Una delle più grandi artiste tedesche del Novecento è stata
tra la protagoniste della Body Art
Tantissime volte ho recensito Rebecca Horn posso affermare che l’arte nasce dall’individualità per poi offrirsi al mondo esterno: essa porta in una superficie visibile idee, capacità, messaggi dell’interiorità. È una sorta di specchio dell’intera società, intesa a livello generale come una collettività di soggetti regolata da dei principi comuni e da dei rapporti interpersonali di varia natura, e come tale essa riflette sempre il contesto in cui si trova. Tuttavia è soltanto da un certo momento della storia che ha iniziato a riflettere come un individuo percepisce il contesto attorno a lui, ovvero a manifestare la visione originale del mondo propria dell’artista. Nel passato il concetto di arte era collegato all’abilità di creare qualcosa materialmente in modo ineccepibile (techne in greco, ars in latino, erano entrambi termini legati ad un’idea di “fatto a regola d’arte”, sulla base della conoscenza di principi). Se prima saper fare era la regola, con la modernità, dopo “l’invenzione” del collage, essa si trasforma in voler fare. Questo slittamento è inevitabile, dal momento che nel passaggio da un momento storico ad un altro vengono introdotte delle novità che comportano modifiche nel modo di vivere, di agire e di pensare di ogni individuo. Un importante cambiamento avvenuto proprio alla fine dell’Ottocento, con l’avvento della Rivoluzione Industriale, è la nascita di nuove tecniche, come la fotografia e il cinema. Queste trasformano l’opera d’arte in un oggetto infinitamente riproducibile, come sostiene Walter Benjamin nel suo saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” del 1935. Nel momento in cui non si riesce più a distinguere tra l’originale e la sua riproduzione (è il caso di una pellicola cinematografica: tutte le copie sono identiche), avviene una decadenza dell’aura (l’hic et nunc, ciò che costituisce l’unicità e autenticità) dell’opera. Questa decadenza dell’aura si fonda su due circostanze: il desiderio delle masse di rendere le cose spazialmente e umanamente più vicine, e il superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Lo sviluppo di nuove tecniche porta dunque a delle modifiche nei mezzi: avviene uno slittamento dalla pittura alla fotografia, e dal teatro al cinema. Questi cambiamenti inducono ad una trasformazione del concetto di arte: nell’istante in cui viene meno il criterio dell’autenticità (decadenza dell’aura) tradizionalmente associato all’arte, conseguentemente muta anche la sua funzione. Riprendendo la critica Rosalind Krauss, ed estendendo la sua affermazione dalla scultura all’arte in generale: «And one of the things we know is that it is a historically bounded category and not a universal one». Il Novecento può essere considerato come il secolo di caduta di ogni certezza che l’individuo possedeva sulla religione, la politica, la scienza. Queste certezze hanno iniziato a frantumarsi già dall’Ottocento, per poi crollare definitivamente nel corso del Novecento, rendendo il contesto dove l’uomo viveva da assoluto a relativo. In ambito scientifico nel 1915 Albert Einstein propone la Teoria della relatività, che rivoluziona i concetti di tempo e spazio. Dalla Teoria emerge che questi non sono concetti assoluti e immutabili, ma sono relativi alla percezione del singolo individuo. Questo, prima ancora di avere una conferma scientifica, era già stato avvertito dalla mente delle persone. Infatti l’invenzione di nuovi mezzi di trasporto, come il treno (la prima ferrovia pubblica fu inaugurata in Inghilterra nel 1825) e l’automobile (frutto di diverse scoperte e adattamenti che si ebbero dalla seconda metà dell’Ottocento in poi), rivoluzionano completamente il modo di percepire l’ambiente circostante: le distanze si accorciano drasticamente, così come i tempi di percorrenza da un punto ad un altro.
Lo spazio si riduce grazie anche ad un’altra invenzione: attraverso il telefono (il cui brevetto viene depositato da Alexander Graham Bell nel 1876) due persone che si trovano fisicamente in due luoghi diversi possono comunicare come se fossero uno di fronte all’altro, eliminando virtualmente le distanze. È il 1882 quando ne “La Gaia Scienza” Nietzsche propone il suo aforisma più celebre «Dio è morto», intendendo la morte di tutti i valori morali e scardinando in tal modo non solo le credenze legate strettamente alla religione, ma anche i principi su cui si regolavano gli uomini nella società . Voler teorizzare determinate forme artistiche, al fine di collocarle in specifici contesti culturali, potrebbe apparire come un tradimento dal momento che l’oggetto di studio è un tipo di arte che si caratterizza per essere aperta a qualsiasi contaminazione, un’arte dinamica, che rifugge l’iconicità, ed è principalmente finalizzata a far vivere esperienze e nuove pratiche comportamentali e sperimentali. Le conseguenze di questo sgretolarsi delle fondamenta si riflette anche in letteratura: Pirandello lo declina in una vana ricerca della verità. Essa non è assoluta, ma relativa, ed è impossibile da conoscere totalmente, poiché mascherata da convenzioni sociali, esteriorità e apparenza . Accade dunque che il precedente credo positivista, con la sua fiducia nella scienza, nella ragione e nel progresso, venga smontato mattone dopo mattone fino a ritrovarsi, agli inizi del Novecento, sostituito definitivamente da una crisi di valori e da uno smarrimento collettivo. Questa crisi viene ulteriormente accentuata dalle due Guerre Mondiali, dall’orrore dell’Olocausto, dalle incalcolabili morti causate. Dov’era Dio in tutto ciò? Dov’erano i tanto elogiati “valori morali”? A cosa sono serviti la scienza, il progresso? Che ruolo può avere l’arte dopo tutto questo orrore? Domande che nascevano spontanee, e anche quando non formalmente formulate echeggiavano tra le persone. Tracey Warr ne Il corpo dell’artista spiega come «morte e distruzione su così vasta scala riportarono al centro dell’attenzione il corpo in tutta la sua materialità, scardinando credenze e valori fino ad allora ritenuti saldissimi» . Oskar Schlemmer, artista viennese, scriveva dal fronte nel 1918: «è nato un nuovo strumento artistico molto più diretto: il corpo umano» . L’uscita del corpo dalla tela, prima solo rappresentato su di essa, inizia ad avvenire in maniera più concreta con Jackson Pollock, la cui tecnica, definita dripping , nasce nel 1947 e impone una riconsiderazione del rapporto tra corpo e opera. Egli introduce novità rivoluzionarie: sposta la tela dal cavalletto a terra, e soprattutto crea l’opera camminando attorno ad essa e lasciando sgocciolare il colore da pennelli o direttamente dai contenitori. Ciò che muta rispetto alle creazioni artistiche del passato è la rilevanza assunta non più solamente dal prodotto finale, ma anche dall’azione generatrice, identificabile nel movimento del corpo attorno alla tela. Quest’azione viene avvalorata e diffusa dalle fotografie pubblicate sulla rivista Life nel 1949 che documentavano il procedimento usato da Pollock, e dal video esposto al MoMA di New York che mostrava l’artista intento nel creare l’opera. Il corpo salta fuori dalla tela con un balzo, ci gira attorno, e poi la attraversa violentemente: è il 1955, e Saburo Murakami si esibisce nella performance At One Moment Opening Six Holes, perforando di corsa col proprio corpo una fila di schermi di carta fissati ad un’intelaiatura di legno e posti uno dopo l’altro. Murakami non è l’unico artista del Gruppo Gutai che si è avvalso del corpo per la sua arte: Kazuo Shiraga, nell’azione Challenging Mud del 1955, si rotola nel fango in una lotta contro la materia. Il corpo, una volta riappropriatisi della propria autonomia come mezzo espressivo, può essere adoperato anche come pennello per dipingere: questo è l’uso che ne fa Yves Klein. La prima volta che egli si avvale di un corpo umano come pennello è nel 1958, dove a casa di un amico, davanti ad un pubblico, ordina ad una modella nuda di ricoprirsi di blu I.K.B. e di trascinarsi su un grande foglio bianco appoggiato sul pavimento, così da lasciare la sua impronta. Dal 1960 queste creazioni prenderanno il nome di Antropometrie , e verranno realizzate non solo con impronte dei corpi di modelle, ma anche dello stesso artista. Il ruolo assunto nella storia dell’arte dalla modella è da sempre fondamentale: poteva essere rappresentata in modo verosimile oppure idealizzata secondo lo sguardo del pittore, in entrambi i casi si trattava di un tramite tra l’artista e la realtà circostante.
Piero Manzoni decide di nobilitare questo corpo, impiegato solitamente come mero strumento utile alla riproduzione (fedele o meno) della realtà, trasformandolo in opera d’arte. Per ottenere questo egli firma le modelle come per i ready-made di Duchamp, è sufficiente la firma dell’artista per trasformare un oggetto o una persona in opera d’arte. Manzoni compirà quest’operazione anche con personaggi famosi: tra i tanti, firmerà Umberto Eco. Questi corpi si tramutano così in sculture viventi che scendono dal piedistallo e camminano sul terreno della quotidianità mantenendo tuttavia un’aura speciale: vita e arte confluiscono in una sola opera, e, andando contro la possibilità di riproducibilità tecnica temuta da Benjamin, Manzoni investe questi corpi di una nuova aura conformata ai dettami della società contemporanea. È grazie a queste premesse se la funzione del corpo viene rivalutata, iniziando ad essere considerato «non più come mero “contenuto” dell’opera, ma come vero e proprio strumento, alla stregua di una tela, di un pennello, di una cornice o di una superfice». Inoltre, gli artisti ora si possono sentire liberi «di presentare sé stessi in carne ed ossa, esasperando il potere sciamanico della fisicità o usandola come via per rendere pubblico un disagio» . Voler teorizzare determinate forme artistiche, al fine di collocarle in specifici contesti culturali, potrebbe apparire come un tradimento dal momento che l’oggetto di studio è un tipo di arte che si caratterizza per essere aperta a qualsiasi contaminazione, un’arte dinamica, che rifugge l’iconicità, ed è principalmente finalizzata a far vivere esperienze e nuove pratiche comportamentali e sperimentali. Quando si parla di arti performative infatti si allude a un ampio ambito di attività che spaziano dalla danza all’opera, dal teatro al mimo, dal circo alla musica. In termini generali si può affermare che si tratta di forme espressive in cui l’artista agisce e si esprime usando il proprio corpo; l’opera consisterà quindi nell’esecuzione delle azioni da parte dell’artista rivolte ad un pubblico pronto a reagire, un pubblico che dovrà ricoprire a sua volta un ruolo non più contemplativo ma attivo. La performance, caratterizzata dall’uso del corpo, si differenzia quindi dalle altre forme d’arte dove gli artisti creano oggetti materiali o compongono testi scritti. La Performance Art, nell’accezione solitamente utilizzata, inizia ad essere identificata a partire dagli anni Settanta per indicare un ambito più ristretto di pratiche performative adottate da artisti che provengono prevalentemente dal campo delle arti visuali. Si tratta di modalità espressive che trovano nelle avanguardie storiche del primo Novecento le loro fondamenta; quelle avanguardie che hanno contribuito a infrangere i legami con la tradizione contribuendo a ridefinire la figura dell’artista, del fruitore il concetto stesso di opera d’arte. Il termine Performance Art si riferisce quindi a una forma d’arte che ha avuto origine con le avanguardie storiche europee ma che successivamente si è sviluppata negli Stati Uniti dove ha assunto, tra gli anni cinquanta e sessanta, un carattere più definito attraverso il lavoro di artisti come Allan Kaprow che conia il termine Happening. Per capire meglio che cosa si intende con Performance Art può essere utile spostare l’attenzione sui meccanismi che si generano in fase di una valutazione critica di questo fenomeno performativo. Quando l’oggetto in questione è una performance i criteri estetici convenzionali, abitualmente adottati per valutare un’opera d’arte tradizionale, si rivelano del tutto inadeguati in quanto le performance tendono a superare i confini tra i generi rendendo così dubbia l’appartenenza di una data azione a una disciplina piuttosto che ad un’altra. Per una valutazione completa si sente la necessità di integrare questa materia rivolgendosi a categorie analitiche spesso prese in prestito dalle discipline che studiano il comportamento e l’azione sociale. I motivi sono da ricercare nei fondamenti che caratterizzano questa espressione artistica, la quale, similmente all’atto teatrale, si presenta come un’azione effimera, intangibile, e che presuppone come elemento determinante nella creazione del suo significato la relazione con il pubblico. Per molti anni si è pensato alla Performance Art come ad una forma artistica lontana dal mondo teatrale nonostante in ambito teatrale si fossero già da tempo sperimentati linguaggi nuovi e si fossero abbattute certe definizioni statiche, logore e dettate da quel teatro che ormai abbiamo solo nella nostra mente e che definiamo teatro all’italiana.
È difficile stabilire una data esatta di nascita della Body Art, tuttavia indicativamente essa si sviluppa a livello internazionale, sia in Europa che negli Stai Uniti, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Un primo tentativo di una sua ‘formalizzazione’ si può ritrovare nella rivista Avalanche: qui il critico Willoughby Sharp riporta una definizione della corrente intesa come un’arte in cui il corpo umano diviene «il soggetto e l’oggetto dell’opera» . Il primo numero della rivista, pubblicato nell’autunno del 1970, presentava Joseph Beuys in copertina ed era in gran parte dedicato alla Land Art (chiamata in questo caso Earth Art), con interviste e approfondimenti sul lavoro di Carl Andre, Jan Dibbets, Michael Heizer, Robert Smithson e Dennis Oppenheim. In un articolo intitolato “Body works” Sharp analizza l’attività di artisti che “utilizzano il proprio corpo come materiale scultoreo”, tentando di analizzare una tendenza che si stava via via affermando sulla scena artistica. Inoltre, tra i diversi contenuti della pubblicazione vi erano delle discussioni con Denis Oppenheim, artista che si può considerare un “ponte” tra la Land Art e la Body Art. L’indagine di quattro pagine tentava anche di proporre una sorta di classificazione delle varie modalità dell’uso del corpo in arte: “Body As Tool” (Barry Le Va), “The Body As Place” Vito Acconci, Dennis Oppenheim, “The Body As Backdrop” e Bruce Nauman, William Wegman, “The Body As Object”, e “The Body in Normal Circumstances” . Il numero successivo del 1971 portava il titolo anticipato dall’articolo della precedente pubblicazione: “Body Works”. «Non sono solo una creatrice di immagini, ma studio il valore della carne come immagine e come materiale con cui ho scelto di lavorare» . Con queste parole Schneemann affermava la propria volontà di usare il corpo come mezzo, e al tempo stesso supporto, per la propria creazione artistica. La rivendicazione del diritto ad usare il proprio corpo in modo libero e autonomo va di pari in passo con la lotta per la difesa dei diritti delle donne: sono gli anni del femminismo, e, poiché come si è già visto l’arte non è oggettiva ma assorbe gli stimoli generati dalla società del proprio tempo, essere artista donna in quel periodo storico significava spesso diventare portavoce di questo desiderio di emancipazione femminile. Ne è un chiaro esempio la performance di Schneemann Interior Scroll del 1975, avvenuta nell’East Hampton, a New York, e successivamente al Telluride Film Festival in Colorado. L’artista, in piedi su un tavolo e completamente nuda, recitò un testo dal titolo “Cézanne era un gran pittore” trascritto su un rotolo di carta che tirava fuori progressivamente dall’interno della sua vagina. Il testo era ironico e femminista, e alludeva alla situazione della donna nell’arte, spesso poco considerata rispetto ai colleghi uomini. Un’azione che poteva risultare eccessiva e scioccante, e per molti di difficile comprensione. In realtà già nel 1866 l’organo femminile era stato protagonista di un’opera, rappresentato con estremo realismo da Gustave Courbet nel quadro L’Origine del mondo. Da sempre emblema della procreazione e della maternità, nel caso di Interior Scroll la vagina è mostrata non solo come fonte di vita umana, ma anche di creazione artistica. La donna artista degli anni Settanta rivendica il proprio diritto di fare arte, al pari dei propri colleghi uomini, e lo fa in modo chiaro e diretto, talvolta con gesti di forte impatto, ma inevitabilmente necessari. Un messaggio simile era stato anticipato dall’azione di Shigeko Kubota, la quale dieci anni prima, nel 1965, dipinse su un supporto orizzontale posto a terra, accovacciata, con un pennello inserito nella vagina (Vagina Painting, New York). La performance di Kubota appare sicuramente come una sorta di presa in giro della pratica artistica adoperata da Pollock, il quale dipingeva dall’alto con la tela appoggiata sul pavimento. Egli fu sempre considerato come una figura eroica, l’emblema del “macho” americano e Kubota scelse proprio una tecnica che ricordava quella del dripping, ma si distingueva per l’uso di un mezzo atipico di creazione dell’opera: il proprio genitale femminile. Quest’ultimo non diventa solo il simbolo dell’essere donna, ma il gesto dell’artista conduce la mente dello spettatore al ciclo mestruale, il quale è solitamente etichettato dalla società come un momento femminile da nascondere alla vista, e di cui le donne devono provare un certo imbarazzo. Kubota si rifà anche alle modelle di Klein usate come pennello per dipingere: in quest’ultimo caso, però, il corpo della donna è un mero oggetto funzionale alla creazione dell’opera dell’artista, mentre Kubota si riappropria del proprio corpo in modo autonomo e sfacciato. Valie Export nel 1969 in Genital Panic si presenta seduta su una sedia a gambe aperte, completamente vestita ad eccezione dell’unico punto che “dovrebbe” essere nascosto: la vagina. Per chi e perché “dovrebbe” essere nascosto? Cercando una risposta tra gli studi antropologici, probabilmente quando l’uomo ha iniziato ad assumere una posizione eretta, e a trasformarsi da quadrupede a bipede, ha sentito il bisogno di coprire i propri genitali. Export in tal modo mette in discussione questo tabù, peraltro un’intenzione diffusa in quegli anni. Non si deve dimenticare il periodo storico-culturale in cui viene fatta questa performance: è l’anno del Festival di Woodstock, svoltosi a Bethel, una piccola cittadina dello stato di New York, che voleva sancire il movimento hippie diffusosi dagli anni Sessanta e la volontà di una società alternativa, priva di violenza e basata su ideali pacifisti, che non fosse guidata dal consumismo e dal mito del denaro. In questi anni la parola chiave sembra essere contestazione c’è una sorta di insofferenza verso le regole imposte dalla società e verso i modi di vivere che quest’ultima stabiliva. Questa irrequietezza generale sfociò nei movimenti di rivendicazione dei diritti, legati alla difesa degli afroamericani e delle donne. Ed è proprio nell’ambito del femminismo che si possono far rientrare i lavori di queste artiste. Nel 1971, alla California State University, si tiene il Feminist Art Program (FAP), un programma educativo co-prodotto da Miriam Schapiro e Judy Chicago, la quale l’anno precedente aveva già diretto il programma sperimentale al Fresno State College sul quale si baserà il FAP. Judy Chicago racconta di un episodio accaduto all’inizio dei suoi studi universitari alla UCLA, nei primi anni Sessanta. Il primo giorno di lezione, il professore disse che alla fine del semestre avrebbero parlato dei contributi delle donne. Chicago restò molto delusa quando l’ultimo giorno l’insegnante entrò in classe e disse: “I contributi delle donne? Nessuno”. Questo episodio la fece riflettere sul ruolo della donna nella società e nell’arte e contribuì alla nascita del programma dedicato a sole donne. L’8 Novembre 1971 le venticinque studentesse iniziarono a lavorare sul progetto Womanhouse, che aprì al pubblico a gennaio dell’anno successivo. Questo aveva come location un palazzo di Los Angeles con diverse camere, del quale ogni artista si scelse uno spazio dove presentare la propria visione dell’essere donna attraverso l’arte. Tra le partecipanti vi era Faith Wilding, la quale presentò la performance Waiting (Aspettare), in cui seduta con le mani sul grembo e in atteggiamento passivo, si dondolava avanti e indietro elencando tutte le attese nella vita di una donna. La sua voce diventava quasi come una cantilena, quasi fosse un automa vita di una donna. La sua voce diventava quasi come una cantilena, quasi fosse un automa che meccanicamente elencava non solo quello che una donna aspetta per sé stessa “aspettare di diventare grande/…aspettare di mettere il reggiseno, aspettare la prima mestruazione/…”, ma soprattutto tutto ciò che la società si aspetta da una donna: il matrimonio, che aspetti il marito di ritorno a casa dopo il lavoro, che abbia un figlio e lo cresca, etc. L’arte femminista continuò ancora per i primi anni Settanta, come nel caso della performance Ablutions, risultato della collaborazione di Judy Chicago, Suzanne Lazy, Sandra Orgel e Aviva Rahmani, che metteva in scena la ricostruzione di uno stupro e denunciava in questo modo la violenza sulle donne. Quest’ultimo è un tema che ricorrerà spesso nell’arte femminista, soprattutto nell’opera di Ana Mendieta, artista di origine cubane. Scossa da una terribile vicenda avvenuta all’Università dello Iowa, in cui una studentessa era stata violentata e uccisa, decise di proporre una performance che impedisse alle persone di relegare gli episodi di stupro a qualcosa di generico che non li toccasse di persona. In Rape Scene (Scena di stupro) del 1973, l’artista invitò alcune persone nel suo appartamento a Moffit Street a Iowa City. Gli invitati, giunti davanti all’entrata, trovarono la porta socchiusa. All’interno, la stanza era buia, con un’unica luce che illuminava Mendieta, nuda dalla vita in giù, distesa supina su un tavolo, legata e sporca di sangue, circondata, a terra, da piatti rotti e altrettanto sangue . Le persone restarono sconvolte dalla simulazione dello stupro, e lo scopo della performance, il senso della sua messa in scena, veniva così raggiunto: le coscienze assopite venivano risvegliate.
L’artista è famosa anche per la sua serie Siluetas, iniziata dal 1974, composta da diverse fotografie che rappresentano la sagoma femminile creata attraverso diversi mezzi e materiali: scavando la terra con il proprio corpo e lasciandone una traccia, ricoprendolo di fango, ricreandolo con degli elementi provenienti dalla natura. Utilizzando il suo corpo come punto di partenza, sia come calco sia presente fisicamente, dava origine a forme composte di sangue, legno, terra, polvere da sparo, fango, ghiaccio, fiori, foglie, sabbia, etc. L’artista a soli dodici anni fu costretta a lasciare la sua terra natia, Cuba, per trasferirsi in Iowa dove passò l’adolescenza attraverso diversi orfanotrofi e famiglie. Questo profondo legame con la natura le serviva per riavvicinarsi alle proprie origini da cui era stata sradicata e a causa di cui sentiva un vuoto dentro. Un’altra artista femminista fu Mierle Laderman Ukeles, la quale si chiedeva: «Finita la rivoluzione, chi butterà l’immondizia il lunedì mattina?». Ukeles lottava per dare dignità alla figura della donna come artista e al contempo madre e moglie, per dimostrare come fosse possibile essere entrambe senza dover sacrificare la propria passione per adempiere al ruolo che la società patriarcale prevedeva per le donne. I suoi principi si ritrovano nel Manifesto for Maintenance Art, scritto nel 1969. Decise di dare visibilità a tutti quei lavori considerati dirty works, come ad esempio lavori di pulizia della casa, che venivano spesso svalorizzati o semplicemente ignorati. Tra questi vi facevano parte i lavori di pulizia di luoghi pubblici, tra cui quelli di un museo: il contributo dato da questi lavoratori viene solitamente ignorato dalla società. In Hartford Wash: Washing, Tracks, Maintenance: Outside (Hartford, Connecticut, 1973), ad esempio, Ukeles si esibì in pulizia di luoghi pubblici (strade, pavimenti di musei) e svolse compiti solitamente assegnati alle guardie del museo, per dare visibilità agli invisible works, come definiti dalla critica dell’arte Miwon Kwon . La riappropriazione del proprio corpo, oggettivato e mercificato, in questi casi sfocia spesso in performance provocatorie. Il disagio avvertito dagli artisti in quegli anni inizierà ad essere tale da portarli ad azioni violente ed estreme. La Performance, nota in italiano come performance d’arte o performance d’artista è la messa in scena di una azione progettata da un artista o dal suo gruppo, presentato ad un pubblico. L’osservatore che spesso investe aspetti di interdisciplinarità osserva la performance e talvolta interviene a partecipare con l’azione in corso, che costituisce l’opera d’arte stessa. Questo tipo di azione artistica si sviluppa in un ambito molto libero, la performance può essere eseguita in un qualsiasi luogo e senza limiti di durata. L’azione di un individuo o di un gruppo in un particolare luogo e in un definito lasso temporale costituisce l’opera stessa. Essa inoltre può essere eseguita sia seguendo un copione che essere improvvisata, sia casuale che orchestrata, con o senza il coinvolgimento del pubblico. L’artista durante la presentazione della performance può essere partecipe ma anche assente, lasciando che siano i media a trasmettere l’intrattenimento performativo. La performance coinvolge generalmente uno o più dei quattro elementi base di essa: tempo, spazio, Il corpo dell’artista, del suo gruppo, o in alternativa la sua presenza in un medium, e la relazione fra il performer e il suo pubblico. La nascita della performance contemporanea si individua attorno agli anni ’60 del ‘900 e si sviluppa a partire dalle sperimentazioni delle avanguardie storiche: Futurismo, Dadaismo e soprattutto il Surrealismo etc. per poi essere definita dai lavori delle figure più significative: Joseph Beuys, Gina Pane, Marina Abramovic, Ulay, Vito Acconci, Laurie Anderson, Matthew Barney. La rivalutazione del corpo durante tale periodo è stato indotto dagli influssi filosofici di Sartre e Heidegger anche se già prima degli anni sessanta, Duchamp prese in considerazione il suo corpo come materiale d’arte facendosi fotografare da Man Ray nel personaggio femminile di Rrose Selavy. La nascita della performance contemporanea si individua attorno agli anni ’60 del ‘900 e si sviluppa a partire dalle sperimentazioni delle avanguardie storiche: Futurismo, Dadaismo e soprattutto il Surrealismo etc. per poi essere definita dai lavori delle figure più significative: Joseph Beuys, Gina Pane, Marina Abramovic, Ulay, Vito Acconci, Laurie Anderson, Matthew Barney. La rivalutazione del corpo durante tale periodo è stato indotto dagli influssi filosofici di Sartre e Heidegger anche se già prima degli anni sessanta, Duchamp prese in considerazione il suo corpo come materiale d’arte facendosi fotografare da Man Ray nel personaggio femminile di Rrose Selavy. Rrose Selavy (Marcel Duchamp), 1920. L’obiettivo di una performance è quella di superare le divisioni tra artista e spettatore e tra le diverse arti; essa è una forma d’arte che non mira a produrre oggetti artistici, ma sensazioni, impressioni, inquietudini ed emozioni dal vivo grazie all’azione del performer. Tale figura viene definita da Patrice Pavis, professore di teatro dell’università di Parigi, come un autobiografico scenico che possiede un rapporto diretto con gli oggetti e con la situazione enunciativa, un attore che recita e parla di sé stesso in rapporto diretto e intimo col pubblico. La performance è molto utilizzata anche da numerosi autori della Body Art, per i quali è importante spettacolarizzare il proprio corpo rendendolo l’evento stesso. Questi artisti superano i limiti della morale comune, si esibiscono attraverso dei movimenti accompagnati dalla musica oppure utilizzando il proprio corpo in maniera mortificante e autolesionista. La Body art si sviluppa attraverso l’ auto manipolazione del corpo da parte dell’artista, il medium artistico è il corpo stesso, talvolta utilizzando gesti emotivamente sentite crudeli dal pubblico. I precedenti storici della Body art sono i gesti dada, famosi sono l’azione del taglio di capelli di Duchamp, le «azioni» di Yves Klein e Piero Manzoni negli anni Sessanta. Il primo grande artista performativo di seconda generazione ed anello di congiunzione con la Body Art è senza dubbio il cantante Jim Morrison dei Doors.Tra i più significativi artisti della body art troviamo Gina Pane che si tagliuzzava il corpo con una lametta mostrando il proprio sangue, Chrtis Burden si sparava, Vito Acconci si masturbava, e infine l’artista serba Marina Abramovic, ancora vivente, che caratterizza le sue performance attraverso la volontà superare i limiti mentali e fisici del suo corpo. In linea generale potremmo dire che il suo lavoro affronta sempre tematiche quali il dolore, il limite, le relazioni tra corpo privato e altrui. Ciò che accomuna questi diversi tipi di performance è il fatto che l’arte non viene più ubicata nelle gallerie o dai luoghi deputati dell’arte, bensì ora è possibile esprimere l’arte anche in luoghi comuni, come piazze, teatri, locali alternativi o di tendenza. «L’ Happening è una forma di teatro in cui diversi elementi alogici, compresa l’azione scenica priva di matrice, sono montati deliberatamente insieme e organizzati in una struttura a compartimenti» descrive Allan Kaprow. Il Happening è una forma d’arte contemporanea. Precedenti si ritrovano in parte nelle serate dadaiste e nell’automatismo surrealista, ma il nome appare per la prima volta nell’esibizione di A. Kaprow, a New York,Eighteen happenings in six parts (1959). Questo tipo di forma d’arte non si focalizza sull’oggetto ma sull’evento che si organizza, realizzata grazie all’improvvisazione da parte degli artisti e dalla partecipazione del pubblico in ambienti non convenzionali. Tutti questi eventi incarnano valori antitetici che in particolare promuovono l’effimero, il mutevole, il riavvicinamento tra arte e vita. Gli Happening si organizzano generalmente in luoghi pubblici, in modo che abbiano un effetto dirompente nella vita quotidiana degli osservatori, sottolineando così quanto sia importante l’incontro tra l’evento e la quotidianità. Si tratta di un teatro destrutturato senza una trama definita e precisi personaggi e, un collage di manifestazioni di danza, musica, letteratura e pittura. Gli artisti che si occupano dell’organizzazione di questi eventi hanno il compito di svincolare il pubblico dal ruolo di osservatore passivo che non partecipa. In alcuni casi si coinvolge il pubblico per una protesta, ad esempio una situazione di degrado, come nel caso del fotografo e performer Augusto De Luca, che ha organizzato una partita di golf nelle buche stradali di Napoli. Oggi il significato di questo lemma si è allargato molto, si adopera per ogni manifestazione variegata. Vari artisti come J. Dine, C. Oldenburg e R. Rauschenberg hanno sperimentato questa forma di arte totale, che s’inserisce nella riflessione tesa alla negazione dell’oggetto artistico e della sua permanenza a favore dell’atto e della creazione in sé. Per Installazione si intende invece un genere di arte visuale sviluppatosi a partire dagli anni settanta.
Si tratta di un’opera d’arte tridimensionale, non mobile, che comprende media e forme espressive qualsiasi natura per creare, da parte dell’osservatore una particolare esperienza in un determinato ambiente. Una delle caratteristiche principali è il fatto che essa abbia come soggetto principale il fruitore. Tutto deve essere costruito per modificare o comunque sollecitare la percezione dello spettatore che diviene parte integrante del lavoro: senza il fruitore, l’opera d’arte installativa non esiste. Rebecca Horn nacque a Mischelstadt, nel comune dell’Assia in Germania, il 24 marzo Rebecca Horn nasce a Mischelstadt, nel comune dell’Assia in Germania, il 24 marzo 1944 ed è una scultrice, regista e performance artist. La Horn aperta verso diversi linguaggi artistici che vanno dalla performance alle istallazioni, è conosciuta soprattutto per le sue estensioni corporali, prolungamenti di parti del corpo grazie a determinati oggetti. Le sue opere più famose sono Einhorn (Unicorno), un vestito dotato di un lungo corno che si proietta in alto partendo dalla testa, e Pencil Mask (Maschera di matite), una maschera con diverse matite che ne fuoriescono. I temi che affronta sono di carattere universale: l’amore, la difficoltà di mantenere la salute fisica e psicologica, il senso della caducità delle cose. Spende l’infanzia libera e felice in un villaggio non lontano dalla foresta nera, a contatto con la natura, con gli animali, senza eccessive attenzioni da parte dei genitori ma in compagnia di una governante rumena che le insegna a disegnare. Il disegno diventa così per lei un linguaggio d’espressione per esprimere se stessa, il quale considera molto più libero di quello orale e soprattutto un mezzo per riempire uno spazio abitabile, difatti ancora oggi una delle sue forme artistiche predilette. La bellezza vicino alla natura, una speciale sensibilità che avrebbe sviluppato parametri radicali una volta scomparso il padre, isolamento e malattia avrebbero significato un importante strumento culturale per l’educazione di un’artista tanto particolare qual’è oggi Rebecca Horn. La sua arte dall’infanzia in poi viene inestricabilmente legata non solo alla bellezza, ma ad uno speciale modello di libertà, con stili di vita non certo insoliti al quale lei avrebbe dovuto lavorare duramente per fare in modo che quella vita fosse sua. Un risultato che non sempre le ha dato soddisfazione. La letteratura infantile di testi particolari quali “Il matrimonio chimico di Christien Rosenkreutz” di Johan V. Andreae e “Locus Solus” di Raymond Roussel la avvicinano al mondo dell’alchimia, dell’assurdo, e alle macchine surrealiste. Ciò si sarebbe rivelato importante per la sua vita d’artista dopo la fine della seconda guerra mondiale: la Horn racconta che, dopo il conflitto, dovunque andasse non poteva parlare tedesco, in quanto si sentiva odiata perché tedesca. Si appassionò al disegno perché non doveva «disegnare in tedesco, francese o inglese», ma solamente disegnare. La scuola dell’obbligo è stato un luogo da cui Rebecca Horn ha sempre cercato di fuggire, delusa dal luogo, dall’incomprensione dei parenti e dai cambiamenti radicali che le avevano imposto. “Scappavo sempre e facevo cose molto strane, vivevo nelle stazioni ma mi ritrovavano sempre”. All’età di 19 anni frequenta l’Accademia di Belle Arti d’Amburgo, il suo primo insegnante la aiutò ad eliminare ogni dubbio su materiali, forme, contenuti del suo lavoro. Le diede un consiglio che le sarebbe servito per tutta la vita “Non ti preoccupare di tutta quella storia dell’arte e della teoria. Tutto quello che devi sapere è in questo libro”. Si trattava del “Diario di un ladro” di Jean Genet, ed è in quel libro che la giovane Rebecca Horn trova effettivamente i stralci di vita, tutto ciò di cui ha bisogno un artista. La storia del libro si svolge a Barcellona, città che Rebecca Horn avrebbe visitato ad un certo punto della sua vita, città che l’ha vista malata da giovane, ma anche città che le ha dato forza di cambiare la sua vita. Nel 1968 viene costretta ad abbandonare gli studi per via della tubercolosi, di un avvelenamento ai polmoni. Trascorre così un anno circa immobilizzata in un sanatorio per i danni a lei provocati dalla fibra di vetro che allora utilizzava per il suo lavoro; Si tratta di un periodo di solitudine, fragilità, vulnerabilità del suo proprio corpo, e la sensazione di non aver ottenuto niente dalla vita, fattori determinanti che influiranno nella sua carriera artistica. Mentre è in cura, lontana da casa, entrambi i genitori muoiono; Rebecca Horn decide di prolungare di altri due anni il suo isolamento, per lasciar tempo alle ferite, fisiche e psicologiche, di rimarginarsi.
Durante il periodo trascorso in malattia tutti i suoi disegni prodotti riguardano il suo corpo malato, trasformato in una specie di lettera agli amici, un messaggio al mondo esterno. In questo limbo di tempo e di spazio, in cui rimane separata da tutto e da tutti, si trova a sperimentare una nuova relazione con ciò che la circonda. È un lento ricominciare daccapo, una riscoperta cauta: i primi lavori di Rebecca Horn diventano una vera e propria esplorazione del mondo. Si spostò quindi a Londra, dove entrò a far parte della St. Martin’s School of Art nel 1971. Nel 1972 a ventotto anni, partecipa a Documenta V. Nel 1973 ha una mostra personale al Kunstverein di Hannover, nel 1983 espone alla Serpentine Gallery di Londra, alla Kunsthaus di Zurigo e al Centre d’Art Contemporain di Ginevra. Dal 1989 insegna all’Accademia di Belle Arti di Berlino, l’artista tornata in Germania, si ritrova davanti ad un paese con il corpo diviso, si trova ad affrontare ed a riconciliarsi con il luogo che l’ha segnata, ma in cui non ha mai vissuto. Il ricordo della recente storia tedesca si è infiltrato in alcuni suoi lavori (come nell’installazione presentata a Skulptur Projekt a Munster) senza però diventare una costante. Il suo lavoro è informato da una memoria personale e non dalla memoria collettiva di una nazione, è un aneddoto personale, qualcosa di piccolo che diventa generico. Nel 1993 il Guggenheim Museum di New York presenta una sua retrospettiva che prosegue al Van Abbenmuseum di Eindhoven, alla Nationalgalerie di Berlino, alla Kunsthalle di Vienna, alla Tate Gallery e alla Serpentine Gallery di Londra e, infine al Musée de Grenolbe. Nel 1997è invitata alla 47° Biennale di Venezia e a Skulpture Projekte a Münster. Nel 2001 è al Carré d’Art Musée d’Art Contemporain di Nîmes. Il ritorno a Barcellona significa anche la sua prima personale in Spagna, e assume nuovi significati. Le dolorose memorie da un lato e l’energia dall’altro, fanno di “River of the moon” una delle sue più potenti installazioni. Alla Fundaciò Espai Poblenou una gigantesca machina genera impulsi chimici e meccanici pompando mercurio in sette contenitori collegati al motore centrale da tubi che sembrano vene di un corpo umano. Ogni contenitore manda altri tubi sulla facciata esterna della fondazione e attraversando la città con un viaggio dettato dal desiderio e dall’immaginazione, il mercurio arriva all’Hotel Peninsular, dove ci sono otto stanze dedicate alla memoria. Affermata protagonista della scena d’arte di questi ultimi trent’anni, Rebecca Horn è stata di quelle artiste poco conosciute dal pubblico italiano. Nelle opere degli esordi l’artista costruisce delle protesi del corpo umano, copricapo appuntiti, estensioni delle spalle e delle dita, maschere e strisce di tessuto che inibiscono o enfatizzano il movimento del corpo. In questa prima fase è presente, oltre che l’influenza del clima artistico di allora decisamente sensibile alla performance ed a tematiche che riguardano il corpo anche il richiamo alla sua esperienza personale vissuta dall’artista. La sua teoria della estensione è una riscoperta del nostro corpo e di ciò che ci circonda, un modo di analizzare e ripristinare l’equilibrio tra spazio e corpo attraverso materiali morbidi e non nocivi come stoffe e piume, conferendo al corpo dell’artista delle nuove forme inaspettate e nuovi significati. Il tema principale che domina tra le sue opere è la riflessione sul corpo in tutti i suoi aspetti. La scelta di utilizzare materiali delicati come stoffe e piume, non dannosi, è motivata anche dalla sua esperienza biografica. La sua crescita personale e professionale ruota intorno alla creazione di un mondo interno che deve combattere con le pressioni esterne. Forse è per questo che in tutti i suoi lavori è presente il corpo, i suoi simboli e le sue metafore, ma anche la memoria di esso attraverso i sensi, e gli organi. Non è sempre il corpo ad essere visibile, ma la possibilità di vedere come un corpo, di sentire come un corpo. Il corpo come rifugio e campo di battaglia contemporaneamente, unica proprietà e unica cosa da condividere. Il concetto di leggerezza è un fattore onnipresente nelle opere di Rebecca Horn, ossessionata sin dall’infanzia da farfalle, uccelli, le loro penne, colori, la loro capacità di volare, quella sensazione di libertà e spensieratezza. L’artista esprime la “solitudine comunicando attraverso le forme del corpo”, con opere d’arte che sorpassavano i limiti dei singoli linguaggi tradizionali, portando ad un coinvolgimento diretto dell’artista e dello spettatore nel momento creativo, trasformando il suo corpo in uno strumento per l’applicazione di elementi artificiali. Nelle grandi installazioni di Rebecca Horn interagiscono vari oggetti: vasi trasparenti riempiti di liquido (colore, latte) ma anche lame, martelletti, piume, oggetti delicati e pericolosi frequentemente animati da motori meccanici. Il movimento sembra letteralmente dare vita alla struttura, avvertiamo passaggi nervosi, tranquilli, pause che sembrano tradurre in una danza lieve le relazioni umane. Le sue installazioni raccontano difatti avvicinamenti, interruzioni, minacce, seduzioni e metaforicamente introducono temi di attualità con cui l’artista si confronta senza concedere all’illustrazione o alla cronaca. L’ opera più famosa tra tutte è senza dubbio » Einhorn» (il titolo è anche un gioco di parole sul nome dell’artista) , il quale lega la sua esperienza di malattia a quella di Frida Kahlo, attraverso imbracature e fasciature; strutture che costringono e allo stesso tempo liberano. Limitano il corpo e nel contempo gli concedono nuove possibilità: su queste basi si sviluppano tutti i primi lavori della Horn, la cui ricerca artistica proseguirà con la realizzazione di sculture cinetiche, che lentamente prescindono da e rimpiazzano il corpo. In questa estensione si tratta un cappello costituito da una sorta di antenna, elemento ispirato alla protuberanza di uno dei più affascinanti animali fantastici, l’unicorno. Non è una semplice estensione corporea, attraverso l’unicorno si intende “sentire di più”. Se si pensa che questo animale fantastico era nel Medioevo il simbolo per eccellenza di castità, innocenza e purezza, è naturale capire la scelta dell’artista: per “sentire di più” si intende riuscire a capire in un modo più intenso, con una concentrazione maggiore. Questa sensibilità è tipica, secondo i racconti leggendari medievali, degli unicorni, i quali possono essere calmati soltanto da una vergine, ovvero quel tipo di donna non sopraffatta da urgenze domestiche per via dell’assenza di un uomo, una mancanza che si traduce in concentrazione, dunque in un contatto maggiore fra essere umano e mondo circostante. Il percorso di Rebecca Horn mostra una profonda coerenza logica, per la quale ogni cosa, appena modificata nel suo uso guanti con le dita lunghissime, penne d’uccello su glabre guance umane, ventagli di carta usati come ali) assume una sfumatura inattesa, diventando metafora concreta di qualcos’altro poco visibile come un equilibrio o una ricerca. Uno dei primi sensi a venire in aiuto alla vista, quando dobbiamo orientarci, è il tatto. Se ci troviamo in una stanza buia, apriamo le braccia per sondare lo spazio che ci circonda, valutare le distanze, evitare come possibile gli inciampi. Con Finger Gloves (1972), Rebecca Horn mette in questione la collaborazione tra vista e tatto nella nostra percezione del mondo: questi guanti sono leggeri, si possono muovere senza sforzo, raggiungono gli oggetti più lontani e permettono di mantenere una certa distanza dalle cose. La relazione con ciò che ci circonda è alterata: è come se le mie dita potessero essere infinitamente più lunghe, dando l’illusione alla mente che io stia veramente toccando ciò che invece solo le estensioni sfiorano. Con queste estensioni quello della Horn diventa un corpo sensoriale all’ennesima potenza ma completamente limitato. La lunghezza delle dita in questa performance era concepita in modo che il soggetto, stando al centro della stanza, potesse toccare due muri opposti nello stesso momento. Il passo successivo, nella ricerca artistica e intima della Horn, è fatto verso gli altri. Nel tentativo di annullare o almeno domare la sua solitudine, la comunicazione con l’altro ricomincia, attraverso forme che ricordano (e non ancora sostituiscono) un corpo. Per esempio, le sue maschere di penne hanno a che fare con la vicinanza e l’intimità con quel che ne rimane, ma anche con quella che si vuole ripristinare. Una maschera, infatti, protegge la mia identità; allo stesso tempo, però, e proprio in virtù di questa protezione, blocca la mia conoscenza dell’altro e la mia esperienza del mondo viene fisicamente limitata: indossando la Cockfeather Mask (1973) “la mia vista è occupata dalle penne,per vedere il suo viso devo girare la testa di lato, come un uccello”. Una maschera che si può aprire e può accogliere, in senso conoscitivo ed erotico: la Cockatoo Mask (1973), con le cui “penne accarezzo il viso della persona che mi è vicina lo spazio intimo tra noi è riempito da sensazioni tattili”. L’attrazione si fa tangibile, mentre la distanza altrimenti infinita tra noi e l’altro è colmata e racchiusa. Molte delle opere piumate avvolgono la figura, come un bozzolo, oppure sono maschere e ventagli ideati per coprire o imprigionare il corpo. Tra queste opere possiamo ricordare Cockfeather (Piume di gallo, 1971), Cockfeather Mask (Maschera di piume di gallo, 1973), Cockatoo Mask (1973), Paradise Widow (Vedova del Paradiso, 1975), e The Feathered Prison Fan (Il ventaglio-prigione di piume, 1977), ideato per il suo film Die Eintänzer. Queste prime opere concretizzano il tentativo incessante di Rebecca Horn di mettere al e nel mondo, protraendola verso l’esterno, come se fosse un arto esplorativo, la propria interiorità sofferta, facendo della realtà un processo di cura, in un interscambio per il quale il modo in cui percepiamo il mondo diventa il modo in cui questo esiste per noi e noi esistiamo in esso. Pencil Mask (Maschera di matite) è un’altra delle sue body extension, composta da sei cinghie orizzontali e tre verticali. Dove le cinghie si incontrano sono inserite delle matite. Una protesi da porre sul volto, usata come body extension per interventi creativi. Anche Feather Fingers (Guanti di piume, 1972) è un’opera incentrata sull’illusione del tatto e sulle mani. Una piuma viene attaccata a ciascun dito con un anello di metallo, per far sì, nelle intenzioni dell’artista, che la mano diventi «simmetrica (e sensibile) come un’ala di uccello». La Horn, toccando un braccio con le piume attaccate alla mano opposta, sperimentò la sensazione di sentir toccare il braccio dalle dita della mano opposta (e di provare la sensazione anche nelle dita), pur essendo, in realtà, le piume a toccare il braccio. Secondo la Horn, in questa opera «è come se una mano, improvvisamente, diventasse disconnessa dall’altra, come se si trattasse di due esseri senza nessun collegamento. Dalla fine degli anni sessanta Rebecca Horn si sposta dal tema del corpo a opere più narrative che sfociano in un esplicito amore verso la narrazione cinematografica. Inizia realizzando dei video come documentazioni della sua performance, dal 1975 Horn realizza dei lungometraggi di genere fiction: 1975 Berlin Exercises, Dreaming under Water ; 1978 Der Eintäzer ; 1981 La Ferdinanda ; 1990 Buster’s Bedroom. I film come successivamente le installazioni, danno modo a Rebecca Horn di integrare oggetti e movimento, l’azione e le cose fanno parte di una nuova struttura semantica in cui l’artista accosta il proprio immaginario visivo a trame simboliche, emotive, non lineari. Sono mondi abitati da personaggi-simbolo come il musicista, l’attrice, la ballerina, l’infermiera, di cui ognuno è un prototipo psicologico o fantastico, trame in cui i protagonisti vivono in realtà fittizie ed isolate dal mondo. Infine ci fu l’incontro tra l’artista e Napoli dato che Rebecca Horn fece visita ad una coppia ultranovantenne nella loro casa della Sanità, al vico Lammatari. Qui conobbe il culto delle anime del Purgatorio, anime ignote e abbandonate, i cui crani e ossa sono state ammassate negli anni al Cimitero delle Fontanelle e dove i devoti adottano un teschio (capuzzella) prendendosene cura lucidandolo e pregando per lui. L’opera fu nominata Spiriti di Madreperla, è costituita da 333 teschi fusi in ghisa (anche se alla fine dell’esposizione se ne contavano meno, in quanto alcuni di essi furono trafugati) che rappresentano i spiriti del purgatorio, piantati nel selciato della piazza. Sulla piazza sono inoltre sospesi 77 cerchi al neon di colore madreperla, una sorta di aureole che sovrastano il luogo muovendosi in aria tra terra e cielo, in contrasto con i teschi. All’interno del contrasto si nasconde il vero significato che la Horn ha attribuito all’opera. Alcuni teschi dell’opera oggi fanno parte di un’altra installazione, intitolata Spiriti, presente al Museo Madre di Napoli. Infine posso affermare che Rebecca Horn era un artista che sperimentò questa sensazione di delusione e di perdita quando disse di voler continuare ad andare a scuola a meno che la madre non le facesse una coperta fatta con le ali di farfalla, alla fine scoprì che le ali non erano vere, solamente ricamate. L’inizio della ribellione, del rifiuto del valore di facciata, era un tentativo di cambiare le cose, di filtrarle attraverso la nostra esperienza, il nostro corpo. Un certa passione è presente nel suo lavoro, nonostante l’aspetto freddo, calcolato che si affida al funzionamento di macchinari frapposti tra l’opera, l’artista e il pubblico. Il lavoro sembra sempre complesso, high-tech, ma il risultato finale è facile da assimilare.