, cariche dell’agonia che si prova nel guardare qualcuno morire, e della lotta con la morte che immagina i malati debbano affrontare. Le sue rappresentazioni di allucinazioni, ombre allungate dietro alle figure e rivoli di pittura che evocano l’immagine di corpi che si dissolvono, vogliono suggerire il modo in cui i pazienti fanno esperienza del mondo. Nei suoi scritti, Munch dichiara esplicitamente che i ricordi sono strumentali nel suo lavoro: l’atto di richiamare le proprie memorie gli consente di liberarsi dei dettagli superflui e identificare i momenti più significativi e importanti del suo passato: quasi una caccia ai fantasmi, per esempio in occasione della realizzazione della scenografia per la rappresentazione berlinese della sceneggiatura di Henrik Ibsen intitolata, appunto, Spettri. In questa sezione sono presenti opere celeberrime, tra le altre, come Sera. Malinconia (1891), Disperazione (1894) L’urlo (1895), Lotta contro la morte (1915) e La morte nella stanza della malata (1893).
Terza sezione – Quando i corpi si incontrano e si separano
Nel 1890 Munch scrive il “Manifesto di Saint Cloud”, un testo poetico che si ritiene abbia orientato le sue scelte artistiche: “Un braccio forte e nudo; un collo possente e abbronzato; una giovane donna che reclina il capo sulle curve del seno. Chiude gli occhi ed ascolta con labbra aperte e tremanti le parole che lui sussurra nei suoi capelli lunghi e sinuosi. Vorrei dar forma alla scena come vi assisto ora, ma avvolta in una foschia azzurra. Queste due persone in tale momento in cui non sono sé stesse, ma solo uno delle migliaia di anelli sessuali che concatenano ciascuna generazione all’altra. Le persone dovrebbero comprenderne la santità, la grandiosità, e togliersi il cappello come se stessero entrando in chiesa. Ne realizzerei diversi, di dipinti simili. Non sarebbero più ambienti, o uomini che leggono, o donne che lavorano a maglia a essere dipinti, ma persone in carne e ossa, che respirano e sentono, soffrono e amano…” In un’epoca di promiscuità tanto pubblica quanto privata, la determinazione di Munch a rendere visibile quella che lui definisce la “grandiosità della sessualità” è avanguardistica e controversa. Nonostante la misoginia di alcune sue immagini e la frequenza con cui rappresenta il rapporto tra uomini e donne come una battaglia tra i sessi, egli esprime empatia nei confronti di tutte le persone che, indipendentemente dal genere, vengono irretite dalla seduzione e rovinate dalla dissoluzione dell’amore. Negli anni ‘90 del XIX secolo Munch comincia a organizzare le sue immagini di desiderio erotico, risveglio sessuale e desolazione in una serie chiamata “Amore” che sviluppa nel corso dei decenni successivi e trasforma nella serie intitolata “Il Fregio della vita”, che per lui simboleggia un ciclo essenziale della vita umana. In mostra sono presenti opere come Bacio vicino alla finestra (1891), Coppie che si baciano nel parco (Fregio di Linde) del 1904 e Madonna (1895).
Quarta sezione – Munch in Italia
Un aspetto poco conosciuto del lavoro di Munch è il suo debito verso l’Italia. Il suo primo viaggio nella Penisola risale al 1899, assieme alla sua amata Tulla Larsen, e comincia subito con il piede sbagliato: “Sarebbe dovuto andare a Parigi”, scrive l’artista utilizzando la terza persona, “Ma la sua salute non glielo permise, e forse l’Italia gli avrebbe giovato, quindi si diressero insieme a Firenze. Malattia, alcol, disastri: questo fu il viaggio a Firenze.” Dopo la partenza della Larsen, però, Munch si dirige a Roma, dove si confronta profondamente con le tradizioni italiane. In merito a ciò le scrive: “Al momento mi trovo tra Firenze e Milano. Ed è con emozioni contrastanti che… lascio una fase in Italia e una nuova grande fase a Nord.” Questa nuova fase, in parte ispirata dall’arte di Raffaello, include l’elaborazione del suo Fregio della vita in un allestimento architettonico narrativo. Anche i dipinti monumentali successivi devono un tributo al Rinascimento italiano: “Penso alla Cappella Sistina… Trovo che sia la stanza più bella al mondo.” Munch torna in Italia nel 1922 (“più gloriosa che mai”) e trascorre un giorno a esplorare la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Nel 1927 passa un mese a Roma e, in occasione di tale viaggio, si reca in pellegrinaggio al Cimitero Acattolico per visitare la tomba dello zio, Peter Andreas Munch, lo storico più famoso di tutta la Norvegia. P. A. Munch, morto a Roma lo stesso anno della nascita di Edvard, è un accademico di tale rilievo da rientrare nel gruppo dei primissimi studiosi non cattolici a cui è consentito l’accesso agli archivi vaticani. Munch cerca inoltre ispirazione tra i tesori di Roma: “Dato che sto lavorando con i grandi formati, per me è fondamentale poter ammirare gli affreschi di Michelangelo e Raffaello”, annota. In questa sezione La tomba di P.A. Munch a Roma (1927) che ritrae uno scorcio del cimitero acattolico romano dove è sepolto lo zio (storico norvegese considerato il fondatore della scuola di storia norvegese) e Ponte di Rialto, Venezia (1926).
Quinta sezione – L’universo invisibile
Un collega di Munch ricorda di avergli sentito affermare: “La terra è un gigantesco atomo vivente…Ha pensieri e una volontà; le nuvole sono il suo respiro, i temporali i suoi sbuffi profondi, la lava rovente il suo sangue brillante. Perché, allora, non dovrebbe anche il Sole avere una volontà, grazie a cui irradia la luce di cui è ricco in tutto lo spazio? Tutto ha vita e volontà e movimento, le rocce e i cristalli quanto i pianeti.” Per Munch la Terra è un elemento dotato di coscienza e respiro. Come molti altri intellettuali del suo tempo, egli segue il dibattito in corso in merito al rapporto tra scienza, tecnologia, religione e misticismo. È attratto dalla dottrina del monismo, secondo la quale la mente e la materia, le forze invisibili e il mondo materiale convergono. Uno dei teorici più influenti di questo sistema di pensiero è Ernst Haeckel, scienziato tedesco specializzato in anatomia comparata e uno dei primi promotori in Europa del Darwinismo. Secondo il monismo una forza permea l’universo e anima i rapporti evolutivi che correlano gli esseri viventi e la materia inanimata. La cosmologia personale di Munch è modellata sulla base dell’idea che l’ambiente fisico e i corpi delle creature agiscano gli uni sugli altri, permettendo alle energie invisibili (come le radiazioni solari, l’elettromagnetismo, la telepatia, la crescita cellulare) di interagire con il mondo visibile: “Oggi ho sentito una conferenza alla radio sulla materia e le onde elettromagnetiche della luce. Il docente ha presentato le ultime conclusioni: in poche parole, la luce è composta da onde e, pertanto, anch’essa è materia. Questo è esattamente quello che avevo scritto nel mio diario venti o trenta anni fa: avevo scritto che tutto si muove e che il fuoco della vita può essere trovato persino nella pietra.” In mostra Uomini che fanno il bagno (1913-1915), Onde (1908) e Il falciatore (1917).
Sesta sezione – Di fronte allo specchio (Autoritratto)
Munch è stato un prolifico creatore di autoritratti, proprio come Rembrandt e Picasso. Questo tipo di soggetto offre al pittore il modo di esplorare l’espressione, la postura, i piani di luce e ombra e altre caratteristiche del soggetto umano grazie ad un modello sempre disponibile e a basso costo: sé stesso. Gli autoritratti possono anche essere un veicolo di auto-invenzione ed espressione dell’identità artistica, una dimensione che Munch esplora servendosi di una teatralità eccezionale. L’artista posa sempre con grande originalità davanti allo specchio, una sorte di oggetto di scena che gli permette di assumere il ruolo di diversi personaggi: la litografia del 1895 paragona l’artista ad uno spettro simbolista, come se stesse osservando il mondo da una lapide, con la testa immersa nel vuoto, incorniciata da un’iscrizione e da un braccio scheletrico. Nel 1903 il pittore inserisce il suo corpo nudo tra le fiamme dell’Inferno. Espone molti suoi autoritratti alternandoli con altri suoi temi che sceglie, di volta in volta, per condividere il suo stato psicologico. Al contempo, tali immagini, per quanto fittizie, conferiscono autenticità al resto delle sue opere. Invecchiando Munch tiene progressivamente traccia degli effetti causati dall’impietoso passare del tempo: il suo Il viandante notturno (1923-24) raffigura l’artista che sbircia da un lato della composizione, come una vittima dell’insonnia che vaga tra le stanze della propria casa. A settant’anni, Munch si rappresenta come una figura instabile ne Autoritratto tra il letto e l’orologio (1940-1943) con le sue mani prolifiche che penzolano inerti ai lati del corpo. In tal senso lo specchio è uno strumento molto peculiare, suo complice durante i tentativi di auto-invenzione.
Settima sezione – L’eredità di Munch
In tutta la sua carriera Munch è stato un grande sperimentatore, che ha saputo intrecciare numerose forme di creatività: dalla pittura classica al cinema, dall’incisione alla fotografia, la sua ricerca ha mantenuto una straordinaria coerenza ed un potere evocativo ancora oggi estremamente contemporaneo. In mostra sono raccolti alcuni suoi capolavori che permettono di rileggere attraverso precise scelte compositive il suo immaginario disturbante, inquieto, eppure seducente. sono paesaggi accomunati dalla sua personale e innovativa costruzione dello spazio, risolta attraverso la progettazione di una prospettiva irregolare, definita spesso da un elemento architettonico che proietta il nostro sguardo con decisione all’interno del quadro. Accade con la balaustra nel dipinto Donna sui gradini della veranda (1942), con il viale nel Muro di casa al chiaro di luna (1922-1924) o con la staccionata ne Le ragazze sul ponte (1927). Sono elementi che invitano ad entrare nella scena e partecipare con maggiore coinvolgimento all’emozione che la pervade. Dopo aver studiato con attenzione la grande tradizione rinascimentale nei suoi viaggi in Italia e aver assorbito le novità dirompenti del Postimpressionismo di Cézanne, Gauguin e Van Gogh, dopo aver interagito con la generazione emergente degli espressionisti, Munch riesce ad inaugurare un linguaggio personale, in cui applicare con una certa libertà controllata regole geometriche inedite, dove il colore, steso in campiture ampie e decise, assume un potere straordinario. La sua ricerca, ancora oggi in parte da spiegare, costituisce la premessa per la nascita delle Avanguardie che nel XX Secolo porteranno gli artisti a cercare soluzioni sempre più radicali, spesso non apprezzate dal pubblico nell’immediato, ma destinate a definire il nostro immaginario e diventare gli strumenti migliori per raccontare le nostre emozioni più profonde.
Palazzo Reale di Milano
Munch. Il Grido Interiore
dal 14 Settembre 2024 al 26 Gennaio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Lunedì Chiuso