Giovanni Cardone
Fino al 15 Settembre 2024 si potrà ammarare alla Galleria Nazionale dell’Umbria la mostra dedicata Gustav Klimt ed al capolavoro dell’artista Le tre età(1905), concesso straordinariamente in prestito dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, si inaugura un nuovo ciclo espositivo della Galleria Nazionale dell’Umbria: Un capolavoro a Perugia. Durante l’estate il museo offre al suo pubblico la possibilità di ammirare e conoscere in profondità un’opera di particolare importanza nel percorso di un celebre artista, al quale è affiancata una selezione di opere di altri autori suoi contemporanei, allo scopo di illustrare l’epoca della sua creazione, il contesto storico culturale e i temi affrontati. Nel caso di Klimt, ad introdurlo sarà Galileo Chini, di cui sono esposti alcuni disegni, dipinti e ceramiche ispirate allo stile del maestro viennese. In una mia ricerca storiografica e scientifica su Gustav Klimt e sulla Secessione Viennese che divenne una dispensa universitaria e un seminario per evidenziare il momento storico- artistico e nel contempo vuole dare un ampia descrizione della figura di Klimt. La mia indagine relativa al periodo che precede la prima Grande Guerra, si soffermerà in particolare attorno al clima politico– culturale della cosiddetta Vienna Gaudente dei primi del secolo, come luogo ipersensibile e quasi profetico rispetto agli eventi immediatamente successivi e di snodo tra il passato e il futuro dalle conseguenze ancora in atto nel nostro presente. Prima di tutto, alcune precisazioni su quel che intendiamo per Eredità e Memoria come concetti che utilizzeremo quali due lati estremi di una specie di “setaccio”, attraverso cui far passare tutti gli eventi presi in considerazione per filtrarli e interpretarli con visione critica. Per Eredità storico–culturale intenderemo qualcosa di parallelo alla definizione classica, e cioè quale “lascito”, ciò che si lascia agli eredi consanguinei e intenderemo quindi “eredità” come qualcosa di formalmente automatico praticamente nella sua accezione biologica di ereditarietà genetica; in questo senso quindi prenderemo in considerazione questo termine come qualcosa che viene lasciato “automaticamente” ai posteri, i quali non solo non sono responsabili di ciò che ricevono ma non ne hanno neppure piena coscienza. Nella nostra accezione del concetto di Memoria intendiamo il coinvolgimento della presa di coscienza di una eredità subìta. Memoria sarebbe cioè quel prendere coscienza che prevede un impegno personale, come fissavamo nella memoria le poesie della nostra infanzia grazie ad un esercizio volontario per “non dimenticare”. Vedremo più avanti che la memoria avrà a che fare con il concetto di responsabilità. Faremo ora una specie di breve anamnesi rivolta ad analizzare i pregressi di questa cosiddetta “ipersensibilità” culturale viennese. Gli storici definiscono il 28 luglio 1914 il giorno dell’inizio della prima guerra mondiale, con la dichiarazione di guerra dell’Impero Austro-ungarico nei confronti della Serbia, a seguito dell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este avvenuta a Sarajevo il 28 giugno 1914. Fu un fenomeno che si manifestò a seguito di diversi eventi che cominciarono a succedersi dalla metà del 1800. L’Europa intera era un’abile equilibrista, capace di tenere in piedi una pace effimera, visto i troppi e continui conflitti che invece la vedevano coinvolta. Finita una guerra di espansione austro-prussiana del 1866 ne cominciava subito un’altra guerra franco-prussiana del 1870 da parte di un altro paese. Molto determinante per i successivi equilibri europei, che però ben presto sfoceranno in disequilibri, fu la proclamazione dell’impero tedesco e la successiva elezione del primo Reichstag tedesco. Cominciarono ad essere firmate diverse alleanze: nel 1882 quella triplice tra Germania, Austria,Ungheria e Italia, mentre nel 1894 viene firmata quella franco-russa. L’Europa è invasa da una modernità che però non garantisce condizioni di vita decente per tutti, visto che i governi non riescono a garantire un pasto caldo alle fasce meno abbienti. Esiste un abisso tra chi è ricco e chi è povero.
Chi detiene il Potere ha altri interessi, l’urgenza consiste nel possibile attacco da parte del nemico, che comporta la corsa al riarmo. Il riarmo è sempre un fatto straordinario, perché il processo stesso è rischioso e può innescare una crisi ancora prima che i suoi sostenitori diventino essi stessi un fattore di rischio. La fine dell’Ottocento e il primo decennio del 1900 rappresenta per l’Europa un’ era complicata e complessa, dove si assiste anche all’avvio di progressi positivi, come l’urbanizzazione delle città e l’invenzione delle ferrovie. Quello che non era stato calcolato era che gli Stati Uniti d’America, potenza sottovalutata, nel frattempo si preparavano ad entrare in campo, mentre gli europei combattevano l’ennesimo conflitto territoriale. Rispetto alla potenza che oggi l’America rappresenta, all’epoca invece risultava uno Stato non pericoloso, sicuramente lontano e quindi ininfluente. Una tra le eredità che il primo conflitto mondiale in quattro anni ha lasciato è la stima in circa 15 milioni di vittime tra soldati e civili l’elevata perdita di vite umane fu causata oltre che dalla guerra stessa anche dalla comparsa di malattie e di carestie, che subentrarono durante il conflitto. Quello che la storia dell’umanità ricorda e classifica come Grande Guerra, è stata la fine di un Mondo e l’inizio di un altro che non ha più conosciuto la parola Pace. La nuova fisionomia, alla fine del conflitto, significherà per alcuni paesi la voglia di rivincita. In primis però l’Europa dovette fare i conti con se stessa, da sconfitta, aveva provato ad affrontare come meglio poteva gli eventi, priva di mezzi e di uomini capaci di fronteggiare una battaglia dietro l’altra. Come pivelli alle prime armi così vennero mandati al fronte ragazzi inesperti nell’uso delle armi. A questo si aggiungano gli errori di valutazione sui campi e gli eventi atmosferici-naturali, a tal riguardo è significativa l’inondazione delle campagne del Belgio avvenuta nell’ottobre del 1914, che provocò l’arresto delle truppe tedesche, determinando di fatto il prolungamento fino al 1918 della guerra. La massa rimasta a casa aveva modo di essere informata attraverso un mezzo di comunicazione quale la stampa, che era inavvicinabile per molti cittadini, visto che richiedeva la conoscenza del saper leggere. La stampa si rivelerà infatti un utilissimo quanto pericoloso strumento durante il conflitto. Diversi sono i saggi dell’epoca che mettono in luce la fondamentale svolta, dovuta alla stampa; da un lato essa permette di passare da un’ignoranza dilagante ad una società che comprende, osserva e comincia a giudicare. Tra questi si cita l’esempio di ‘La folla’ studio della mentalità popolare del 1895, l’autore Gustave Le Bon pone in evidenza questo aspetto, anche le masse ora hanno un’opinione, “L’ingresso delle classi popolari nella vita politica è una delle più sorprendenti caratteristiche di questa nostra epoca di transizione. Le masse stanno creando sindacati davanti ai quali le autorità capitolano un giorno dopo l’altro… Oggi le rivendicazioni delle masse mirano a distruggere completamente la società come adesso esiste, con l’intenzione di tornare indietro a quel comunismo primitivo che era la condizione normale di tutti i gruppi umani prima dell’avvento della civilizzazione. Il diritto divino delle masse sta rimpiazzando il diritto divino dei re”. D’altro lato questa diffusione di notizie creerà il timore che un eccesso di conoscenza da parte delle classi considerate inferiori possa innescare l’esplosione del malcontento e quindi la stessa stampa verrà usata quale strumento di persuasione utilizzata dal potere. Infine un evento improvviso scosse l’opinione pubblica e così cadde l’ultima goccia che in qualche modo i fautori della guerra stavano aspettando: l’attentato e la morte di Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia. Ora non c’erano più motivi di aspettare, solo il tempo di organizzare le truppe e la guerra poteva avere inizio. Ecco che “la Grande Guerra” lasciò dunque sepolta un’intera generazione, con i suoi progetti, le sue scoperte, i suoi sogni e desideri, soffocati. Tanti incompresi e oscurati protagonisti di allora sono stati riscoperti solo in tempi recenti grazie al serio ed appassionato lavoro di attenti ricercatori. Un esempio è la lucida analisi che fornisce Thomas Harrison, con il suo libro 1910 L’emancipazione della dissonanza, testo che ci conduce ancora una volta a quel fatale 1910 in cui ebbe inizio il noto e sciagurato percorso autodistruttivo posto sotto la nostra attenzione. Tre nazioni, germanica, austriaca e italiana, tra fine Ottocento e primi Novecento, avevano vissuto un periodo di espansione territoriale che generò una convivenza forzata di diversi popoli, trasformando le vecchie città in un groviglio di diverse tradizioni, culture e linguaggi. In queste confuse condizioni di vita, in una boriosa atmosfera di autocelebrazione di conquiste appena ottenute dalle classi al potere, si nascondeva una diffusa e profonda prostrazione testimoniata dal preoccupante aumentare del numero di suicidi da parte di giovani studenti, intellettuali e filosofi, o semplici giovani cittadini in un mondo del quale non si sentivano più partecipi. Spesso questi episodi non sembravano avere una spiegazione logica, dettata semplicemente da tragici fallimenti personali o amorosi; questi suicidi erano invece stranamente accomunati da un misterioso e generico senso di nichilismo e da una strana e forte lucidità che li accompagnava verso un ultimo gesto fatto non di occasionale perdita di coscienza, ma di volontà, calcolo e determinazione. Forte influenza avrà senz’altro avuto il clima filosofico vissuto nei luoghi di studio e ricerca di quel periodo, un nebbioso clima intriso di una nuova confusa e cupa consapevolezza: l’uomo “moderno”, abbandonando le vecchie certezze teleologiche, era ora in grado di decidere autonomamente della propria vita e se la propria vita era ora divenuta quasi solo un semplice diritto soggettivo, allora si poteva decidere in ogni momento di decretarne la fine. Su questa drammatica escalation di morti venne organizzata una conferenza proprio nel 1910 a Trieste e questa fu organizzata con l’intento di approfondire ed analizzare attentamente i motivi di questa preoccupante tendenza giovanile. Sarà certo un semplice caso ma, per ironia della sorte, tra gli organizzatori di questa conferenza figurava proprio quel Sigmund Freud destinato ad incrinare e poi scuotere profondamente le visioni del mondo della vecchia Europa, ancora intrise di un’illusa cieca fiducia nella “Ragione Cosciente”. Senza aprire un capitolo sulla nascita della psicoanalisi, ci basti sapere, a livello di cultura diffusa, quanto pesò la scoperta dell’inconscio quale realtà oscura che misteriosamente minava la certezza delle scelte fino ad allora considerate “razionali” e coscienti; quanto pesò poi la teoria della rimozione dalla “memoria cosciente” di eventi pericolosi per l’armonia interiore e il mistero di un nuovo modo di considerare il corpo e il sesso. Queste grandi novità destabilizzarono la sicurezza dell’individuo, ed aprirono la ricerca allo studio delle malattie psicotiche nel singolo come a livello sociale, sconfessando la vecchia psichiatria e i metodi fino ad allora utilizzati negli ospedali psichiatrici, così presenti in maniera inquietante nelle opere di Schiele. “A ogni epoca la sua arte, all’arte la sua libertà” è il motto con il quale la Secessione si mostrò al mondo ed è anche l’iscrizione apposta sul Palazzo dove sarebbero state organizzate le future mostre espositive; il Palazzo della Secessione è opera di J.M. Olbrich, costruito tra il 1897-1898, ispirato da un disegno dello stesso Klimt. La Secessione, inizialmente nata come gruppo di artisti autonominatosi come “Primavera Sacra”, ebbe una durata di circa otto anni, durante i quali fece cambiare l’approccio del pubblico verso l’arte. Come arte totale, a partire dalla parte grafica, con la rivista Ver Sacrum, e nell’esposizione delle opere d’arte, dove tutto conferiva verso un unicum. Gli spazi, le pareti insieme all’utilizzo di tutti i materiali, dava unicità al loro intento di arte. Mentore Klimt, insieme a J. Hoffmann e ad altri artisti, si decise di costruire un luogo dove vigesse l’idea guida dell’unione tra architettura, pittura e arti decorative, dinamica che doveva condurre il pubblico verso una nuova visione dell’arte. La “linea” dello stile secessionista diviene tratto tranquillizzante fondamentale: arte come strumento di funzionalità per le esigenze contingenti dell’ era delle industrie e delle macchine, uno slogan contro la massificazione e la riduzione del quantitativo della produzione industriale, che doveva rimettere al centro l’artigianato e l’uomo. Senza appoggi e sovvenzioni ministeriali, questi artisti riuscivano a godere di un intenso mecenatismo, soprattutto clienti ebrei, che risultarono essere molto amanti di questa nuova arte moderna. Precoce è stato l’esordio di Gustav Klimt all’età di 14 anni entrò alla scuola di arti applicate di Vienna, superando con lode l’esame di ammissione. Anche suo fratello Ernst vi entrò a far parte e insieme a Franz von Marsch formarono, una volta terminato il ciclo di studi, un sodalizio, la Künstler-Compagnie, che riuscì ad ottenere diversi incarichi, soprattutto alla morte di Makart, avvenuta nel 1884. La Künstler-Compagnie, all’apice del successo, ebbe un drammatico epilogo con la morte improvvisa di Ernst. Questo avvenimento familiare comporterà per Klimt una lunga riflessione che lo porterà ad una presa di posizione verso un atteggiamento che aveva respirato durante gli studi alla scuola di arti applicate. Insieme ad altri ex allievi della scuola cominciò il percorso della Primavera Sacra. Il nuovo fermento artistico viennese risultò essere il punto di non ritorno per Klimt in contrasto con la tradizione. Considerato fedele erede di Hans Makart, Klimt in realtà cominciò a far germogliare le radici che la Scuola di arti applicate gli aveva lasciato trasgredendo e trasformando le vecchie regole in nuove visioni della realtà. Da designato erede di Makart si rivelò al centro della rivoluzione artistica: il pittore del XX secolo doveva avere un suo stile. Questa nuova organizzazione voleva dare l’impronta di una nuova etica artistica: il bello non è più fondamentale, diviene essenziale invece il messaggio e l’interazione con lo spettatore. Il culmine di questo progetto combaciò con l’inizio della sua fine: il 1902, anno della mostra su Beethoven, si raggiunse un livello di sviluppo che comportò anche la consapevolezza che la parabola della Secessione era ormai destinata ad un rapido epilogo. Pittore che ha saputo nel corso della sua vita cogliere e cambiare generi stilistici differenti, a dimostrazione del fermento artistico ed evolutivo austriaco da una parte e della sua grande intuizione dall’altra, Klimt, prima di Freud, aveva intuito e aveva espresso la visione del dentro, di quell’inconscio che voleva gridare al mondo la nuova visione dell’erotismo, della femminilità e dell’aggressività. Vantando una forte componente di genio e follia, che erano capaci di scatenare la facoltà di immaginazione che superava nell’atto artistico un potente effetto eccentrico, ebbe una visione da preveggente nel comprendere la degenerazione della società industriale moderna. La sua formazione umana si era creata anche grazie alla frequentazione dei caffè, dove poteva discorrere con dottori, filosofi e scienziati. Il salotto di una sua grande ammiratrice come Berta Zuckerkandl era una fonte inesauribile di committenze. Era un grande amante del sapere, instancabile studioso e grande conoscitore dell’arte antica come di quella contemporanea. I viaggi, le influenze degli artisti contemporanei visti durante le Esposizioni, la commistione tra arte e scienza, arte e storia, arte e musica, dovettero essere certamente stimoli molto forti e capaci di fargli raggiungere la consapevolezza del bisogno di un nuovo rapporto con lo spettatore. Il valore della sensibilità dimostrata da Gustav Klimt durante la sua vita è inestimabile, uniti alla generosità e alla disponibilità che dispensava ai giovani emergenti, tutti elementi che lo elevano a punto cardine nella storia dell’arte moderna viennese. Senza di lui artisti come Egon Schiele e Oskar Kokoschka non avrebbero avuto non solo la possibilità di esporre le loro opere, ma anche di entrare in contatto con un clima, che non senza difficoltà, li ha distinti all’epoca. Klimt, ben consapevole di essere solo il loro trampolino di lancio, li vedrà entrambi distanziarsi dal suo stile. I suoi pupilli porteranno a termine quello che il maestro aveva lasciato come discorso sospeso, l’impreziosimento degli ori dei suoi ritratti si rivelerà nelle giovani matricole in scarne e vive rappresentazioni di un vuoto interiore. Si può azzardare affermando che se l’evoluzione artistica di Klimt sta nell’intuizione di rottura con l’associazione ufficiale degli artisti, così l’evoluzione artistica di Schiele e Kokoschka sta nell’aver incontrato Klimt. Punti di eredità da parte del suo pupillo Schiele saranno lo studio della donna e l’erotismo, che il giovane Schiele riprenderà con un soggettivismo tutto suo. Klimt restò sempre ad un livello allegorico della figura femminile, donando quel tocco di erotismo che trasforma la sua figura in eterna divinità. In Klimt ebbe una componente accademica, che lo vincolava rispetto a Schiele e Kokoschka: le proporzioni, aspetto che invece risulterà essere il primo a saltare nell’espressionismo. Viso e mani in Klimt erano naturali, mai estremizzati come invece fecero Schiele e Kokoschka. Abilissimo artigiano, seppe fondere modernità con l’arte classica, impreziosendo con la sua dote di artigiano le foglie d’oro. Comprendeva anche l’arte giapponese che amava moltissimo. La donna in Klimt è un soggetto che fin dall’adolescenza ricopre un ruolo fondamentale, di studio perenne, come una meta in continua ricerca, ma anche in perenne cambio di forma e di struttura. Raffigurare la donna è stato anche il suo modo di voltare pagina, verso un’arte ogni volta nuova. I tre ritratti femminili, presenti in queste pagine, rappresentano il superamento e i suoi continui passaggi verso una forma d’arte che rifletteva le sue nuove sensibilità. Il Ritratto femminile del 1894 sembra lontano dal Klimt de Il bacio del 1907, da Le tre età della donna del 1905. Il passaggio all’Espressionismo quasi a raggiungere quello dei suoi pupilli avvenne con il ritratto dove scomparvero l’allegoria e le decorazioni, tutto scompare per fare luce al viso, come nel ritratto di Johanna Staude, datato 1917-1918. Il mentore aveva spianato la strada ma non superò mai i limiti che invece Schiele e Kokoschka superarono subito, distanziandosene fin da subito. Oltre a queste differenze, gli allievi realizzarono moltissimi autoritratti, mentre Klimt non lavorò mai su un autoritratto, dichiarando che la sua immagine non aveva alcun interesse. L’opera che consacra l’inizio dell’arte moderna è il Fregio di Beethoven del 1902, Klimt risulterà essere passato definitivamente ad una nuova era. Un’era nuova anche per quanti furono spettatori del suo capolavoro. La resa temporale del “racconto” fu permessa anche da un passaggio che conduceva alla prima parete lunga, dove vi erano raffigurati il desiderio di felicità, le sofferenze dell’umanità, le preghiere di queste all’uomo forte e ben armato, la compassione e l’orgoglio che inducono a intraprendere la lotta per la felicità. Nella parete stretta sono dipinte le forze nemiche e il gigante Tifeo. Nella seconda parete lunga ci sono invece il desiderio di felicità che viene appagato nella poesia, e nelle arti, come la musica, che ci conducono nel regno ideale dove solo noi possiamo trovare la vera gioia, la vera felicità, il vero amore. L’arcaicismo, trova una nuova forma di sfondamento, un simbolo dirompente che non è assolutamente classicismo, ma è una forza fondata sulla mitologia. È un’opera preziosa questa, dove vi è una sperimentazione di pose e di espressioni alla ricerca di un’intensità. L’ affresco è realizzato con diversi materiali, tra cui: vernice, gesso, frammenti di specchi, graffite e lame d’oro. Sono presenti il rapporto uomo–donna, con una forte componente di pathos e gestualità del corpo umano, elementi tra di loro contradditori e ambivalenti. L’importanza del pensiero e dell’opera di Beethoven venne consacrata attraverso questo affresco e dall’intera mostra secessionista. Con il passaggio al XX secolo Vienna si ritrovò ad affrontare quel malessere generazionale, la rottura ufficiale con l’arte accademica, cominciata nel 1896 da Klimt, che ebbe come passaggio ulteriore uno stile che oltre alla rottura, avrà un nuovo messaggio da diffondere. Un nuovo punto di partenza: l’arte moderna. Non esiste un inizio ufficiale dello stile espressionista viennese, né un gruppo, né un luogo fisico: esprime semplicemente un desiderio di condivisione, di forte turbamento che esige l’interazione con lo spettatore. Quello che fu evidente all’epoca era la necessità da parte di chi sentiva cambiare i tempi, di poter esprimere questo sentimento. Le nuove frontiere della medicina, con gli studi della mente umana, la visione della pazzia, del turbamento presenti negli ospedali psichiatrici, furono rappresentati soprattutto da Egon Schiele e Oskar Kokoschka, che seppero rilevare la nuova frontiera dell’arte pittorica rivolta alla medicina e alla psiche umana. Molti saranno i ritratti che non avevano nulla a che vedere con la bellezza, con i canoni accademici delle proporzioni, rilevavano invece ansie, nevrosi, debolezze attraverso mani e occhi. L’arte cosiddetta espressionista abbraccia una realtà sociale che comporta un rapporto nuovo che si instaura tra l’Uomo e la Natura, tra l’Uomo e la Modernità, discorsi talmente rivoluzionari da parte di fisici che sconvolsero la società rompendo gli schemi nelle arti, modificando le idee filosofiche e le motivazioni della politica. Dapprima il fisico Jean Bernard Léon Foucault che formalizzò un discorso sospeso da tempo sulla certezzadella teoria che sia la Terra a girare intorno al Sole, facendo crollare il centralismo terrestre. Successivamente Max Planck e Albert Einstein che con la teoria dei quanti, e con quella della relatività, evidenzieranno un passaggio epocale essenziale nella storia di questa generazione. L’espressionismo tedesco sarà uno stile che condividerà con i viennesi una linea di tendenza nuova, ma allo stesso tempo molto diversi. La frammentarietà, disomogeneità tipiche di questo stile sono visibili e riscontrabili, proprio per questa contraddittorietà di fondo: nessuna scuola, né formazione da cui gli artisti potevano trarre spunti, l’unica linea guida è la pura e semplice espressione del di dentro. In Germania la sfaccettatura verrà evidenziata dalla formazione di diversi gruppi.
Il primo nacque nel 1905, Die Brücke, (Il ponte) creato contro tutti i convenzionalismi. In qualche modo è il primo vero nucleo, anticipatore anche di quello viennese. Grazie a loro cominciò il percorso della pittura e della grafica espressionista dove fa irruzione un’arte dall’interiorità irrazionale, con una concezione metafisica e una visione audace della realtà. Con i colori come forza evocatrice dei paesaggi, dove l’uomo tenta di riprendersi e di riallacciare il contatto con la natura. Nel 1911 nasce Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro) capeggiato da Vasilij Kandinsky, l’intento di questo gruppo era l’astrazione, Kandinsky ambiva ad un rinnovamento spirituale dell’arte. Primo acquerello astratto del 1910 di Kandinsky è l’opera che segue ad un libro Astrazione e Empatia di Wilhelm Worringer del 1908, seguendo un percorso che condurrà a delle autentiche rotture con scardinamento delle regole. L’arte astratta non immobilizza lo spettatore, non esiste più un filtro, vi è una comunicazione diretta, la spiritualità pittorica ha finalmente abbattuto un ostacolo tra il quadro e il pubblico. La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorte di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Esiste oggi una realtà come l’esempio di Vienna, con i suoi caffè e i pomeriggi nei salotti? No, perché esiste una connessione e interconnessione diversa, basata principalmente sull’assenza di distanza spaziale. La distanza vicina è inesistente. Quello che differenzia il prima e il dopo è la profonda superficialità delle vicinanze contemporanee. Il nostro mondo rispetto a quello di “ieri” consiste in una diversa modalità del vivere sociale. È come se le parole avessero cambiato la propria connotazione: da sociale a social; da persona a profilo; da caffè Central a smile. Non è facile un’analisi specifica e dettagliata in proposito e non è comunque compito di questa tesi. A cento anni dallo scoppio della Grande Guerra siamo ancora prigionieri di quella crisi filosofica e politica, che sembra aver generato quel conflitto. Siamo in grado di ricreare in qualche modo il clima viennese ricco di incontri, di vissuti e discipline diverse? Forse ancora oggi non siamo riusciti a far veramente memoria di quei tempi e diventare coscienti di quell’eredità. La nostra attuale situazione è in qualche modo paragonabile a chi ha ereditato un lascito economico fatto di debiti e crediti senza esserne a conoscenza: solo una totale presa di coscienza ci rende responsabili di debiti e crediti e solo tale “coscienza responsabile” ci mette nelle condizioni di fare un bilancio, di dover fare qualcosa per sanare i debiti e percepire i crediti ereditati. Forse un tale bilancio totalmente cosciente non è mai stato fatto, soprattutto dalla stessa Europa, caduta inesorabilmente, a pochi anni di distanza dalla prima, in una seconda guerra mondiale. L’urlo immaginario dell’espressionismo, giunto fino a noi, forse non ha ancora generato la coscienza sufficiente a maturare una responsabilità che possa permetterci quel salto di “veri cittadini del mondo”, fuori dai vecchi pregiudizi ed aperti ad un “dialogo totale”, filosofico, religioso, intergenerazionale e interculturale, un dialogo aperto all’ascolto e generato da una memoria emotiva capace di analizzare gli errori del passato, perché solo così può immaginare di non ripeterli. Collettivamente l’intera Europa, riunita in un unico corpo, pensando a Freud, è come se si trovasse di fronte ad una parziale “rimozione” di quegli eventi, che oggi appaiono scomodi alla sopravvivenza di un sistema fatto di relazioni intrise di conflitti, che, sotterraneamente, manifestano ancora nodi profondi non dipanati. Come nella rimozione, la memoria cede qualcosa all’inconscio quando inconsapevolmente lascia cadere nell’oblio le testimonianze di eventi e situazioni scomode; scomode perché prevedono una presa d’atto che comporterebbe comunque sofferenza e volontà di cambiamento. Quel che ho cercato di fare con questo saggio è un tentativo di riprendere un discorso in parte interrotto, un’eredità in parte bloccata, vecchie esperienze che se rivisitate in tutta la loro forza potrebbero rivitalizzare quel dialogo fuori dal tempo che ci aiuterebbe ad approfondire il nostro stesso vissuto.
Come ultimo tassello di questo complesso percorso tra eredità e memoria, aggiungo un mio immaginario progetto, che definirei di archeologia storico comparativa dei climi culturali, che consiste in un personale sogno-sceneggiatura, parafrasando Schnitzler, in cui i principali protagonisti di questa mia ricerca “si trovano a discutere” su cosa viene detto e non detto di loro. È forse un sogno irrealizzabile o ad occhi chiusi spalancati e vorrebbe rappresentare quel dialogo impossibile tra generazioni diverse, fuori dal tempo storico-cronologico. All’inizio della mostra, ci si potrà immergere nel mondo di Klimt grazie ad una sala virtuale – realizzata con il contributo della Fondazione Perugia – dove sono illustrati i maggiori dipinti dell’artista e viene descritto nei minimi particolari Le tre età, prima di poterlo osservare dal vero. L’allestimento della mostra rimanda al gusto della Secessione viennese di cui Gustav Klimt fu uno dei fondatori. Il volume stereometrico bianco del portale con decorazioni geometriche, le pareti con il motivo a losanghe, la zoccolatura scura che disegna i contorni delle vetrine sono riferimenti al padiglione austriaco di Josef Hoffman per l’Esposizione Internazionale di Belle Arti di Roma del 1911, mentre l’uso dell’inconfondibile carattere tipografico curvilineo dorato richiama VER SACRUM, la rivista secessionista il cui iconico titolo è riportato in caratteri dorati all’ingresso del palazzo della Secessione di Olbrich a Vienna. Varcare il portale equivale quindi ad attraversare un ideale stargate che porta il visitatore ad ammirare l’opera di Klimt in un “ambiente analogo” per atmosfera e suggestioni a quello della Biennale di Venezia del 1910, in cui veniva esposto proprio il capolavoro Le tre età, e dell’Esposizione Internazionale di Roma del 1911 che consacrò anche in Italia la fama imperitura di Klimt. È arricchita dall’ascolto in sottofondo del brano VerklärteNacht (Notte trasfigurata), composto dal viennese Arnold Schoenberg. Il tema delle tre età ricorre spesso nella storia dell’arte, ma si concentra soprattutto sull’uomo. Giorgione, Tiziano, Van Dyck, Friedrich sono soltanto alcuni dei maestri che si cimentano con questo soggetto, dimostrando la loro capacità di restituire con precisione le fisionomie e i corpi di bambini, giovani e anziani, nel tentativo di rappresentare l’ineluttabilità del tempo che passa. È molto raro che a illustrare questo destino siano dei soggetti femminili, laddove il rapporto tra giovani e anziane nella pittura del passato si è concentrato sull’accostamento della Vergine Maria e Sant’Anna. Klimt affronta questo tema da un punto di vista laico, facendone un omaggio alla complessità del corpo femminile, che cambia aspetto nel corso degli anni, ma soprattutto accompagna un diverso atteggiamento nei confronti della vita. Le tre donne di questo capolavoro diventano anche la metafora di una civiltà, che all’inizio del Novecento sta lasciando dietro di sé una visione classica del mondo per immergersi nelle inquietudini del XX secolo, sollecitate dai nuovi studi psicoanalitici e dai rapporti politici sempre più esacerbati. In questa visione problematica della storia, Klimt esordisce con uno stile elegante, complesso ed estremamente innovativo, che riscuoterà un successo clamoroso, ancora oggi condiviso dal grande pubblico. Tre corpi femminili stretti tra due ali di pioggia cristallina, che cade da una superficie nera compatta. Dietro di loro si accendono segni che contribuiscono ad esaltare l’emozione definita dal loro aspetto. La donna più anziana, inerme, disperata, possiede un corpo dal volume deciso, che si impone con le sue ombre portate all’altezza del ventre, della schiena e del collo, mentre esplora lo spazio con i piedi dipinti in perfetta prospettiva. La giovane madre ha un corpo quasi a due dimensioni, bianco, diafano, alleggerito dall’assenza dei piedi, ma Klimt concentra la nostra attenzione piuttosto sul suo viso, immerso in una chioma bionda – come quella della Venere di Botticelli – sparsa di fiori che germogliano da nuclei che alludono al suo potere generatore. S’è addormentata con sua figlia in braccio, ritratta in posizione speculare rispetto all’anziana, con la quale chiude il cerchio della vita.
Galleria Nazionale dell’Umbria
Un Capolavoro a Perugia Klimt Le Tre età
dal 28 Giugno 2024 al 15 Settembre 2024
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 8.30 alle ore 19.30