Celebra i Sessantacinque anni di Carriera e ricerca uno dei Maggiori Artisti Italiani del Dopoguerra.
Giovanni Cardone
Fino al 22 Settembre 2024 si potrà ammirare a Palazzo Reale Milano la mostra antologica dedicata a Valerio Adami . Pittore di Idee a cura di da Marco Meneguzzo, con il coordinamento generale di Valeria Cantoni Mamiani. L’ esposizione è promossa da Comune di Milano – Cultura e prodotta da Palazzo Reale con l’Archivio Valerio Adami, con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. la rassegna presenta oltre settanta grandi quadri e circa cinquanta disegni, dal 1957 al 2023, tra i più significativi dell’opera del Maestro. Pittore stimato in tutto il mondo, Valerio Adami incarna perfettamente l’idea dell’artista internazionale e aperto a tutte le suggestioni derivate da altri linguaggi, come la letteratura, la filosofia, la musica. La mostra ripercorre la produzione del Maestro configurandosi come un’antologica scandita con andamento cronologico, salvo alcune significative varianti. Nelle prime due sale sono esposti i lavori dagli esordi – il primo è La giostra del 1957 – alla fine degli anni Sessanta. La terza sala presenta le opere degli anni Settanta (con aperture verso gli Ottanta), mentre la quarta diventa una sala non cronologica, ma tipologica, destinata ai ritratti che l’artista ha condotto nei decenni sui “padri nobili” che ha scelto come esempi di vita e di arte. Le sale successive sono dedicate soprattutto agli ultimi quattro decenni – volutamente preponderanti in questa rassegna – sia per testimoniare la fecondità del lavoro di Adami, sia per continuare idealmente la mostra realizzata nel 1986 al Centre Pompidou di Parigi e poi trasferita integralmente lo stesso anno nelle sale di Palazzo Reale a Milano. Arricchisce la mostra uno stretto passaggio tra le sale “tappezzato” dai recentissimi ritratti ideali che l’artista ha compulsivamente realizzato negli ultimi mesi e che costituiscono una specie di “contraltare” espressionista alla sua misurata e calcolata pittura. Formatosi a Milano, a Brera, con Achille Funi, ha subito compreso l’importanza di frequentare un ambiente internazionale. I suoi viaggi, sempre in compagnia della moglie Camilla Cantoni Mamiani, iniziati con il tradizionale “pellegrinaggio” a Parigi da giovanissimo, non sono mai terminati: Londra, New York, Città del Messico, Atene, Cuba, l’India, Caracas, Milano, ma soprattutto Parigi (dove trascorreva gli inverni) e Meina (sulle sponde del Lago Maggiore, sua attuale abitazione, in cui si trasferiva tutte le estati) sono solo alcuni dei suoi luoghi d’elezione; luoghi in cui Adami si stabiliva, spesso aprendo un atelier, per il tempo necessario a scoprire e a lasciarsi “contaminare” dalla cultura del posto, grazie anche a incontri personali con scrittori, musicisti e intellettuali. La pittura di Adami, che fin dagli inizi si presenta spesso su grandi formati, già dalla metà degli anni Sessanta è inconfondibile grazie all’incontro tra quei segni distintivi della pop art – quali la linea nera, i colori accesi e piatti, i tratti decisi e i soggetti urbani -,e il riferimento costante alla tradizione e al classicismo-che narra miti e leggendein una costante figurazione che recupera il corpo umano, seppur scomposto – in un’epoca in cui prevalevano l’Astrattismo, l’Arte Povera e il Concettuale. La sua pittura, infatti, partecipa criticamente al proprio tempo e, se negli anni Sessanta vive una prima stagione di notorietà all’interno della corrente della pop art, già dai primi anni Settanta se ne distacca, accentuando la sua vocazione “letteraria”, ricca di citazioni sia visive che legate alla parola, sempre più presente nel suo lavoro fino a includerlo tra i maggiori esponenti di quella “figuration narrative” francese cui, ancora una volta, si identifica solo parzialmente. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Valerio Adami apro il mio saggio dicendo : La cultura postbellica europea e nordamericana è invasa da “neo” e “post”. Secondo molti critici le seconde avanguardie (o “neoavanguardie”) non furono altro che una ripetizione dei movimenti storici d’avanguardia, magari con la stessa volontà di rottura, ma indubbiamente con meno verve; dagli anni Sessanta in poi gli artisti cercarono di riannodare il filo che si era interrotto a causa delle due guerre, assimilando esperienze e pratiche già di successo. Riscoprirono alcuni degli espedienti delle avanguardie storiche, quali l’analisi costruttivista dell’oggetto, la pittura monocroma, l’immagine-fotomontaggio, il collage e la critica dei modelli espositivi tramite il ready made, inserendoli però in un contesto contemporaneo. Come ricorda Foster, «quella dei ritorni storici è una vecchia questione nella storia dell’arte; anzi, sotto forma di rinascimento dell’antichità classica, ne è uno dei fondamenti». Se gli anni Trenta simboleggiarono il momento culmine del modernismo, gli anni Sessanta segnarono invece l’epoca del postmodernismo. Postmoderno è ciò che segue il moderno e l’avanguardia storica, rappresenta un’epoca, un periodo di nuovo inizio dopo la fine della modernità; è la cultura di una società di consumatori, nella quale le merci hanno un’importanza fondamentale perché lo stesso mercato è divenuto un’autorità culturale in grado di legittimare o meno un autore. Storicamente il modernismo è stato identificato con le avanguardie storiche, a loro volta associate a un concetto di originalità e antagonismo con le poetiche precedenti dell’accademismo. Il loro programma era demolire l’arte e la sua tradizione: con essa e tramite essa è cambiata l’idea di opera, non più concepibile. Il postmodernismo al contrario, non nega ciò che lo ha preceduto, ma lo assimila e lo rielabora nel proprio stile. Fin dal Rinascimento un’opera d’arte era apprezzata non tanto per la sua originalità, quanto per sua la capacità di fare riferimento alla tradizione. La storiografia rinascimentale stabilì un canone di valori e un modello di bellezza ideale, al quale le opere d’arte dovevano attenersi: per Vasari l’arte doveva proseguire verso un classicismo universale che rappresentava la misura per valutare le opere di epoche successive. L’innovazione era contemplata solo come conseguenza implicita del mutare delle condizioni del lavoro artistico e non come fine perseguibile. Di contro, nell’arte moderna l’essere legati a un contenuto particolare o a un determinato tipo di raffigurazione non è più obbligatorio e anzi costituisce un concetto superato, poiché l’arte è divenuta nel tempo uno strumento libero che l’artista utilizza anche con fini introspettivi. Mentre il modernismo simboleggiava una reazione e un tentativo di resistenza all’emergere dilagante della società di massa e della massificazione, il postmodernismo sembra essersi quasi rassegnato nei loro confronti, accettando di venire completamente inglobato nei loro meccanismi. Esso rappresenta una fase storica che occupa quasi tutta seconda metà del XX secolo, durante la quale vi sono state numerose riconfigurazioni materiali e soprattutto culturali, che appaiono come una perdita dei punti di riferimento, quasi in preparazione di una rivoluzione tecnologica. Il suo inizio va ricercato nell’acquisizione del potere rappresentativo: il movimento Concettuale è stato il momento di massima sublimazione ideologica, la prima corrente che si è opposta alle regole del moderno e che ha segnato un punto di non ritorno. In questi anni si è delineata una frattura fra l’ideologia dell’arte e il concetto di “arte per l’arte”; se nel moderno vi è stata la corrosione dell’estetica, nel postmoderno si passa all’esternazione dell’apparenza. Nella società degli anni Settanta l’arte continua a essere un manifesto di etica sociale, ma a seguito del fallimento di determinate ideologie politiche, assume forme e contenuti differenti. Le opere di Kosuth ispirarono intere generazioni di artisti e l’arte Concettuale divenne la rappresentante del portato teorico dell’arte. La pittura è una delle arti in cui il rapporto tra modernismo e postmodernismo assume una valenza chiarificatrice. Il modernismo cercava l’essenza dell’arte: in pittura ciò portò all’eliminazione della rappresentazione figurativa, accusata di eccessiva teatralità, a favore di un ambiente più introspettivo e autocritico. Al contrario il postmodernismo ritiene che l’arte non possa isolarsi dalla quotidianità ed evitare connessioni o scambi con il mondo reale: la teatralità, la rappresentazione e il racconto sono le modalità di articolazione del vissuto umano e quindi simboleggiano una materia che la pittura non può ignorare. A partire dall’architettura il postmodernismo si diffonderà in tutte le arti: in pittura vi sarà il recupero del figurativo, in letteratura l’abbandono degli sperimentalismi, il ritorno dei generi e la commistione tra arte colta e forme più popolari. Il comune denominatore di tutte queste tendenze sarà la rinuncia al dogma fondamentale dell’avanguardia, ovvero la necessità di essere innovatori ad ogni costo. Il postmodernismo abolisce la gerarchia delle avanguardie storiche, secondo la quale ciò che era nuovo doveva inevitabilmente sovrapporsi al passato, rendendolo di conseguenza inutilizzabile e svuotandolo di significato. All’ordinamento fondato sul tempo, tipico del modernismo, sostituisce la valorizzazione dello spazio, privilegiando la performance, che ora rappresenta una forma d’arte vera e propria. Come già ricordato, essa costituisce un evento determinato, che accade in un momento prestabilito, in una sorta di presente perpetuato; il luogo, i partecipanti, le condizioni ambientali in cui tutto avviene diventano le componenti caratterizzanti l’evento stesso. Nella cultura della postmodernità la produzione di linguaggi estetici si inserisce nella perdita di “valore d’uso” e nella riduzione radicale delle opere a “valore di scambio”, in una società votata verso l’esteriorità. Quando Duchamp presentò i suoi ready made negli anni Dieci del Novecento, pose la questione del valore estetico, di cosa contasse veramente nell’arte, suggerendo che in un contesto borghese il valore dipendesse dall’autonomia dell’oggetto, ovvero dalla possibilità di separarlo dal mondo che lo circondava. Da una parte l’opera viene definita secondo il suo valore di scambio (o per Benjamin, l’Austellungswert”, il valore di esponibilità), come accade per una merce; dall’altra essa è definita in termini di valore d’uso. Questo conflitto tra valori rappresenta il punto cruciale dell’ambiguità critica messa in gioco dai ready made. L’arte nel periodo postmoderno favorisce gli investimenti economici, inducendo gli artisti più “integralisti” a isolarsi per evitare compromissioni e perdite di significato causate dalla “contaminazione” con il mercato. Divenuta particolarmente interessante sotto il profilo economico, tanto da rappresentare un vero e proprio investimento monetario, l’arte postmoderna ha progressivamente liberato i propri dogmatismi alla ricerca del successo commerciale e verso la metà degli anni Settanta ha posto fine alle ideologie politiche, iniziando a puntare verso il mercato. L’ideologia sottesa all’azione dell’arte nelle avanguardie storiche e nelle neoavanguardie ha spinto il portato comunicativo verso una radicalizzazione dell’interventismo attivo del singolo individuo; l’arte postmoderna si è posta tra mercato e creazione, tra artista e fruitore, rimanendo però sempre saldamente ancorata al mercato. Il postmodernismo esaurì la propria carica come concetto egemone a livello culturale negli anni Novanta, e ora per indicare la contemporaneità si cercano nuove definizioni, come “era post-umano”, in riferimento ai progressi scientifici e tecnologici e all’intelligenza artificiale. Nel tempo nei confronti dell’avanguardia è stato perpetrato un esproprio di tecniche e linguaggi, ormai da tempo integrati (contro la loro natura) nei sistemi di comunicazione di massa, che ne abusano continuamente; come si vedrà in seguito, il destino di mercificazione e russificazione incombe sull’avanguardia. Il breve arco di tempo compreso fra il 1958 e il 1964 segna una metamorfosi radicale nel percorso artistico di Valerio Adami, che si avvia nel giro di pochi anni a un crescente consenso di critica e di mercato fino agli esiti più noti del suo lavoro . si sarebbe tentati di credere che questa stagione di un ‘Adami prima di Adami’ si chiuda, simbolicamente, con la tragica e prematura dipartita del suo amico Bepi Romagnoni, nell’estate 1964: è noto il ruolo trainante e propositivo di questi nell’ambiente milanese tanto che non si è esitato ad attribuirgli quasi subito l’appellativo di ‘maestro’ . accanto a lui, però, non meno importante è il ruolo di Adami come punto di raccordo, teorico e organizzativo, delle situazioni più diverse: è a lui, ad esempio, che si rivolge un giovane critico come Enrico Crispolti conosciuto alla fine del 1958 durante la mostra romana di Gianni Dova , e a sua volta in itti rapporti epistolari con Romagnoni per avere contatti con artisti e critici a Milano, dal ‘giro’ frequentato dall’artista oltre Romagnoni, Rodolfo Aricò, Mino Ceretti e Lucio Del Pezzo), ma anche per la curiosità di conoscere un maestro più anziano come Franco Francese . ad Adami si rivolge poi per avviare il dibattito intorno ai ‘sintomi di crisi’ su “Notizie” il periodico dell’omonima associazione torinese fondata da Luciano Pistoi e codiretta da Enrico Crispolti dal 1957 al 1960 affinché partecipino, oltre ai pittori, anche Emilio Tadini e Roberto Sanesi .
Nonostante le risposte positive da parte di Tadini e la segnalazione del giovane Alberto Martini appena giunto a Milano e non ancora inventore dei “maestri del colore” , il dibattito si interromperà presto, prima che questi contributi venissero pubblicati. Non avranno seguito nemmeno le esortazioni di Crispolti ad ampliare la discussione ad altri temi: “Pensa con Tadini la questione del personaggio per un articolo su “Notizie”. Parla magari a Sanesi del dibattito e vedi se gli interesserebbe parteciparvi. e che eventualmente proponga lui qualche argomento. Magniico per esempio rapporti fra poesia e pittura in un certo ambiente ed in un certo momento. Veda lui comunque. idem per Alberto Martini, tuttavia sperando che si svincoli un po’ da arcangeli (naturalista)” . È utile poi seguire il percorso iniziale di Valerio Adami sia come ricostruzione della sua evoluzione interna, sia per rileggere una situazione e contestualmente ricollocare personaggi che, come nel caso di Romagnoni stesso, rischiano di essere storiograficamente isolati come punte di diamante di un sistema. Adami, anzi, svolge un ruolo emblematico anche perché è un artista che scrive, e le sue lucide riflessioni, insieme a quelle di Romagnoni, aiutano a mettere a fuoco le motivazioni di un più ampio gruppo di artisti, provocando un inestricabile intreccio, sul piano dei contenuti quanto del lessico, con la critica più attenta. La prima importante mostra personale di Adami, alla milanese galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo, è del 1959. Di quanto avesse fatto prima di quella data, rimane una traccia nel saggio dedicatogli da Crispolti nel 1961 in occasione della sua prima mostra romana, alla galleria l’attico. ricordando quel loro primo incontro del 1958, egli aveva memoria di opere che trovavano in Francis Bacon il loro referente più diretto, anche se non esclusivo. si trattava, infatti, di dipinti “mossi da esacerbazioni d’intenzione più psicologica che descrittiva, con possibili riferimenti forse goyeschi anche nella tematica vertente sull’assurdo ma pure kokoschkiani. Bacon sembrò suggerire allora ad Adami soprattutto lo strumento per una più precisa collocazione spaziale, tutta in funzione di tale dialettica di contrazioni, di simbolismo interiore”. Ne è un bell’esempio L’asino d’Empoli del 1956 , dedicato alla tradizione paesana di appendere durante la festa del Corpus Domini un asino a una carrucola, facendolo volare sopra la folla in piazza ino a farlo schiantare contro le colonne del Palazzo ghibellino. Adami ha accentuato l’aspetto grottesco di questa scena, specialmente nella caratterizzazione del personaggio di sinistra che suona il tamburello, dal volto chiaramente assimilato a un teschio secondo quei modelli nordici a cui fa riferimento il critico romano, ma forse anche pensando a certi motivi di Francisco Goya, a cui il giovane studioso si era avvicinato per la tesi di laurea iniziata con Lionello Venturi e discussa poi con Mario Salmi. al suo esordio pubblico del 1959, però, questa fase è stata ampiamente superata dal percorso di Adami. Come fa notare sempre Crispolti, nel suo breve excursus retrospettivo dal 1957 al 1961, l’artista fra 1958 e 1959 ha trovato un punto di riferimento nell’opera del cileno Roberto Sebastian matta, che gode di un momento di particolare fortuna in Italia e di cui la galleria del Naviglio aveva organizzato una personale a Milano proprio nel 1958. Tadini, nel presentarlo, doveva essere ben consapevole di questa trasformazione da parte dell’amico artista, tanto da osservare, probabilmente alludendo a quella fase precedente, che “nell’espressionismo è sostanzialmente un accanimento emotivo su una forma figurale accettata di peso da una tradizionale convenzione visiva. Il personaggio è fisiologicamente e intimamente un personaggio ‘dato’, che viene deformato dall’esterno. La sua sostanza rimane intatta: se ne altera soltanto la periferia”. Per collocare Adami in un contesto fenomenologico, infatti, Tadini si sofferma sul quel passaggio da una “lunga inerzia archeologica” della pittura fra le due guerre a una “ben più ampia disponibilità (e aggressività) nei confronti del reale”, complici l’esempio di Pablo Picasso e l’astratto-concreto venturiano (non espressamente citato), dei primi anni del dopoguerra. Va tenuto presente che l’esordio critico di Tadini avviene in un momento di messa in crisi dell’informale, promuovendone un definitivo superamento. È in questa accezione, infatti, che coglie i pericoli sia dell’espressionismo come deformazione esteriore della sua pittura fatta di materia che può condurre a una totale disgregazione della rappresentazione.
Il lavoro di Adami, infatti, corrisponderebbe secondo lui alla via più rivoluzionaria dell’arte contemporanea, cioè quella che non cedeva al revival “del più greve pittoricismo ottocentesco” neorealista. al contrario, egli è moderno perché si innesta in quella tradizione che ha i suoi padri nobili nel cubismo e nel surrealismo, che si pone il problema dell’oggetto per dare una nuova visione delle cose. Non a caso nel 1960 lo stesso Tadini, nel cui pensiero critico si intravede già quella riflessione sul ruolo delle avanguardie storiche che diventerà più marcato dalla metà degli anni sessanta (sia nella critica sia in pittura), ribadirà la centralità del surrealismo “per un’arte veramente attiva”, nei suoi automatismi e non nella sua declinazione più illustrativa, in quanto messa in atto di una “totale libertà della ragione”. il problema che si poneva, dunque, era di “realizzare una specie di fenomenicità dell’immagine: una sua vitalità più effettiva, concreta in quanto dinamica”, cioè trovare una soluzione capace di restituire un’immagine che non fosse fuori dal tempo, ma in cui al contrario fosse evidente simultaneamente il suo trasformarsi “nel continuum delle sue concrezioni dentro il tempo (dentro allo spazio) della sua storia”. Ci sono le premesse, qui, di un discorso sulla rappresentazione pittorica, sui suoi modi e i suoi scopi, che si sarebbe sviluppato nelle mostre successive: “Queste che si dislocano sulle tele di Adami non sono tanto le tracce inerti di un gesto raccontato: vogliono piuttosto essere le rappresentazioni della complessità reale di un fatto, di un personaggio, che esiste solo nella serie dei suoi gesti, nel suo fare e farsi. Adami si sforza in sostanza di integrare una immagine direttamente al residuo oggettivo del suo accadere”. “retrocedere al fatto”, infatti, era l’incipit di Per un’idea che non sa prendere forma, la poesia con cui Roberto Sanesi aveva accompagnato nel 1959 il pieghevole di invito alla personale di tempere e disegni di Romagnoni al salone Annunciata di Milano, nel 1962 nella raccolta Oberon in catene . È la prima occorrenza, questa, dell’uso di un sostantivo assai frequente negli scritti di quel momento: il quadro deve rappresentare un ‘fatto’ (derivazione forse dal sintagma sostantivale ‘idea-fatto’), senza partecipazione sentimentale, e deve farlo attraverso un ‘racconto’ che si svolge sulla tela. Approfondisce la questione lo stesso Adami in un complesso testo del 1960, Referto, scritto su invito di Enrico Crispolti per Possibilità di relazione, la prima ‘mostra-saggio’ con cui il giovane critico intendeva porre l’accento su una situazione in atto attraverso una campionatura di artisti che si erano distinti per slancio innovativo, rappresentati ciascuno da un solo quadro recente e di grandi dimensioni. un vero e proprio dibattito attraverso opere e dichiarazioni, dunque, radunate all’insegna del concetto di ‘relazione’ elaborato da Enzo Paci in Tempo e relazione, a cui il critico doveva essere giunto anche grazie al dialogo con Tadini e, soprattutto, con Sanesi, amico del filosofo milanese e collaboratore della rivista “aut aut”. Crispolti aveva chiesto agli artisti, come si evince da una lettera a Emilio Scanavino, di redigere un testo “su ciò che resta da fare al pittore oggi (proprio in termini di pittura)”. Nelle parole di Adami è chiara la presa di distanza, almeno teorica, dall’informale: la pittura deve aderire alla realtà, ma non nel suo modo di presentarsi esteriore, quanto nelle sue dinamiche strutturali interne. Il senso di questo discorso, poi, si chiarisce ulteriormente nelle parole di Giorgio Kaisserlian, che presenta la personale al salone annunciata del 1961: “abbiamo a che fare non già con dei personaggi issi e chiusi in se stessi, nei loro caratteri stabili, bensì con degli esseri colti nel momento in cui fanno qualcosa, si esibiscono in qualcosa, come se il centro di gravità dell’essere stesse appunto nel suo uscire da sé, verso la produzione di fatti e di cose nell’ambito sociale”. egli, però, si rendeva conto che questa precisazione era necessaria per chiarire la distanza di questa pittura dalla pura astrazione, a cui avrebbero potuto far pensare gouache come Indagine del 1961 , pubblicata sul pieghevole invito. La descrizione che il critico offre del procedimento esecutivo del pittore, infatti, rientra pienamente nei modi della pittura gestuale: “Adami costruisce le cose che gli interessano dal di dentro come se fossero dei temi musicali che nascono, crescono presentando una trama contrappuntistica e vivono nello spazio di una loro esecuzione espressiva”. Adami, insomma, lavora per addizione di segni, creando a pennello delle strutture di linee aggrovigliate per nuclei focali e unite fra loro da linee di raccordo: una pratica, questa, tipica di matta, di cui riprende anche l’idea di una visione a volo d’uccello che plana sugli oggetti, ma con una conduzione gestuale molto più libera e immediata. Del cileno, oltretutto, Adami non aveva adottato la gamma cromatica brillante ed evanescente, preferendo una tavolozza basata sui grigi, talvolta messi a contrasto con ampie e intense campiture di carminio di fondo che però non interagiscono con l’intervento gestuale. Per lui quanto per Tino Vaglieri la scoperta del colore timbrico steso a campiture piatte avverrà soltanto nella seconda metà degli anni sessanta. in quel momento, invece, valeva per entrambi quanto Tadini annotava, in riferimento al solo Vaglieri, in un testo del 1959: il quadro si risolveva cedendo “alla coesistenza dell’oggetto ad una specie di forza generale, disgregatrice prima e unificatrice poi”, ovvero nell’ “assumere a valore centrale proprio il momento della dissoluzione: nel rappresentare il dinamismo stesso” . si tratta di un atteggiamento comune: non è privo di interesse, infatti, constatare l’affinità fra la tela di Adami proposta a Possibilità di relazione, dal titolo non canonico (Vari stati del popolo indiano si sollevano usando la non violenza, 1960), che l’artista stesso distruggerà in seguito, e la Presenza di Aricò, montata nella stessa pagina di catalogo . Il motivo di una forma organica piegata a gomito ricorre, con usi differenti, nell’opera di questi pittori: con la sua direttrice dinamica questo elemento, descritto con un ampio gesto rotatorio del polso, costituisce l’elemento aggregante centrale che struttura il dipinto mettendo in relazione fra loro le parti della composizione. stava poi a ciascun pittore valutare l’uso di questa soluzione visiva, se farne l’ossatura di un Organismo del 1960 memore della lezione di Arshile Gorky, come nella tela di Romagnoni presentata a Possibilità di relazione, che probabilmente fa da matrice per le ricerche dei colleghi, o un Evento come aricò, per esempio quello in collezione Boschi-Di Stefano a Milano (1960), o l’ambiguità degli Interno -esterno come Vaglieri anche qui vale l’esempio in collezione Boschi-Di Stefano. Non a caso, infatti, Crispolti collocava Adami, insieme a Romagnoni, in un’area di espressione alternativa alle ricerche neodadaiste (che avevano frainteso, afferma, la lezione di Rauschenberg) in cui si dirigevano anche le ricerche di Peverelli, di Sergio Vacchi, di Canogar e del nordamericano Huldberg, ma anche quelle di Emilio Scanavino, il più vicino all’informale, ma in quel frangente diretto verso un valore “emblematico”, come afferma Crispolti, del segno . In Adami questo elemento è più evidente nelle opere del 1961, anno in cui la sua ricerca si arricchisce di elementi e chiarisca le sue intenzioni in forma più matura: è con i dipinti di questa stagione, infatti, che partecipa per la prima volta al Premio Lissone, e si presenta come vincitore dell’anno alla Galleria l’Attico. Qui quell’elemento ‘a gomito’ è diventato un vero e proprio modulo, più volte replicato come elemento di base di per agire insieme , in cui due lunghe braccia disarticolate si uniscono a formare un arco a mani giunte, o in Fatto , in cui svolge la funzione di definire la spazialità illusoria del quadro . Sono i dipinti più vicini a Matta, come nota Crispolti in catalogo, sebbene alla “cosmologia mitizzante del grande cileno” sostituisca una “analitica esistenziale”. secondo alcuni cronisti, anzi, è “più educato” di Matta. Parallelamente, Bepi Romagnoni, che ha già maturato la tecnica a pittura e collage della sua ultima stagione, sul piano del disegno sta mettendo a fuoco il proprio linguaggio, anche se il gesto rimane libero più di quanto non avvenga sulla tela, dove entra in gioco il dialogo fra intervento pittorico e ritaglio di giornale o fotografico, applicato all’interno della composizione, condizionandone la conduzione pittorica. Progressivamente, poi, si sta ponendo il problema di una rappresentazione dello spazio in profondità, per il quale non sono necessarie probabilmente spiegazioni letterarie, fra James Joyce, Ludwig Wittgenstein ed Erwin Panofsky, che pure Romagnoni come Adami ha sicuramente letto, ma senza che se ne avverta una immediata ricaduta pittorica. È un tratto che resterà costante in Romagnoni anche quando l’immagine andrà chiarendosi su composizioni più semplici e plasticamente risolte; per Adami, che pure continuerà ad avere punti di contatto con Romagnoni, sarà un momento di transizione che lo porterà nel giro di poco verso una composizione frontale, eventualmente leggermente ribassata e ravvicinata così come farà Vaglieri sulla scorta di Scanavino, e, poco dopo, Mino Ceretti, optando però per un punto di vista più lontano dal soggetto . ma il carattere essenziale di Adami, a questo punto, è aver trovato, come si legge nel catalogo de l’attico, un suo modo di costruire il quadro: “la struttura è lo strumento primo mobile dell’analisi descrittiva di tale realtà dialogica; una struttura come ipotesi di termine comunicativo, che esuli da una immediata analogia fisiologica, e, al contrario, abbia intenzione immediatamente emblematica, né si ponga come “segno”, in sé esauriente, bensì come termine, polo d’una più ampia e complessa entità. Un’organicità dunque, ancora, non d’ordine fisiologico (magari con la tentazione d’un nuovo naturalismo!), bensì come rispondenza probabile di strutture, di convergenti-divergenti componenti di un fatto”. Il secondo snodo della maturazione di Adami cade a ridosso della seconda importante ‘mostra-saggio’ crispoltiana, ossia la prima edizione, nell’estate 1962, della rassegna Alternative Attuali presso il Castello Cinquecentesco dell’aquila, dove il critico andava articolando e dettagliando quel panorama appena accennato in possibilità di relazione. È una nuova occasione in cui questi ha modo di appoggiarsi all’amico pittore come tramite con artisti e collezionisti, specie per quanto riguarda le presenze straniere: a lui si rivolge, per esempio, in cerca di opere di Zoltan Kemeny, di Alan Davie e di Pierre alechinsky. ma soprattutto, da arona, dove si è trasferito proprio nel 1962, Adami coordina le relazioni fra gli amici artisti e critici. Già alla ine dell’anno precedente, quando Crispolti gli aveva proposto di suggerire a Tadini di pubblicare, nella “Biblioteca di alternative attuali”, probabilmente dopo i “ferri” di Burri, una raccolta (non realizzata) dei suoi scritti sugli artisti, Adami accennava all’idea di uno “scritto aperto”, nella cui redazione coinvolgere Romagnoni, probabilmente con intenti di dichiarazione di poetica. Pochi mesi più tardi, invece, maturava l’idea di una mostra di gruppo (non realizzata) insieme a Aldo Bergolli, Antonio Recalcati e Romagnoni (in un primo tempo anche Vacchi), da organizzarsi a Milano nella galleria di Luca Scacchi Gracco e da trasferire in un secondo tempo a Londra: l’importante era che si trattasse di “un raggruppamento di tipo non speculativo”, fondato cioè su una comune adesione di poetica e non basato su semplici interessi commerciali . Le basi ideologiche comuni, verosimilmente, erano le stesse dichiarate nel catalogo di Alternative Attuali. Qui, rispetto a Possibilità di relazione, Crispolti aveva distinto in due sezioni quello schieramento: una ricerca espressiva più emotivo (o “neoromantico”), che teneva conto di Soggettività e relazione organica, e uno, a cui appartenevano Adami, Romagnoni e Guerreschi, all’insegna di Oggettività e relazione: “una moderna e inedita ipotesi di descrizione; una volontà precisa di accettare e registrare, di cogliere una realtà dinamica nelle sue componenti molteplici e reciprocamente condizionanti”. È in questa occasione che si incontra una più precisa messa a fuoco del te ‘racconto’, sia da parte di Romagnoni sia di Tadini. Quest’ultimo, nel dibattito fra critici che chiude il catalogo, pone l’accento sull’equivocità del termine “nuova inaugurazione”, a cui attribuisce l’implicito pericolo di un ritorno a modalità di realismo in senso stretto, o di cadere, come già era accaduto all’informale, in una nuova accademia. Per questo si deve preferire, secondo lui, la dizione di “nuovo racconto”, che spetta poi a ciascun artista attuare nella maniera che gli è più congeniale: “l’immagine non deve essere alterata dal gioco della fantasia: perché nella realtà l’immagine si altera concretamente in tutte le relazioni che la determinano e che essa contribuisce a determinare. si potrebbe indicare un pericolo, quello di ridursi ad accumulare una congerie di dati svuotando la rappresentazione di ogni significato. Ma è proprio ricostruendo la complessità oggettiva di una immagine reale, il suo movimentato accadere, che è possibile portarne alla luce il significato più vero. Ogni intuizione di verità è in fondo una deduzione il cui svolgimento, in particolari circostanze, rimane apparentemente nascosto”. una presa di coscienza della realtà esterna, insomma, impone nuove forme espressive in grado di restituire in una sola immagine la molteplicità di sollecitazioni simultanee a cui è soggetto l’uomo contemporaneo. Romagnoni, dapprima in una lunga lettera a Crispolti e poco dopo nella dichiarazione per Alternative, chiariva la funzione del “collage” come elemento del “racconto”: l’inserto fotografico non deve inserire nell’opera un effetto di straniamento, bensì è un elemento del linguaggio visivo che sollecita la composizione di un racconto inaugurato, facendo un tutt’uno con la pittura. Sono idee su cui questi artisti stanno riflettendo nello stesso giro di mesi in data 11 gennaio la dichiarazione di Adami, marzo quella di Romagnoni bisogna armonizzare nel quadro le sollecitazioni che vengono dall’esterno, specie quelle date dai nuovi mezzi di comunicazione, e trovare un modo per raccontare l’uomo moderno nelle sue relazioni con il mondo esterno (i ‘fatti’). i quadri che presenta in mostra, una Manifestazione di disobbedienza civile e due grandi tele dal ciclo Le prediche della gente per bene del 1961 , dipinte durante il soggiorno a Londra insieme a Romagnoni, sono sulla stessa linea di quelle proposte a l’Attico nel dicembre 1961. Si ha l’impressione di una cesura netta vedendo le opere che Adami propone nel 1963 alla galleria del Naviglio, la cui gestione è passata da Carlo, morto sette giorni prima dell’inaugurazione di questa mostra, al fratello Renato. Adami, nel frattempo, è stato di nuovo a Parigi, dove ha stretto rapporti con Alain Jouffroy che devono averlo indotto a ridiscutere la propria posizione. Pur avendo sempre rigettato, ancora negli anni settanta, l’etichetta di artista “pop”, aveva comunque dovuto fare i conti con le esperienze che venivano dall’America, che trovavano nel critico francese un deciso sostenitore, e con il ‘nouveau réalisme’ francese: la lezione di matta, a cui pure Jouffroy era stato attento, andava superata, come non bastava più il surrealismo come base di partenza. in una lettera a Crispolti dell’aprile di quell’anno, da Parigi, parla di una certa ‘faccenda’ in cui si trova coinvolto, di ordine teorico, ma probabilmente da concretarsi attraverso una mostra: bisognava “determinar la posizione dopo Duchamp, matta, della pittura intesa come mezzo di comunicazione, come racconto, in antitesi quindi alla pittura come costituzione di un oggetto o rappresentazione a se stante o mezzo di scoperta; tecnicamente provvederemo quindi alla registrazione di conversazioni in una analisi delle stesse morfologie nel nostro lavoro, della loro applicabilità alla realtà, delle loro dirette derivazioni dalla realtà, un materiale infinito, una accumulazione di domande, risposte, interventi; ne potrebbe uscire un curioso documento. il problema dello spazio determinato dalla continuazione del racconto, il rapporto con il linguaggio del Comics, della televisione, la fantascienza, la tecnica della pubblicità, tutti i mezzi di comunicazione che ci investono ogni giorno, le frequentazioni oggettive che ne derivano, il rapporto con il surrealismo ecc.”. Proprio due giorni dopo questa lettera (21 aprile) data un grande dipinto pubblicato a piena pagina nel pieghevole della mostra al Naviglio: vi campeggia a caratteri cubitali l’espressione onomatopeica ‘Crash!’ nel pieno di un’esplosione che provoca un subbuglio nello sfondo . Adami sta risolvendo, per suo conto, lo stesso problema che si stava ponendo Romagnoni, e che Jouffroy riassume efficacemente presentando la mostra milanese: “egli si propone di elaborare gli elementi di un linguaggio contemporaneo” se però l’amico Bepi aveva optato per il prelievo diretto di immagini, ottenendo poi un effetto prettamente pittorico attraverso un’accanita manipolazione della fotografia tramite il colore, Adami, come aveva dichiarato nel 1962, operava un prelievo “mnemonico”, ottenendo poi un incastro di forme e di piani attraverso il disegno. Per poter parlare di “collage”, in fondo, non sembra che nella percezione dell’epoca sia poi fondamentale l’applicazione effettiva di un elemento esterno sulla tela. in un articolo divulgativo per “selearte”, qualche anno più tardi, si potevano per esempio trovare un “collage” di romagnoni, in cui la tecnica era puramente funzionale a un problema linguistico; un’opera di Leda Mastrocinque in cui invece era usata in termini satirici il controverso Men Made Paradise di Giuseppe Guerreschi, rifiutato dalla giuria della Biennale di Venezia nel 1964, dove l’artista aveva adottato una logica di assemblaggio delle immagini analoga a quella del collage, ma usando sistemi di trasporto dell’immagine su tela che non rendevano necessario l’incollaggio diretto. Come si chiarirà nel prosieguo del suo percorso, infatti, la fotografia e un ricco archivio di fotografie e di giornali a portata di mano costituisce un elemento fondamentale per studiare una composizione e per avere un elemento di inaugurazione di maggiore impatto realistico, ma al fotocollage di Romagnoni o al collage in generale preferisce la proiezione sulla tela di diapositive da lui stesso realizzate con una serie di oggetti “atteggiati” in posa, in modo da riportare il disegno e lasciare poi alla pittura il compito di dare a quell’immagine la consistenza plastica del dipinto. Può valere un discorso analogo anche per Adami, sebbene non porti all’elaborazione di uno specifico procedimento di trasposizione dell’immagine ma a un prelievo di motivi riassemblati, non senza ironia, nel dipinto. al contempo, però, Adami andava incontro a un problema di stile: appropriandosi delle forme della comunicazione di massa e del fumetto, ne stava assimilando il lessico visivo, e ad un tratto libero e gestuale se ne stava sostituendo uno più nitido e spersonalizzato. ad uno sguardo esteriore, infatti, i suoi possono apparire come dei “pupazzi estrosi”, facendo parlare di un “neo-barocco visivo”. il rischio, come si accorge Jouffroy, è di un suo apparentamento al lavoro di Roy Lichtenstein, rendendo necessaria un’ulteriore puntualizzazione: “Pochi pittori cedono meno di lui alla moda. ma, stranamente, lo si direbbe intento a dominare la moda, a dominare il lusso delle immagini stereotipate, a dominare e a coprire con i suoi quadri le ossessive ottusità del linguaggio visuale del manifesto, dei fumetti, è bisogna sottolinearlo l’esatto opposto dell’attitudine di Roy Lichtenstein, che, lui, si cancella in quanto artista di fronte al fumetto, e cerca soltanto di renderlo totalmente trasparente allo spirito, senza sovrapporsi, senza piegarlo allo stile”. immediato è il consenso anche da parte di Tadini, in occasione di una nuova mostra alla galleria del Cavallino nel 1964. La sua riflessione critica si stava concentrando sui modi della pop art e su quanto di “pop” vi potesse essere nelle stesse avanguardie storiche (è di questo periodo, per esempio, il testo su Fernand Léger per i “Maestri del Colore”). Lo scrittore era in sintonia con la scelta da parte di Adami di una immagine di impatto più immediato e di più facile lettura: sono le “immagini che abbiamo sotto gli occhi e negli occhi nella vita di ogni giorno”, per questo motivo più accessibili e dirette. D’altra parte, era forse sufficiente il confronto con certa pittura inglese, in cui si stava verificando un analogo tentativo di sintesi grafica del racconto pittorico, come nel caso di Patrick Caulield, a cui “Art International” dedicava un largo servizio illustrato nel 1966. anche Romagnoni era arrivato, per una via differente, a un’immagine più nitida e semplificata, in cui si era accentuato l’elemento narrativo, come ne La vestizione del cosmonauta dell’aprile 1964, già in collezione Tadini . Le esplorazioni spaziali, a cui il titolo fa riferimento, erano diventate un fatto corrente di cronaca sui rotocalchi, e proprio da qui sono state estratte le fotografie di base su cui Romagnoni è intervenuto con il colore. Non si può escludere che il dialogo con Adami, la sua scelta di semplificare l’immagine delineando ampie campiture entro contorni sempre più marcati, abbia indotto anche Romagnoni a una semplificazione della sua immagine: è il colore “pop” che aveva fatto irruzione non solo nei loro dipinti, ma anche in quelli di Vaglieri, oppure, su tutt’altro piano di ricerca, nei quadri di intenso giallo o Rosa Schiaparelli con tagli o crateri di Lucio Fontana. D’altra parte un immaginario fantascientifico che passasse anche da edizioni di larga circolazione e da una cinematografia di consumo era una piattaforma comune per artisti dalle provenienze più disparate. il cinema, come ricorda Tadini, era poi un oggetto che aveva attirato la loro attenzione ponendo degli interrogativi, come mi fa notare Lorenzo Fiorucci, sui modi della narrazione. al contempo, questo poneva il problema di restituire nel quadro lo scorrere del tempo di un’azione, e di farlo in termini diversi dalla simultaneità futurista. il punto fondamentale, ancora una volta, era il modo di rapportarsi a una realtà quotidiana. La vestizione di Romagnoni, in fondo, riportava la scena in un interno quasi domestico, visto ancora una volta dall’alto e con una rappresentazione dello spazio più definita, popolato poi di uomini senza volto o presenze simili a fantasmi, o a ombre. in tale prospettiva, forse, non è del tutto arbitrario sottolineare che solo un anno più tardi, nel 1965, Giulio Paolini avrebbe realizzato Accademie 3, con una figura/ombra sfocata trasportata su tela emulsionata, che si sdoppia per indicare un movimento in allontanamento dall’osservatore, anche se inscritto entro una cornice grafica che impagina la tela e che riporta la riflessione sui limiti narrativi del linguaggio pittorico, come sta a indicare l’improvviso intervento pittorico gestuale di colore blu, che ricorda all’osservatore di essere di fronte a un’immagine su tela e non a una fotografia. i “soprassalti quotidiani” di Adami venivano dal lessico della carta stampata, ma rimontati secondo una dinamica differente, scegliendo una sintassi paratattica degli elementi compositivi, con minimi accenni di paesaggio che indicano una vista ravvicinata e a mezza altezza, completamente frontale. Non bisognava tuttavia equivocare queste immagini, come già aveva avvertito Jouffroy, con delle neutre imitazioni di immagini di consumo: sotto il mutamento di stile, infatti, rimaneva l’intenzione di costruire un “racconto”. La narrazione, anzi, diventava più chiara e leggibile: “i quadri di Adami”, prosegue Tadini nel testo del 1964, “agiscono in profondità non soltanto su una nostra idea del reale ma anche sulle conseguenze che hanno sull’inconscio le nostre abitudini visuali. Questi quadri ci mostrano l’ironia mescolata al dramma (l’ironia come estremo strumento per scostarci dal dramma cui siamo legati da connessioni tanto folte e ininterrotte, per poterlo giudicare nel balenare di un’apparizione riconoscibile e sconcertante), ci mostrano la violenza quotidiana e insieme il distacco quotidiano, la riduzione a simbolo ripetuto e insieme la vitalità ancora nuovissima della realtà in cui viviamo”. in questo momento, infatti, Adami realizza due grandi cicli di opere che in dal titolo sono emblematiche della volontà di non abdicare, nonostante il tono apparentemente leggero della sua ironia, a un ruolo di impegno: un ciclo si intitola infatti Alice nel paese della violenza, l’altro, di cui un’opera è pubblicata proprio nel catalogo della mostra al Cavallino dell’aprile 1964, è dedicato a La valle del petrolio . Anche Un gioco divertente, in realtà, si riferisce a una sparatoria fra nuvole da fumetto, infatti, compaiono mani che impugnano armi da fuoco come in Baby Trap di collezione Tadini (tav. in apertura), talvolta pronte a sparare persino contro l’osservatore portando, come si dirà in seguito, a una “contestazione e rovesciamento comico”. il ricorso al lessico del fumetto, infatti, aveva destato molti interrogativi nella critica, specialmente in occasione della mostra veneziana: erano parsi dei fumetti “sofisticati” a Berto Morucchio, inducendo invece altri commentatori a riconoscere alla radice di queste operazioni “certe soluzioni boccioniane” . L’attenzione di Tadini, però, è proiettata in avanti. L’anno successivo nel 1965 presenta un’altra mostra di Adami, soffermandosi soprattutto su quadri come il grande Uovo rotto del 1964, che l’artista addita fra i risultati migliori di quel momento: un dipinto che ha il formato per far pensare a una rivisitazione ironica dei modi del quadro di storia, raffigurante, stando a una lettera in cui parla di “un uovo che si rompe e una macchina che a destra ne fuoriesce” una situazione paradossale, quasi di invenzione surrealista, a cui il contorno spesso e la tavolozza dai toni delicati, ben lontani dai gialli e dai blu di Lichtenstein ma affini alla sintassi della cartellonistica, davano volutamente un tono ironico. Per Tadini era il momento di ingresso di Adami in quella nebulosa “pop” cui si stava cercando di dare una connotazione ‘italiana’. Il giro di anni 1963-1964, però, significa sotto molti punti di vista un momento di svolta. Da una parte, per Adami è un consolidamento della propria posizione di mercato. La geografia dei gruppi sta avendo un nuovo assetto, dovuto anche al progressivo emergere di un nuovo gallerista grosso modo loro coetaneo, Giorgio Marconi, che prende presto Adami nella sua squadra. anche sulla stampa periodica di larga diffusione, del resto, apparivano segni di una compagine mutata, come mostra la ‘conversation-piéce’ messa in scena per una grande foto a colori su “L’Europeo” da Romagnoni, Adami, Somaré e Tadini sul terrazzo dell’abitazione di quest’ultimo in via Jommelli a Milano: una scena di vita quotidiana, un po’ artefatta, in cui il padrone di casa, al centro, non è soltanto un critico in mezzo ai suoi pittori colti in un incontro feriale, ma è un collega pittore insieme ad amici pittori. a questa potrebbe fare da pendant la compagine protagonista del V poemetto contenuto in Rapporto informativo, la raccolta di poesie di sanesi scritta fra 1962 e 1964: vi si incontrano i due fratelli Pomodoro ed Enrico Baj, il gallerista e scrittore Arturo Schwarz, “che disegna le mani del buon Frate Angelico” e infine “il banjo di Emilio”, che altri non può essere se non, ancora una volta, Emilio Tadini . il vecchio gruppo che si era presentato sotto l’etichetta di ‘realismo esistenziale’, ormai sciolto da tempo nonostante rimangano rapporti amichevoli fra i suoi ex-componenti, non esiste più nemmeno come unità critica. Giorgio Marconi ha costituito una nuova compagine intorno alla Bottega d’arte di suo padre, Egisto Marconi, prima di aprire lo studio Marconi nel novembre del 1964, e organizza mostre presso altre gallerie, come alla Galleria Proili in via Brera nell’aprile 1964. Sul manifesto-catalogo, infatti, si trova una foto di gruppo a piena pagina che ritrae Adami, Romagnoni, Renato Volpini e Lucio Del Pezzo insieme a Marconi stesso, e una brevissima nota di Tadini, che nel frattempo a sua volta è uscito pubblicamente allo scoperto nella veste di pittore dopo aver esposto alla galleria del Cavallino nel 1961 presentato da Alberto Martini, spiegava le ragioni di questo raggruppamento: “i pittori che espongono insieme in questa mostra non formano un gruppo, non sottoscrivono un programma. ma chi li ha riuniti ha saputo distinguere nel loro lavoro una serie di elementi comuni più o meno riconoscibili ma in ogni caso estremamente significativi”. Chi li ha riuniti è appunto Marconi, che negli anni successivi coordinerà anche una serie di mostre mescolando la compagine artistica del “nuovo racconto”. Che sia diventato lui il punto di riferimento lo dichiarano alcuni elementi. Dopo una visita per gallerie milanesi, la direttrice della galleria Nazionale d’arte moderna di Roma, Palma Bucarelli, il 23 dicembre 1963 aveva scritto proprio a lui chiedendo di lasciare in deposito un quadro di Romagnoni e uno di Adami che aveva scelto personalmente: “riordinando in questo momento le sale della Galleria Nazionale, dedicate alle più recenti espressioni dell’arte contemporanea, volevo rappresentare questi artisti, almeno, per ora, come deposito temporaneo in attesa dell’occasione per un eventuale acquisto”. era stata lei, dunque, a scegliere per il suo museo Tromp, il grande dipinto che, si apprende dalla lettera di risposta di Marconi, era già stato esposto al Naviglio, e che aveva un costo al pubblico. Frattanto, il mercante-gallerista aveva proposto alla Bucarelli di prendere in deposito anche un’opera recente di Del Pezzo, dato che questi aveva appena rescisso il proprio contratto con Schwarz, rendendo impossibile la cessione dell’opera scelta dalla Bucarelli e già in deposito. È Marconi che coordina le mostre di Adami in questo periodo, come la già ricordata esposizione al Cavallino del 1964 , per la quale seleziona e invia dodici dipinti, verosimilmente gli stessi già presentati al Naviglio. La mostra, stando alla corrispondenza, gode di un certo successo di pubblico e risulta “sempre molto visitata”. a questo, però, non sono seguite vendite, come riferisce Renato Cardazzo ad Adami, che non ha visto la mostra a Venezia: “la sua mostra personale al Cavallino, come Lei sa, dato il grande interesse che ha riportato l’abbiamo trattenuta sino al 15 maggio si è chiusa senza nessuna vendita, questo dipende dal momento particolarmente critico. ad ogni modo, sono stato molto lieto di aver esposto le sue opere a Venezia, dove ho potuto notare che Lei gode la stima dei critici e dei giovani artisti veneziani”. ma la fama dell’artista era andata ben oltre Venezia e milano. oltre i rapporti con Jouffroy e i numerosi viaggi fra Londra e soggiorni a Parigi, Adami fa una parte importante anche in un impegnato articolo di sintesi di Gillo Dorles per le pagine di “L’Oeil”, nel quale il critico non ha pietà per “les peintres du groupe milanais” composto da Romagnoni, Ceretti, Vaglieri ed Aricò, che considera ancora troppo legati alle pregresse “phases naturalistes” ravvisando una pericolosa congiuntura di “illustration naturaliste” e di “surréalisme expressionniste” esempliicati da Gianni Dova, guerreschi, Giancarlo Cazzaniga e Giuseppe Banchieri. ad adami, invece, riserva un’illustrazione di grande formato, proprio in chiusura, riproducendo un dipinto del 1963 accanto a una Dama di enrico Baj (1963) e a Memoria dell’Apocalisse II di Francesco Somaini (1962) . eppure, inaspettatamente, quel 1964 sarebbe stato segnato da uno degli eventi più drammatici per la sua generazione. Adami ne scrive a Giuseppe Marchiori, il 20 luglio: “affranto nel dolore le comunico una perdita insostituibile. Bepi romagnoni è morto ieri in sardegna mentre faceva la pesca subacquea. È una grande perdita per tutta la pittura. È la perdita del mio migliore amico”. Pur nella tragedia, profondamente sentita, oltre che dagli amici, anche sulla stampa periodica, Adami si rende conto che dovevano “fare qualche cosa per rendere omaggio al suo lavoro”. Frattanto, credo si debba leggere un’attestazione di stima da parte della Bucarelli nella richiesta a Marconi di mandare alla galleria Nazionale un altro quadro di Romagnoni, come a congelare e storicizzare repentinamente l’ultima stagione dell’artista e consacrarlo nella storia dell’arte italiana, al pari di quanto farà quattro anni più tardi, su scala maggiore, per Pino Pascali. marconi tuttavia questa volta non può venirle incontro, perché intorno alla morte dell’artista si sta muovendo l’ambiente artistico in direzioni diverse: “mi dispiace di non poterla accontentare nel mandarle un’altra opera di Romagnoni perché ne posseggo poche e devo tenerle per eventuali mostre retrospettive che ho in animo di fare assieme ad altri mercanti” . Doveva esser sembrata ad Adami poca cosa la proposta di Marchiori di dedicargli un omaggio all’interno del Premio marche: dall’impegno profuso, non solo da Adami, per ricordare Romagnoni si ha chiara la percezione del ruolo che questo artista giocava non solo nello stretto giro degli amici, ma in un più ampia compagine artistica milanese. È sua l’idea di costituire una fondazione dedicata all’amico scomparso: è lui che se ne preoccupa da un punto di vista legale e che si fa carico, insieme a guerreschi e Ceretti, di redigere le sottoscrizioni. In una lunga lettera inviata, pressoché identica, sia a Crispolti sia a Marchiori, illustra anche un particolare genere di vendita all’asta, che ha visto fare a Londra, e che permetterebbe di ottenere dei fondi e, allo stesso tempo, di salvaguardare il mercato dei singoli artisti. L’esito immediato fu la realizzazione, grazie appunto a un’asta di opere donate dagli artisti stessi e battute il 15 dicembre alla Galleria San Fedele di Milano, del primo volume monografico sull’artista, a firma di Crispolti, Kaisserlian e Tadini. segue, l’anno successivo, un ‘omaggio’ all’interno della seconda Alternative Attuali del 1965, a cui però Adami non partecipa: la pagina che avrebbe dovuto scrivere sarebbe stata “troppo piena di fatti privati forse non me la sentirò”. Romagnoni rimaneva comunque un faro, sia per i colleghi pittori sia per i critici: quattro anni dopo la sua dipartita, Crispolti gli dedica in esergo la sintesi dei suoi lavori sulle Ricerche dopo l’Informale. sembra siano stati dimenticati dalla critica, invece, gli struggenti versi dedicati al pittore da Sanesi, impietrito, come recita il titolo, Di fronte a un cane di roccia. È una pagina fra le prime della silloge Esperimenti sul metodo che raduna versi scritti fra 1964 e 1968 e ripubblicata nel 1969 ne L’improvviso di Milano, ma composta verosimilmente a caldo, prendendo atto della dolorosa incapacità di scrivere “di questa fredda demenza,/ di questa morte che rovescia i termini e insulta, / innaturale / come sempre la morte degli amici”. Le dificoltà, ovviamente, non sono solo di ordine legale e statutario: “purtroppo”, racconta Adami a Marchiori, “nella riunione della scorsa settimana con i pittori cui noi abbiamo chiesto di aderire – le finalità che noi abbiamo proposto: di una Fondazione che avesse lo scopo di operare su molti campi della cultura, ha incontrato forti dissensi” . È l’idea di gruppo per cui si era molto battuto, forse, che sta venendo meno. Non mancano ovviamente tentativi di creare qualcosa di nuovo che si adatti ai tempi, talvolta con spirito di provocazione, radunando gli amici intorno a un progetto unitario: è il caso di Festoman, la serie di manifesti ideata da Silvio Pasotti, Adami e Romagnoni (che però non ne vedrà l’esito conclusivo) e sostenuta da Ivanhoe Trivulzio, singolare figura di mercante d’arte che aveva messo a punto un sistema di vendita rateale di opere d’arte che rendesse il collezionismo alla portata di fasce di pubblico meno abbienti. Festoman cavalcava un’idea di democratizzazione del mondo dell’arte: una serie di manifesti stampati in fotolito da opere originali degli artisti, tirati in tremila esemplari di cui mille attaccati ai muri della città di Milano, mille a Venezia in concomitanza con la Biennale e mille immessi sul mercato. Cosciente poi del ruolo dei rotocalchi come strumento di comunicazione, Trivulzio aveva anche pensato a un gesto plateale che sovvertisse la comune logica del mondo dell’arte: un rogo in placede la Contrescarpe a Parigi, in presenza dei cronisti, delle opere originali da cui erano stati tratti i manifesti, che in tal modo diventavano l’unico vero “originale”, seppur moltiplicato. Crispolti, invitato da Adami a introdurre il piccolo catalogo della manifestazione, parla di Una proposta seriale . al contempo, si avverte che è arrivato il momento di tirare le somme a bilancio di una vicenda in rapida evoluzione. Crispolti stesso lo mette in forte evidenza nel 1970 riproponendo a Ferrara una versione allargata di Possibilità di relazione, mostrando con una campionatura di opere come nel frattempo si era trasformata, in dieci anni, la ricerca degli artisti chiamati allora a quel dialogo. Prima di allora, però, non erano mancati momenti di riflessione su una generazione di artisti, facendo i conti con la definitiva consacrazione della ‘pop art’ avvenuta appena poco prima. Intorno a questo rilette per esempio la mostra Una generazione alla galleria odyssia di Roma nel 1965: una mostra ‘sui trentenni’, per la quale era stata messa insieme una compagine eterogenea, fra artisti milanesi, romani e del Centro Italia. Il dato più interessante è l’introduzione in questo raggruppamento di Mario Schifano, che si ripeterà in tutte le mostre successive, facendone un nuovo punto di riferimento per molti pittori. “esser presenti”, scrive nello stesso anno marchiori in una mostra estiva dedicata a solo otto di questi artisti, “significa non rifiutare niente a priori del tempo in cui si vive; significa cercarne il significato, alla luce d’indagini condotte con un metodo che potremmo dire scientifico, se la scienza può aggiungere infiniti elementi nuovi (come crediamo) all’approfondimento della ricerca artistica”. Adami, dunque, è entrato in una nuova scuderia, chiarita bene da una mostra veneziana organizzata da Marconi in appoggio alla galleria del Canale e intitolata Metafora 66: Adami, Baj, Del Pezzo, insieme a Schifano e Tadini, sono le sue punte di diamante, che Maurizio Fagiolo dell’Arco in catalogo mette a sistema in un raggruppamento omogeneo osservando che non si parla più di “artiste-peintre, ma tecnico dell’immagine”. i dipinti di Adami, nelle parole di Fagiolo dell’Arco, sono diventati realizzazioni di “un sogno da sveglio”, o meglio “una compenetrazione delle cose che non appartiene solo al sogno, ma alla vita quotidiana. Ecco che nella categoria “miraggio” si vengono a placare tutte e ambivalenze di Adami: il rapporto fra le proprie visioni e la visione della realtà s’incastra in una immagine anfibia, in qualcosa che non esiste, in una “dolce sirena vera e falsa, in una verità che è allucinazione, in un falso che ha i contorni del desiderio”. un miraggio sono le nuove immagini, chiuse dentro contorni sempre più spessi e più nitidi che danno spazio a campiture algide: è la via inaugurata con L’uovo rotto, con cui il suo lavoro prende piede sempre di più, portandosi dietro un aumento di valore anche per le opere del tempo precedente. Nel contempo la giuria del XV Premio Lissone, composta da giuliano Briganti, Luigi Carluccio, Marco Valsecchi, Manfred De La motte, Gerald Gassiot Talabot, miss Jasia Reichardt, Gino Meloni attribuisce il primo premio di un milione di lire a Camel , seguito poi con altri premi a Samuel Buri e Mark Boyle . La pittura di Adami è cambiata molto: si è fatta più nitida, i contorni più precisi e le campiture terse e pulite. È la prima fase di quello che diventerà con il tempo lo stile più noto del pittore. Per la stampa reggeva ancora il confronto con il fumetto, come si legge in un intenso e brillante articolo di Leonardo sinisgalli in occasione di un’altra mostra a l’attico, proprio nel 1967. “Adami” scrive il poeta, “ha la virtù di scatenare in noi le forze dell’immaginazione, di infiammarci il cervello”. Questo, però, non ne fa un pittore passionale: l’operazione di riuso di modelli dal fumetto è consapevole, poiché egli “ha rifiutato naturalmente tutta la parte mitologica, il contenuto eroico o sentimentale di quelle storie, ma ha salvato il simulacro”. La principale critica che era stata mossa al suo lavoro di quel momento riguardava questo approccio apparentemente affettivo, come se nell’estrema infinitezza della pittura, con le sue campiture rigidamente circoscritte entro uno spesso ed evidente contorno continuo, quasi come in una vetrata, non ci fossero emozioni. Sinisgalli, invece, sembra essere penetrato più a fondo nel meccanismo poetico del pittore e la complessità del dispositivo messo in atto: “non è un temperamento lirico, non soffre i brividi, il mal di cuore. Le sue gabbie sono sistemi complessi che si reggono proprio per il cumulo di materiali, che egli vi scarica dentro, e fanno tutt’uno, un corpo, non un aggregato” . Camel segna dunque una tappa importante nell’evoluzione di Adami, quasi un punto di non ritorno. Palma Bucarelli se ne accorge subito, e dopo essere riuscita a comprare Tromp nel 1967 e ad esporlo nel riallestimento della galleria del 1968, si rende conto che avrebbe bisogno di un nuovo quadro, più recente, per rimanere al passo, scrivendone a Marconi, il 1 febbraio 1968, in seguito a un loro recente colloquio su “di un quadro di Adami da mandarmi in deposito per rappresentare l’artista nella galleria Nazionale con un’opera più recente di quella a suo tempo acquistata”. sulle pagine di “art international”, invece, Alain Jouffroy scrive un lungo articolo su di lui, probabilmente al posto dell’articolo che l’artista aveva chiesto a Marchiori proprio per quella rivista. Se si vuole trovare una data di chiusura, tuttavia, funziona bene una cesura al 1969. in questo anno, infatti, Sanesi pubblica le poesie degli anni sessanta con il titolo L’improvviso di Milano. sulla copertina compare pubblicato un Ritratto di Roberto Sanesi realizzato da Adami è un ritratto simbolico dello scrittore in pantofole in un interno domestico, su cui deve essersi basata la riflessione che il poeta dedicherà al pittore nel 1975, affermando che la pittura di Adami è un tentativo di fondare una ritrattistica “secondo una tattica d’accerchiamento del soggetto”. gli interni domestici sono forse il suo tema più ricorrente, ragione che lo mette in particolare sintonia con la poesia di Sanesi. Nel poemetto conclusivo che dà il titolo a tutto il libro, L’improvviso di Milano, scritto nel 1967 con il sottotitolo. L’attenzione della critica, l’interesse del mondo della cultura internazionale, il favore del grande pubblico hanno sempre accompagnato le mostre che importanti musei hanno dedicato a Valerio Adami, uno degli artisti contemporanei più conosciuti in Italia e all’estero. Se l’ampia rassegna al Centre Pompidou a Parigi tra il 1985 e il 1986 è stata considerata il momento riassuntivo senz’altro più importante del suo lavoro sin dagli anni ’60, altri eventi espositivi di rilievo primario si sono susseguiti successivamente, sino alle retrospettive al Tel Aviv Museum of Art nel 1997 e al Museo Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires nel 1998, e alla sceltissima mostra Ritratti e volti letterari nella primavera del 2000 presso Palazzo Bagatti Valsecchi a Milano. L’aver costituito nel 1995, su iniziativa di intellettuali e collezionisti vicini all’artista, l’lnstitut du Dessin – Fondation Adami con sede a Parigi, con la dotazione di un corpus consistente di lavori di grande formato, ha poi consentito di non disperdere opere fondamentali per la lettura del percorso creativo dell’autore. Si è ritenuto quindi di notevole interesse proporre una mostra dal taglio inedito e particolare, centrata sulla pittura di Valerio Adami tra il 1990 e il 2000, dagli anni in cui il suo linguaggio raggiunge la piena maturità espressiva sino alle esperienze più recenti, connotate da una nuova definizione dello spazio. Con una selezione di cinquanta dipinti provenienti dalla Fondation Adami e da collezioni pubbliche e private italiane e straniere, la mostra ha evidenziato come la ricerca formale, che negli anni ’60 decostruiva i luoghi e gli oggetti della quotidianità per poi successivamente scoprire attraverso la memoria neoclassica la figura del corpo umano, sia infine giunta a una dimensione di racconto pervaso da un nuovo, inedito lirismo. Dietro a immagini di immediata leggibilità è sottintesa una narrazione più profonda: le opere di Adami si popolano di metafore visive sofisticate e racchiudono concetti filosofici, letterari e mitologici, rappresentando l’evoluzione del pensiero occidentale. I miti fondativi della cultura europea, i suoi autori, le loro storie diventano i soggetti quasi esclusivi della sua opera, senza dimenticare certe narrazioni esotiche che comunque appartengono alla visione del mondo occidentale: è questo concentrato di attenzioni che, negli anni, lo farà colloquiare a fondo con alcuni tra i più grandi intellettuali e scrittori del ‘900, come Octavio Paz, Italo Calvino, Jacques Derrida, Luciano Berio, Antonio Tabucchi, Jean-François Lyotard. Nonostante Adami sia noto per il cromatismo acceso delle sue narrazioni, è il disegno la vera chiave di lettura, il punto di partenza di ogni suo quadro, il centro del suo pensare l’arte, il “nulla dies sine linea”, perché consente di comprendere appieno il rapporto tra idea, soggetto, narrazione, parola, che poi esplode nella pittura. Un “pittore di Idee”, dunque, come recita il sottotitolo dell’esposizione, che mostra nelle opere come si possa essere al contempo artisti e intellettuali. In mostra anche il documentario“Valerio Adami, il pittore di poesie” prodotto da Artery Film, per la regia di Matteo Mavero, con la partecipazione dello stesso Valerio Adami e di amici filosofi e artisti. Focalizzandosi sulla parte più introspettiva dell’artista, il docufilm illustra il lavoro e la vita di Adami che si intrecciano con le vicende di alcuni tra gli intellettuali più influenti del ‘900. La rassegna è accompagnata da un catalogoedito daSkira Arte.
Biografia Valerio Adami
Nasce a Bologna il 17 marzo 1935. Nel 1944 la famiglia si trasferisce definitivamente a Milano dopo un breve soggiorno a Padova durante gli anni della guerra. La figura più importante per Valerio, durante l’infanzia, è senza dubbio suo nonno paterno, uomo di lettere, allievo di Giosuè Carducci, che fece nascere in Valerio e in suo fratello Giancarlo l’interesse per la letteratura. Dopo aver concluso gli studi scientifici al liceo gesuita Leone XIII, e contemporaneamente aver frequentato l’istituto di Fonologia, nel 1952 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove si lega d’amicizia con Bepi Romagnoni e ha la possibilità di seguire i corsi del grande Achille Funi. Sempre allo stesso anno risale il primo viaggio di Adami a Parigi, città nella quale si stabilisce per un certo numero di mesi, e dove entra in contatto con i pittori Wilfredo Lam e Roberto Sebastian Matta, creando così una fitta ragnatela di amicizie che durerà nel tempo. Nel 1955 si diploma all’Accademia di Brera, espone a Venezia il ritratto del fratello Giancarlo, con il quale vince il Premio Marzotto, e tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Pater di Milano. Nel 1958 vince il premio San Fedele e trascorre l’inverno a Londra, assieme all’amico Romagnoni, con il quale condivide sia lo studio sia la passione per la cultura anglosassone completamente cancellata in Italia dalla retorica fascista. Così entra in contatto con l’avanguardia londinese (Francis Bacon e William Scott), che influenzerà la futura produzione di Adami. Nel 1960 vince il premio Lissone e partecipa alla rassegna Young Italian Painters al Museo d’Arte Moderna di Kamakura in Giappone. L’anno successivo è presente all’esposizione Italian Artists organizzata alla Cambridge Art Association di Boston. Durante la seconda metà degli anni 60 vengono organizzate numerose mostre internazionali di Valerio Adami. Inizia così una serie di lunghi soggiorni che lo porteranno, tra l’altro, a Londra, New York, Cuba, Tokio, Caracas, in Baviera, in India, in Israele, in Scandinavia e in Argentina. Tutti questi viaggi segneranno molto profondamente la cultura e la visione artistica di Valerio Adami, che spesso affronterà nelle sue opere tematiche tipiche di culture differenti dalla nostra. Nel 1966 disegna il ritratto di Nietzsche, il primo di una lunga serie di “ritratti letterari”, dove la linea insegue meno la fisionomia che il tracciato di un pensiero simbolico. Gli vengono dedicate due importanti rassegne nelle gallerie milanesi Schwarz e Marconi. Nel 1968 la Biennale di Venezia dedica una sala ai dipinti di Adami. Nel 1971 si trasferisce a New York, dove inaugura un suo atelier e a partire da questa data tornerà regolarmente per alcuni mesi ogni anno. Durante questi anni incontrerà numerosi scrittori, filosofi e pittori, tra i quali Dino Buzzati, Helmut Heissenbuttel, Marc Le Bot e Jacques Derrida, con i quali instaurerà fortissimi legami duraturi che gli consentiranno un continuo e ricco scambio di idee ed opinioni. Nel frattempo la figura umana è entrata sempre con maggior evidenza nella sua pittura: non più solo corpi dislocati fra gli oggetti, nel decoro degli interni o di luoghi pubblici (A. Valtolina). Nel 1976 parte per il suo primo viaggio in India con l’amico Hubert Damisch e soggiorna a lungo ad Ahmedabad. Nel 1978, rientrato a New York, Adami comincia a dipingere una serie di quadri di tema mitologico. Nel 1980 Italo Calvino scrive Quattro fiabe d’Esopo per Valerio Adami e sempre nello stesso anno viene selezionato dal Catalogo Nazionale d’Arte Bolaffi assieme a Giulio Paolini, Mimmo Paladino, Lucio Bulgarelli, Sergio Cassano e Gianfranco Goberti. Nel 1985 il Centre Georges Pompidou di Parigi, gli dedica un’importante retrospettiva che l’anno dopo viene trasferita al Palazzo Reale di Milano. Sono anni di grandi riconoscimenti per la pittura di Adami. Infatti nel 1988 lo Stato francese gli commissiona un ritratto del compositore Pierre Boulez. Sempre nello stesso anno la città di Bologna organizza una serie di manifestazioni dal titolo Adami a Bologna. Nel 1990, dopo essere tornato a vivere sul Lago Maggiore, tiene una grande retrospettiva all’IVAM- Centre Julio Gonzàlez a Valencia, e l’anno seguente sempre in Spagna gli viene dedicata un’esibizione al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia. Nel 1992 parte per un lungo viaggio in Messico al quale fa seguire un altro lungo viaggio in India nel 1996. Tornato in Italia nel 1997 Palazzo Medici Riccardi di Firenze ospita una sua grande mostra suddivisa in tematiche. Nel 1998 realizza per il Monte Paschi di Siena una pittura monumentale. Nel 2000, a Meina, città nella quale vive il maestro, nasce la Fondazione Europea del Disegno, nel restaurato Museo di Villa Faraggiana.
Dopo un ulteriore viaggio in India nel 2003, il Teatro San Carlo di Napoli gli commissiona le scene per L’Olandese Volante di Richard Wagner, e nello stesso anno il Museo Frissiras di Atene gli dedica un’ampia retrospettiva. Nel 2006 il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone consegna all’artista un premio alla carriera e ospita una grande retrospettiva dal titolo Adami d’après Adami. Nel 2009 inaugura, assieme alla moglie Camilla, la retrospettiva Camilla ADAMI Valerio al Palazzo Reale di Milano. Nel 2011 la città di Lucca celebra il suo lavoro con un trittico di mostre dedicate ai suoi disegni, ai dipinti e agli acquarelli. Nel 2012 la Galleria Tega di Milano decide di inaugurare la sua nuova sede dedicando ad Adami una vasta retrospettiva dal titolo Figure nel tempo, accompagnata da un importante catalogo, contenente numerosi saggi storici sull’Artista.
Palazzo Reale di Milano
Valerio Adami. Pittore di Idee
dal 17 Luglio 2024 al 22 Settembre 2024
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Lunedì Chiuso
Installation view‘Valerio Adami. Pittore di Idee’, 2024, Palazzo Reale Milano.
Foto Gabriele Leonardi. Courtesy Archivio Valerio Adami