Gazzettino Italiano Patagónico

Favoloso Calvino. Il mondo come opera d’arte in mostra

alle Scuderie del Quirinale 

Giovanni Cardone Ottobre 2023

Fino al 4 Febbraio 2024 si potrà ammirare alle Scuderie del Quirinale Roma, una grande mostra dedicata ad Italo Calvino che fa parte del ciclo delle Celebrazioni della nascita del Poeta, Favoloso Calvino. Il mondo come opera d’arte. Carpaccio, de Chirico, Gnoli, Melotti e gli altri, la è mostra organizzata con la casa editrice Electa ed è curata da Mario Barenghi. L’esposizione è realizzata in collaborazione con Regione Liguria e Comune di Genova con Fondazione Palazzo Ducale. Main sponsor American Express, con il supporto di Fondazione Passadore 1888, sponsor Banca Passadore. Media partner: Rai Cultura e Rai Radio 3. La mostra propone un percorso tendenzialmente cronologico, che mira a illustrare i caratteri e l’evoluzione dell’immaginario calviniano dagli anni di formazione e dalle prime prove agli anni della maturità artistica, fino ai tanti progetti lasciati in sospeso. Si è però ritenuto opportuno inserire due premesse. La prima consiste nel riferimento lungo la cordonata al testo del 1971 Dall’opaco, che offre una suggestiva stilizzazione del paesaggio originario di Calvino; la seconda, nella prima sala, promuove l’immagine della foresta a emblema dell’intera opera calviniana, grazie all’installazione di Eva Jospin Forêt Palatine. L’arte è per Calvino un’inesauribile miniera di ispirazioni. La gamma dei riferimenti è quanto mai ampia, e comprende sia le scelte di copertina dei libri (mai casuali, mai secondarie, specie nel caso degli amati Klee e Picasso), sia gli scritti dedicati a singoli artisti (Carlo Levi, Giorgio de Chirico, Domenico Gnoli, Luigi Serafini, Enrico Baj, Tullio Pericoli e tanti altri), sia i casi in cui è proprio un modello visuale ad alimentare la creatività (come accade con Fausto Melotti, Giulio Paolini, Saul Steinberg): mentre, sul versante opposto, si registrano le opere e le installazioni direttamente ispirate ai suoi libri, come gli acquerelli di Pedro Cano sulle Città invisibili, il «veridico ritratto del signor Palomar» di Daniel Maja, Calvino di Richard Serra. In una mia ricerca storiografica e scientifica su Italo Calvino ‘Uno Scrittore Senza Tempo’ apro il mio saggio dicendo : Nel corso del decennio 1955-1965 la società italiana attraversa un impetuoso processo di industrializzazione e modernizzazione destinato a trasformare il volto del Paese. Nelle regioni settentrionali la nuova civiltà industriale prende il sopravvento su quella contadina. Essa produce una formidabile accelerazione dei processi di trasformazione in ogni aspetto della realtà: l’ambiente geografico, umano, sociale assumono ormai caratteristiche del tutto nuove, che non possono che influenzare, se non determinare, i comportamenti individuali e sociali, le ideologie e le visioni del mondo. Il sud del Paese però rimane pressoché escluso dal fenomeno: la sua funzione in questo contesto consiste essenzialmente nel fornire mano d’opera alle industrie del Nord. Ne consegue lo spopolamento delle campagne e il trasferimento di milioni di persone nelle città industriali del settentrione. L’Italia si prepara così a diventare una delle grandi potenze industriali a livello mondiale. Si ha una rapida diffusione dei consumi; cambiano le abitudini e gli stili di vita. Sono gli anni della scuola media pubblica, della motorizzazione di massa, della televisione e della pubblicità. Comincia ad affermarsi nel nostro Paese quella ‘società del benessere’ che assume come proprio riferimento il modello di vita americano. Pasolini interpreta questo fenomeno come vera e propria «mutazione antropologica». Se da un lato però il benessere diffuso tende a attenuare i gravi problemi ereditati dal passato, dall’altro l’industrializzazione accentua gli squilibri storici del Paese, primo fra tutti il contrasto tra Nord e Sud: il primo in forte crescita economica, il secondo sempre più povero anche a causa dell’esodo dalle campagne. Il processo di sviluppo sinteticamente descritto trae origine dalla situazione storico-politica determinatasi all’indomani del secondo conflitto mondiale. La vittoria della Democrazia Cristiana di De Gasperi alle elezioni del 1948 aveva permesso l’adozione di una politica economica liberistica sensibile alle istanze della nuova classe capitalistica e imprenditoriale che richiedeva minore ingerenza da parte dello stato e un ridimensionamento del potere sindacale. Nel 1956 la sinistra italiana, legata strettamente al PCUS sovietico, conosce una gravissima crisi: la pubblicazione del rapporto Kruscëv sui crimini di Stalin e l’invasione dell’Ungheria, producono un grave turbamento in quanti si riconoscevano nello schieramento di sinistra e vedevano nell’URSS il mito del socialismo realizzato. Ne consegue tra l’altro la fine dell’alleanza tra il Partito Comunista e il Partito Socialista. Tramonta anche l’idea dell’impegno politico-culturale comune tra le forze progressiste per il miglioramento della società. Sul finire degli anni Cinquanta la situazione socioeconomica italiana diventa più complessa e problematica a causa dell’accelerazione del processo di sviluppo. La politica centrista risulta inadeguata a confrontarsi con una società sempre più dinamica. Vi è la necessità di aprire alle forze progressiste: s’instaura un intesa DCPSI da cui nel 1962 nasce il primo governo di centro-sinistra di Amintore Fanfani. La nuova coalizione si propone una politica moderatamente riformatrice allo scopo di razionalizzare il Paese e attenuare i forti contrasti sociali. Proposito che fallisce a causa della resistenza delle forze più conservatrici della DC. A partire della seconda metà degli anni Sessanta, anche il boom economico comincia ad esaurire la sua forza, aprendo la strada a una fase di recessione. I forti squilibri del Paese (disoccupazione, inflazione, divario Nord-Sud) si manifestano in tutta la loro gravità e urgenza. L’esplosione delle manifestazioni studentesche del ’68 chiudono un periodo di grandi travagli e trasformazioni. Sul finire degli anni Cinquanta l’economia è ormai il nuovo paradigma di riferimento in ogni settore e campo d’azione dell’uomo, cultura compresa. L’industrializzazione ridefinisce le strutture produttive del sistema culturale producendo fatti nuovi: un pubblico di massa, un mercato culturale sempre più ampio, mezzi di comunicazione (soprattutto la novità della televisione nel 1954) e di distribuzione dotati di una capacità diffusiva mai vista prima, l’avvento di nuove professioni e di sistemi organizzativi della produzione e del lavoro. Un settore fino allora caratterizzato da una certa «artigianalità» comincia ad assumere la fisionomia di una moderna industria capace di produrre su vasta scala. La logica consumistica si afferma anche nella fruizione dei beni culturali: l’opera letteraria diventa un oggetto commerciale controllato più dal marketing manager che dall’autore stesso. Il benessere (relativamente) diffuso e la scolarizzazione di massa (la scuola media unica è del 1962) producono un ampio pubblico di consumatori di contenuti culturali. Uno degli esempi più appariscenti fu il grande successo editoriale della collana economica degli Oscar Mondadori, per la prima volta distribuita anche nelle edicole. Ne consegue però anche un’inevitabile omogeneizzazione dei gusti e tutti gli altri pericoli della cultura di massa ben descritti da Umberto Eco nel suo fortunato saggio del 1964, Apocalittici e Integrati . Sono gli anni delle concentrazioni e integrazioni a livello internazionale che coinvolgono le maggiori aziende culturali private italiane come la Mondadori e la Rizzoli; gli anni in cui il potere politico-economico (sia pubblico che privato) assume direttamente il controllo del sistema della cultura nel Paese (Eni, Fiat, Montedison tra l’altro finanziano giornali e pubblicità). L’uomo di industria che realizza le iniziative più interessanti è sicuramente Adriano Olivetti, che negli anni Cinquanta ad Ivrea raggruppa un notevole gruppo di intellettuali , i quali, oltre a ricoprire ruoli aziendali, collaborano alla rivista voluta da Olivetti, «Comunità». Il progetto di Olivetti è di avviare un’armonica integrazione tra cultura umanistica e tecnico-scientifica. Olivetti finanzia tra l’altro vari programmi di sviluppo socio-culturale (biblioteche, asili-nido, centri ricreativi aziendali). Si è ormai delineato un nuovo contesto sociale complesso e denso di contraddizioni. A soffrirne particolarmente è la figura dell’intellettuale-letterato. Egli ha la necessità di ridefinire urgentemente i ruoli e le funzioni della cultura nel nuovo panorama industriale. Si tratta di un processo di presa di coscienza che fino ad allora in Italia stentava ad avviarsi. Nel primo Novecento i futuristi esaltano la macchina, in cui incarnano lo spirito di potenza e la velocità; ne fanno il mito della modernità e i letterati si ergono a sacerdoti della cultura industriale . Durante il ventennio fascista comincia prendere forma il nuovo capitalismo italiano, basato sulle grandi concentrazioni economico-finanziarie pubbliche e private. Successivamente, nel secondo dopoguerra, l’Italia si prepara a diventare una delle principali potenze industriali a livello mondiale. A questi grandi fermenti e trasformazioni non corrisponde un interesse da parte degli scrittori e degli intellettuali in genere. Bisognerà aspettare la fine degli anni Cinquanta, quando il boom economico non potrà più nascondere i forti squilibri e le contraddizioni: il divario tra Nord e Sud, la disoccupazione, l’inflazione, lo spopolamento delle campagne, ecc. Quello che nel complesso appare come un notevole processo di sviluppo, si rivelerà incapace di includere tutti i cittadini e tutte le aree del Paese, insufficiente a realizzarsi compiutamente in progresso civile e sociale. In questo scenario si avvia finalmente la trasformazione della vecchia condizione dell’intellettuale umanista (risalente all’età giolittiana e aggiornata nel secondo dopoguerra dal crociogramscismo). Decade quella concezione tradizionale del letterato-chierico ancora difesa dall’«Officina» di Pasolini, Leonetti e Roversi. Prende piede una figura, come sostiene Romano Luperini, «d’intellettuale-tecnico, lavoratore salariato al servizio dell’apparato culturale in cui lavora». Uno specialista privo di un’effettiva specializzazione» . La condizione dell’intellettuale è di continua precarietà in quanto ormai non può controllare gli strumenti di ricerca e d’interpretazione della realtà, dato che questi cambiano continuamente sulla spinta delle trasformazioni dell’industria culturale. Un punto interessante risulta l’osservazione attraverso l’analisi della produzione teorico-letteraria del periodo  di come gli scrittori affrontano questa condizione di crisi ideologica ed ‘esistenziale’. Si proverà in questa sede ad analizzare i testi ritenuti più significativi pubblicati sui numeri 4 e 5 de «Il Menabò», rivista che fu in grado di affrontare con un certo rigore metodologico le questioni sui rapporti tra letteratura e industria, per tentare, seppur parzialmente, di descrivere gli sforzi compiuti dagli intellettuali tendenti all’ardua ricomposizione di una frattura socio- culturale profonda. Intorno alla metà degli anni Cinquanta cominciò ad esaurirsi la stagione del Neorealismo, l’unica poetica ancora riconosciuta come ‘legittima’ per aver dato espressione agli ideali della lotta partigiana. Essa era considerata dai teorici di sinistra come la poetica dell’impegno progressista, garanzia per la costruzione di una società migliore . L’occasione di tale esaurimento fu la polemica scoppiata nel 1955 intorno al romanzo di Pratolini, Metello. La discussione fece emergere l’inattualità di una formula non più in grado di rappresentare la complessità del reale e di risolvere i problemi linguistici che si erano manifestati. La cultura progressista vicina al PCI, invece di affrontare le questioni, preferì attuare una rigida difesa della formula neorealista, rigettando quegli aspetti innovativi che pure avrebbero potuto contribuire a un rinnovamento letterario . In campo poetico, anche se la crisi ebbe qui portata minore data la modesta diffusione della poetica neorealista, i problemi linguistici furono più accentuati, data l’incapacità dei poeti di rinnovare i moduli linguistico-formali per aderire maggiormente alle nuove contingenze storiche. «Le loro opere oscillarono di continuo tra versificazione prosasticamente dimessa e tensione eroico-retorica di stampo ottocentesco» . In verità, la corrente poetica dominante nel decennio successivo alla guerra era ancora l’Ermetismo, anche se poeti come Quasimodo, e soprattutto Saba, Penna e Caproni cominciano ad allontanarsi da questa poetica. Nella metà degli anni Cinquanta i modi della poesia ermetica scadono nel manierismo scolastico. Anche in quei poeti esordienti che in seguito formuleranno poetiche alternative, come Fortini, Sereni e Zanzotto, è facile ravvisare tracce di manierismo. Si comprende quindi come alle leve più giovani il panorama letterario di quegli anni apparisse in gran parte statico e chiuso. Si faceva strada il bisogno di tentare nuove vie, di scuotere una situazione rigida e stantia. I letterati che andranno a formare la nuova avanguardia si ritrovano così ad operare in un clima di crisi: del Neorealismo e dell’Ermetismo da una parte, del frontismo culturale dominante dal dopoguerra dall’altra. Inoltre occorre tener conto delle rapide trasformazioni dell’industria culturale che, come si è visto, pone in discussione il tradizionale ruolo l’intellettuale . Nel 1955 nasce a Bologna la rivista bimestrale «Officina», fondata da Pasolini, Leonetti e Roversi. Essa si pone l’obbiettivo di avviare una revisione della tradizione culturale italiana, specie del Novecento. Il primo numero si apre con un articolo di Pasolini sulla poesia di Pascoli, considerato il capostipite del neosperimentalismo novecentesco. Gli officineschi rivolgono in particolare la loro analisi critica a tutta quella linea poetica definita ‘novecentismo’ che va da «La Voce» all’Ermetismo, al quale è attribuita una «interpretazione, sostanzialmente edonistica della letteratura», nonché un’eccessiva chiusura nella letterarietà. Nella sua poetica la rivista definisce il proprio impegno culturale, che si incentra in special modo nell’affrontare il tema principale di quegli anni: il rapporto tra letteratura e realtà. «Officina» declina questo argomento nei termini di un impegno inteso sì come imperativo etico, ma autonomo rispetto alla politica e ai modi di elaborazione di tale rapporto. Pasolini chiama ‘neosperimentalismo’ questo atteggiamento poetico e ne formalizza i caratteri nell’omonimo intervento apparso nel 1956 sul numero 5 della rivista. Nel suo scritto egli esprime l’esigenza di staccarsi dalla tradizione più recente ancora dominata dal Neorealismo e dall’Ermetismo, ma anche dai precetti di scuole e partiti. Recuperare quindi quella libertà stilistica, di ricerca e sperimentazione di modi e soluzioni personali. L’autonomia rivendicata in ogni caso non prescindeva dal solido riferimento ideologico del marxismo critico, dalla piena fiducia nella storia. Pasolini inoltre vedeva in Carducci e Pascoli il modello di verso prosastico ideale per elaborare in forma di poemetto una poesia concreta e impegnata . Il limite fondamentale di «Officina» consiste nell’incapacità di sviluppare un progetto innovativo rispondente all’evoluzione socio-culturale del periodo. Inoltre gli officineschi rimangono legati a quell’idea tradizionale della funzione degli intellettuali di stampo storicista. Ed è proprio l’accusa di «storicismo consolatorio» ad essere loro mossa da esponenti della Neoavanguardia, primo fra tutti Sanguineti, con la sua Una polemica in Prosa inviata a Pasolini per aver definito neosperimentali alcuni suoi testi poetici. L’esperienza di «Officina» costituisce un punto di riferimento per la nuova rivista «Il Menabò» con la quale Vittorini nel 1959 intende tornare al ruolo di organizzatore culturale dopo il periodo dei «Gettoni» e ancor prima del «Politecnico». A collaborare alla rivista, Vittorini chiama due officineschi, Roversi e Leonetti, mentre come condirettore sceglie Calvino. «Il Menabò» è una pubblicazione senza periodicità fissa, a metà tra la rivista e la collana letteraria, contenente saggi critici e testi letterari (raccolte poetiche e romanzi brevi). In un clima culturale in cui sembrano prevalere le neoavanguardie, «Il Menabò» si propone di mantenere una «funzione razionale»: condurre la propria ricerca sulle tematiche dominanti (essenzialmente la tematica industriale e quella sui problemi del linguaggio) con un approccio rigorosamente gnoseologico. Un impegno che richiede una ridefinizione del ruolo dell’intellettuale in sintonia con la realtà neocapitalistica. Tali aperture al nuovo consente alla rivista di avviare un dialogo proficuo con la Neoavanguardia, da cui in ogni caso si mantiene distante soprattutto per quell’idea di letteratura come progetto conoscitivo della realtà, tanto cara a Vittorini e a Calvino. Il quinto fascicolo della rivista presenta un’ampia rassegna di testi critici e letterari della Neoavanguardia, un anno prima che essa si formalizzasse in Gruppo 63 . «Il Menabò» pubblica nove numeri con Vittorini ancora in vita. La rivista, strettamente legata alla figura del suo fondatore non può sopravvivergli: un numero commemorativo chiude le pubblicazioni nel 1967. Il fenomeno della Neoavanguardia trae origine da quell’humus culturale presente nel settentrione italiano industrializzato, specie lombardo, che nel dopoguerra fu capace di avviare quel processo di sviluppo economico destinato in poco più di un decennio a trasformare quest’area del Paese in uno delle regioni più industrializzate del pianeta. Un contesto favorevole alla nascita di una più avanzata cultura che secondo Umberto Eco univa la tradizione dell’illuminismo lombardo alle nuove tendenze culturali europee . Milano, divenuta ben presto il centro dell’industria culturale costituisce ovviamente il principale polo d’attrazione. Ma anche Bologna riveste un ruolo di rilievo, grazie alla presenza di Luciano Anceschi, docente di estetica all’università emiliana, attorno al quale si riunisce un gruppo di giovani intellettuali quasi tutti milanesi e bolognesi: Nanni Balestrini, Antonio Porta, Umberto Eco, Elio Pagliarani, Alberto Arbasino, Giorgio Manganelli, Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Fausto Curi e Marina Mizzau. A questi vanno aggiunti il romano Alfredo Giuliani ed Edoardo Sanguineti, quest’ultimo ligure d’origine ma torinese d’adozione. Laboratorio sperimentale’ della Neoavanguardia diventa la rivista «Il Verri», creata da Anceschi nel 1956 per dar voce al nascente gruppo e organizzare meglio le discussioni e i dibattiti. Nel Discorso generale di apertura del primo numero, Anceschi rivendica la dignità della letteratura pur nell’apertura alla scienza e alla tecnica. Scrive infatti che «la poesia e la letteratura» non sono «seconde a nessuna altra attività»; e quindi occuparsene è «atto almeno altrettanto necessario quanto qualsiasi altro problema, non  solo filosofico e morale, ma anche sociale, economico e politico». Occorre però tener presente che «tutto (dalla filosofia alla scienza, dalla morale alla politica, dal costume allo sport) tutto rientra nel discorso». La rivista si propone di dar conto in particolare degli sviluppi della filosofia, «dalla ‘filosofia della relazione’ all’ontologismo, dalle correnti fenomenologiche al neopositivismo alle diverse forme di spiritualismo» . Il programma delineato da Anceschi non può essere considerato come linea di condotta comune a tutti gli aderenti al gruppo neoavanguardista. Ognuno riteneva di muoversi in modo personale alla ricerca delle possibili vie di rinnovamento della cultura italiana, sicuramente ancora troppo provinciale e accademica. Si può affermare che «Il Verri» ottiene un certo successo nel portare avanti i suoi propositi e ad introdurre considerevoli elementi di novità nel panorama culturale italiano. Nei primi anni Sessanta sorge tra i giovani intellettuali collaboratori della rivista l’esigenza di costituire un gruppo più compatto in grado di difendere meglio le loro posizioni: cominciava così a delinearsi il nucleo del futuro Gruppo 63 . La prima importante ‘uscita’ collettiva sul piano poetico è la pubblicazione nel 1961 dei Novissimi, raccolta di testi di cinque autori: Pagliarani, Giuliani, Sanguineti, Balestrini e Porta. Il libro, divenuto presto il manifesto del gruppo, propone l’idea della necessità di una radicale rifondazione dei canoni poetici, in special modo della lingua, che ad avviso dei poeti neoavanguardisti andava integralmente frantumata e ricostruita. In quell’anno «Il Menabò» intende esplorare i nuovi fermenti sperimentali e possibilmente avviare su questi una discussione. I direttori Vittorini e Calvino vogliono così includere nel quinto fascicolo saggi e opere di Eco, Leonetti, Faggiani, Crovi, Sanguineti, Filippini e Colombo. Per i giovani avanguardisti è l’occasione di esprimersi da una tribuna autorevole, alternativa a «Il Verri». Questa nuova visibilità attira diverse critiche nei confronti degli avanguardisti. In primo luogo le teorie di Eco scatenano l’ira della cultura accademica idealisticocrociana, strenue paladina dei valori della tradizione. Essi sono attaccati anche da sinistra, accusati di complicità con il neocapitalismo. Sull’«Avanti!» gli autori presenti ne «Il Menabò» sono definiti «giovani e inesperti e modestissimi scrittori d’avanguardia». Altre li rimproverano di fare «ingegneria letteraria», di formalismo, «decadentismo viscerale», di disimpegno ideologico. L’occasione di altre critiche prestigiose è il convegno di Palermo dell’ottobre 1963 che sancisce la nascita del Gruppo 63 nell’ambito dell’avanguardia. Moravia parla di eccessivo formalismo e di un loro rapporto subalterno con la struttura neocapitalistica; Montale li giudica impietosamente, tacciandoli di nozionismo, carenza di pensiero, venalità e in definitiva di essere dei ciarlatani: «riescono a guadagnare anche vendendo la propria disperazione, vera o falsa che sia». A chi gli chiede un giudizio su di loro, Bassani risponde stizzoso: «Quando anche fossi riuscito ad imparare qualcuno dei loro nomi l’avrei subito dimenticato. Come si può ricordare il nulla?». Anche Cassola, Fortini e Pasolini non risparmiano giudizi sferzanti: il primo ravvisa in loro un mancanza di modernità e una certa piattezza letteraria; il secondo, esprimendo anche il punto di vista della nuova sinistra, contesta il loro volersi ricollegare alle avanguardie storiche: rivendicazione al quanto impropria secondo Fortini, in quanto essi avevano sostituito la «dimensione tragica» con il mero «momento ironico», e rinunciato quindi ad ogni carica trasgressiva Pasolini infine profetizza per gli avanguardisti un «meritato silenzio» .

Dopo qualche anno, conclusa la fase contestataria del vecchio establishment culturale, il Gruppo 63 comincia a mostrare i primi segni di disgregazione. È ormai giunto il tempo di concentrarsi sulla produzione artistica, attività che ciascuno svolge secondo la propria personale inclinazione. Al declino del gruppo contribuisce anche il successo che alcune idee innovative avevano incontrato da parte di molti, non ultima la stessa industria culturale. La necessità di svolgere un’azione coesa di rinnovamento comincia quindi ad attenuarsi. L’ultima significativa esperienza collettiva del Gruppo 63 è la pubblicazione di «Quindici», un mensile nato nel 1967. La rivista dura appena due anni, entrando in crisi in piena contestazione operaia e studentesca. La pressione contingente degli eventi, o meglio di quella «Storia» che secondo Guglielmi non aveva più alcun significato, ha un effetto spiazzante. La rivista non è capace di portarsi al livello dei nuovi fatti, di adeguare la contestazione avanguardista a quella determinata dalle nuove vicende. Leonetti e Di Marco falliscono nel tentativo estremo di superare le contraddizioni sorte e di conciliare il ‘letterario’ col ‘sociale’ attraverso la rivista «Che fare». Ma ormai le pressioni della battaglia politica sono troppo urgenti e totalizzanti per portare avanti un’operazione culturale del genere . Come si è detto, non è possibile ricondurre i neoavanguardisti ad un unico programma ideologico-poetico. Ciò che li univa è un «proposito comune», ovvero quello di «partire dall’interno degli strumenti del lavoro letterario». Proposito che nasceva dalla coscienza di doversi «portare dentro le forme, le tecniche, il linguaggio, vincendo ogni disagio o complesso d’inferiorità o vergogna della poesia»; «l’ideologia» consisteva in un «lievito rivoluzionario contro le strutture e le istituzioni del sistema borghese» . Al di là della condivisione di alcuni obbiettivi, all’interno della Neoavanguardia si scontravano dialetticamente diverse posizioni, a volte antitetiche. Da una parte c’era la tendenza «a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una parola ‘atemporale’» di Guglielmi dall’altra la linea ideologica e linguistica di Sanguineti; al centro Barilli, a tentare una mediazione fenomenologia e neopositivistica . Compito dell’avanguardia era collaborare «al costituirsi di una nuova razionalità, nella forma in cui ciò è possibile a un artista, e cioè nella forma del linguaggio» . La mediazione operata da Barilli tra Guglielmi e Sanguineti prevedeva da una parte il rifiuto dell’atteggiamento «nichilista» del primo, salvaguardando una concezione del mondo ispirata al «progresso» e alle scienze moderne (in particolare la fenomenologia e il neopositivismo); dall’altra, riguardo alla posizione di Sanguineti. Nel panorama della cultura italiana e internazionale del dopoguerra, Italo Calvino è certamente uno degli intellettuali più lucidi e partecipi delle trasformazioni culturali che si sono succedute fino agli anni ’80. Egli è stato uno scrittore dotato di grande rigore razionale, di straordinarie capacità d’invenzione e sperimentazione, di un’inesauribile tensione conoscitiva riguardo ai diversi piani della realtà. La sua produzione letteraria, ma anche gli innumerevoli saggi, lettere e testi occasionali, scritti inediti e manoscritti rimasti in sospeso, ci restituiscono la figura di un intellettuale costantemente rivolto a esplorare i vari aspetti della realtà, attraverso la ricerca di forme di conoscenza e di strumenti critici e stilistici il più possibile aderenti alla complessità del mondo. Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas, presso l’Avana, il 15 ottobre 1923. Il padre Mario, di origine sanremese, è un agronomo che a Cuba dirige una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola d’agraria. La madre, Evelina Mameli, di origine sassarese, è laureata in scienze naturali. Dai genitori riceve un’educazione rigorosamente laica. Per un nuovo impegno professionale del padre, la famiglia si trasferisce a San Remo nel 1925. Nel 1927 nasce il secondogenito, Floriano. Italo comincia ad interessarsi di letteratura anche se nel 1941 a Torino intraprenderà gli studi di agraria. Dopo l’8 settembre, sottrattosi alla leva forzata nell’esercito fascista, si rifugia col fratello nelle Alpi Marittime partecipando alla Resistenza nelle brigate comuniste Garibaldi. Terminata la guerra, milita attivamente nel PCI e abbandona gli studi di agraria, iscrivendosi alla Facoltà di Lettere di Torino, dove si laurea con una tesi su Joseph Conrad nel 1947. Entra in contatto con Pavese Vittorini e altri intellettuali legati alla casa editrice Einaudi. Il suo esordio letterario avviene con un romanzo breve di carattere neorealista, Il sentiero dei nidi di ragno, pubblicato da Einaudi nel ’47 grazie all’interessamento di Pavese. Nel ’50 è assunto nella redazione della Einaudi, di cui rimane dirigente dal ’55 al ’61. In seguito continuerà sempre a lavorare per la casa editrice piemontese in qualità di consulente. Intanto sviluppa per tutti gli anni ’50 un’intensa attività di produzione narrativa che culmina con la pubblicazione di due raccolte che lo impongonoo al pubblico come uno dei più originali giovani scrittori italiani: i Racconti e I nostri antenati, comprendente Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959). Nel ’56 era uscita anche la raccolta Fiabe italiane, a consolidare l’immagine del Calvino ‘favolista’ in contrasto con quella del saggista impegnato degli scritti teorici. In quegli anni accresce la sua collaborazione giornalistica, scrivendo oltre che su «l’Unità», anche su «Rinascita», «Il Contemporaneo» e altre riviste. I fatti d’Ungheria del ’56 determinano il suo distacco dal PCI ma non il venir meno dell’interesse per le vicende politiche e i suoi rapporti con la sinistra. Nel ’59 è chiamato da Vittorini a co-dirigere la nuova rivista «Il Menabò», sulla quale pubblica vari saggi che animano il dibattito, in particolare quello sulle funzioni della letteratura e del ruolo dell’intellettuale nell’era neocapitalistica. Nei primi anni Sessanta soggiorna per lunghi periodi a Parigi, attratto dalla vivacità della cultura francese. La sua curiosità lo porta ad interessarsi alle iniziative politiche della sinistra e della Neoavanguardia, ma anche alle materie scientifiche. Sono gli anni in cui si afferma lo strutturalismo: frequenta le lezioni di Barthes e stringe rapporti con Raymond Quenenau, fondatore del gruppo dell’Oulipo. A seguito di queste influenze teoriche, nel ’65 pubblica la raccolta Le Cosmicomiche e nel ‘67 Ti con zero. Precedentemente, nel 1963, erano usciti La giornata d’uno scrutatore e Marcovaldo ovvero le stagioni in città . Segue con interesse le manifestazioni studentesche del ’68, apprezzandone lo spirito antiautoritario ma non i metodi e l’ideologia. Nel ’72 esce Le città invisibili , opera che insieme a Il castello dei destini incrociati del ‘73 gli procurerà una notevole fama internazionale. Gli interventi sul «Corriere della sera» denunciano il suo malessere per la degradazione della situazione politica e sociale italiana. Frutto delle sue più recenti sperimentazioni narrative e semiotiche, nel ’79 vede la luce il fortunato Se una notte d’inverno un viaggiatore. Nel 1980 si trasferisce a Roma con la famiglia (nel ’64 si era sposato con l’argentina Esther Judit Singer, detta Chichita, da cui nel ’65 aveva avuto una figlia, Giovanna). Nello stesso anno raccoglie in Una pietra sopra i più significativi scritti saggistici dal ’55 in poi. Nel ’81 riceve a Parigi la Legion d’Onore. Si interessa di teatro d’opera componendo un testo di carattere combinatorio per l’incompiuto Singspiel di Mozart e insieme a Luciano Berio scrive La vera storia, opera in due atti andata in scena alla Scala di Milano nel 1982. Nel 1983 esce Palomar e nel 1984 a causa della crisi in cui versa l’Einaudi è costretto a pubblicare presso Garzanti Collezioni di sabbia e Cosmicomiche vecchie e nuove . Nell’estate dell’85 soggiorna a Castiglione della Pescaia, in provincia di Siena. Qui lavora a un ciclo di sei conferenze (Six Memos for the Next Millennium) che avrebbe dovuto tenere all’università di Harvard l’anno seguente. Il sei settembre un ictus interrompe il suo lavoro. In seguito ad un’emorragia cerebrale, muore all’ospedale di S. Maria della Scala di Siena nella notte tra il 18 e il 19 dello stesso mese. Nel maggio 1986 presso Garzanti esce postumo Sotto il sole giaguaro . L’ormai appannata immagine del Neorealismo italiano è rinvigorita dalla fresca a vitale prova d’esordio narrativo di Calvino con Il sentiero dei nidi di ragno, breve romanzo in cui rievoca le lotte partigiane dell’adolescenza. Egli riesce a trattare la materia realistica con una leggerezza e un’immediatezza mai eguagliate prima dagli altri autori neorealisti. La narrazione delle vicende del piccolo Pin diventa spunto di ricerca conoscitiva del mondo e sul significato dell’esistenza. Calvino non è interessato a celebrare eroicamente la Resistenza, non esclude dal racconto gli aspetti meno limpidi e positivi dell’esperienza partigiana. Egli utilizza uno stile favolistico che gli permette di poter mantenere un certo distacco e narrare con tono nostalgico un mondo perduto, infantile e felice, quasi magico . Già dai primi anni Cinquanta Calvino si rivela nelle sue opere come scrittore engagé, come intellettuale sensibile alle condizioni politiche e sociali. Tre racconti in particolare sono occasioni di riflessione sulle problematiche contemporanee. Il primo, La formica argentina (1952) «a partire da uno spunto surreale, s’interroga sulla possibilità d’intervento dell’intellettuale sulle cose». Il secondo, La speculazione edilizia (1957) ci consegna un ritratto dell’Italia del boom economico anni ’50. L’immagine più rappresentativa è la trasformazione del paesaggio della riviera ligure per far posto alle case al mare della nuova media borghesia industriale settentrionale. Il racconto descrive anche la trasformazione esistenziale del protagonista, un esponente della borghesia tradizionale che, snaturando i suoi valori, si ritrova invischiato nelle trame del cinico mondo affaristico. Il terzo racconto, La nuvola di smog (1958), narra in prima persona le vicende del protagonista, redattore di un giornalino di un ente gravitante attorno al mondo della grande industria che lotta contro la degradazione morale della nuova società industriale: «lotta naturalmente bislacca e inconcludente, e altrettanto naturalmente svolta solo a parole, che l’ente in questione compie contro l’ispessimento della coltre di ‘smog’». Il racconto è una limpida rappresentazione del disagio dell’intellettuale nei confronti del mondo industriale. La materia trattata testimonia l’allontanamento di Calvino dal tema resistenziale e il suo interesse all’indagine minuziosa sui vari aspetti della realtà industriale. Indagine che prescinde da ogni schema e predeterminazione ideologica. Un esempio è un saggio del ’55, Il midollo del leone, scritto incentrato sul valore della conoscenza, e i vari interventi apparsi dal 1960 su «Il Menabò». La strada che gli permette maggiore libertà inventiva e razionale è quella del comico e del fiabesco. Calvino saggia così nuove possibilità che la letteratura gli offre per indagare la realtà e interrogarsi sui limiti e le condizioni dell’iniziativa dell’intellettuale. Sperimenta per la prima volta l’invenzione fantastica già nel ’52 con Il visconte dimezzato, mentre nel ’56 appare Marcovaldo, una serie di dieci racconti in cui il comico e fiabesco s’intrecciano magistralmente nel descrivere le vicende di deboli e ingenue creature a confronto con la caotica e totalizzante vita moderna della città. La predilezione per l’Ariosto e la letteratura fantastica e cavalleresca, gli suggeriscono contesti, personaggi e intrecci narrativi nuovi per i suoi tre romanzi della già citata raccolta I nostri antenati apparsa nel 1960. Se da una parte i tre romanzi possono essere considerati – come osserva Ferroni – «parabole della ragione», dall’altra le stesse avventure dei protagonisti sfuggono ad ogni univoca interpretazione morale e di comportamento. Traspare così la consapevolezza dei limiti e della fallibilità della ragione, in un mondo complesso e «labirintico». L’unico atteggiamento possibile è la continua ricerca delle possibili vie d’uscita . Il più ampio e riuscito dei tre romanzi, Il barone rampante, narra le vicende del nobile ligure Cosimo di Piovasco di Rondò, il quale all’età di dodici anni decide di salire su un albero e di trascorrere la sua esistenza staccato da terra. Da questo singolare osservatorio personale egli prenderà parte a tutti gli eventi storici e culturali del suo tempo, fino alla Restaurazione. Il suo rifiuto per le convenzioni della vita quotidiana e delle regole sociali, lo portano a inventarsi un suo stile di vita distaccato dagli altri, ma non per questo gli impedisce di partecipare al grande progetto illuminista di ricerca scientifica e civile per la creazione di un mondo nuovo. Egli mantiene quella perfetta posizione che gli consente una maggiore capacità di percezione e più ampia libertà di giudizio. Una condizione che Cesare Cases ha definito «il pathos della distanza» e che consente a Cosimo leggerezza e ironia. Il cavaliere inesistente trae spunto dal mondo ariostesco: la monaca Teodora racconta le avventure al tempo di Carlo Magno di Agilulfo, guerriero dalla candida armatura che però ‘non c’è’. Egli è il simbolo della pura razionalità incapace di misurarsi con la realtà, cui si contrappone Gurdulù, immagine di un essere tutto ‘viscerale’ . La collaborazione con Vittorini a «Il Menabò» segna il definitivo abbandono da parte di Calvino dei modelli neorealistici e postresistenziali. Egli in ogni caso non smette di impegnarsi per una letteratura capace di comprendere e intervenire nella realtà, pur con tutte le difficoltà e le contraddizioni che la ragione può incontrare nell’assunzione di un tale proposito. Queste sue idee gli attirano le contestazioni di alcuni esponenti della Neoavanguardia, in particolare di Angelo Guglielmi, col quale avvierà un vivace confronto sulle pagine de «Il Menabò».

Egli è attento osservatore delle varie tendenze presenti nel Paese all’inizio degli anni Sessanta, ma si tiene distante dalle posizioni più radicali della sinistra e della Neoavanguardia. Non è suo interesse schierarsi ma rintracciare nuove opportunità di comprensione, d’indagine sulle problematicità della vita contingente. Egli dà prova di questo atteggiamento ne La giornata di uno scrutatore, breve romanzo già precedentemente citato. Il protagonista, un intellettuale militante nel PCI, entrato in contatto con la sofferenza umana più estrema cade in una profonda crisi che lo porta ad assumere una nuova visione della realtà, a dubitare delle tante certezze e sul senso e i modi dell’azione politica. È investito da un autentico spirito solidale: da quel momento per lui l’impegno umano non può più ignorare il problema del male e della sofferenza . Con il saggio L’antitesi operaia, pubblicato su «Il Menabò» n. 7 e accolto con una certa freddezza dalla nuova sinistra, Calvino si occupa dello scontro tra classe operaia e capitalismo, scontro a suo parere contraddistinto dall’antitesi tra una «spinta razionalizzatrice» e una «spinta catastrofica». Le Cosmicomiche, e Ti con zero sono il prodotto delle curiosità intellettuali nate dal ‘periodo francese’ di Calvino, in particolare esprimono la sua passione per la narrativa combinatoria. Nelle prime egli mette in scena una serie di personaggi ‘impossibili’ attraverso cui descrivere varie ipotesi scientifiche sulle possibili configurazioni assunte dal cosmo nel passato. Questi scenari apparentemente così distanti dalla realtà lasciano invece intravedere i paesaggi della civiltà industriale nei suoi aspetti più apocalittici ed esasperati (ad esempio distese di immondizie e rottami. In Ti con zero Calvino esaspera il gioco combinatorio, descrivendo «la catena di condizionamenti che pesa sulla vita dell’individuo, perduto nel labirinto del mondo» . La figura del labirinto, simbolo del caos e della complessità, è al centro dell’ultimo racconto, Il conte di Montecristo, ricavato dal celebre romanzo di Dumas. Qui due prigionieri studiano i modi possibili per evadere dalla fortezza prigione (che rappresenta appunto il labirinto). Essi però procedono separatamente e in maniera diversa: l’abate Faria utilizza il metodo induttivo, ricercando empiricamente la forma reale della prigione; Edmond Dantés procede invece tramite il metodo deduttivo , costruendo nella sua mente una mappa minuziosa della fortezza e, servendosi degli errori di Faria, di volta in volta comprova le sue congetture. Così, alla fine del racconto egli sente di poter affermare: «e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con la vera per trovarla» . Lo scrittore si riconosce evidentemente nell’atteggiamento di ricerca di Dantés, anche se, insieme alla fiducia nel potere della letteratura, «traspaiono l’incertezza e la consapevolezza della precarietà del proprio progetto» . Calvino sviluppa il gioco dei possibili narrativi anche ne Il castello dei destini incrociati, in cui i personaggi, raccolti intorno ad un tavolo, disponendo le carte di un mazzo di tarocchi, raccontano delle storie guidati dall’ordine delle carte e dal significato delle figure. Ne Le città invisibili, Calvino unisce il piacere del gioco combinatorio all’analisi della realtà e dell’intervento nel mondo. È un libro dalla struttura geometrica rigorosa, scritto con una lingua limpida e precisa. Può essere visto come un lungo viaggio mentale attraverso una serie di città immaginarie, ognuna di esse rappresentante un possibile modello di civiltà. La cornice che tiene insieme la trama delle descrizioni è l’espediente narrativo di proporle come resoconti che Marco Polo presenta a Kublai Kan. L’incontro tra i due è l’occasione per introdurre chiavi di lettura sulle esplorazioni del viaggiatore veneziano. L’imperatore e Marco Polo sono figure della razionalità e della progettazione. I viaggi di Polo sono solo immaginari, nati sul modello di un’unica città: Venezia. C’è quindi il segno della fiducia nelle possibilità creatrice del pensiero, nella capacità di inventare soluzioni ai problemi del reale. In questo senso, anche se astratte le città descritte resituiscono, in modo sia pur distorto, gli scenari assolutamente realistici delle città industriali moderne . Se una notte d’inverno un viaggiatore è l’ultimo romanzo di Calvino. Il termine romanzo è però alquanto improprio, in quanto esso non consiste nella narrazione di una storia ma in un racconto sulla narrazione. È il suo «romanzo semiotico» o «iperromanzo», frutto delle influenze strutturaliste di Barthes e dell’Oulipo. Nel libro Calvino si rivolge direttamente al suo lettore, che per vicissitudini varie non riesce a leggere un romanzo tradizionale ma una serie di nove incipit che riproducono i generi dei romanzi tipici contemporanei. Nel corso della sua odissea alla ricerca del libro iniziale il lettore incontra la lettrice Ludmilla con cui instaura un rapporto amoroso che si conclude con un matrimonio. Vari temi s’intrecciano e sovrappongono nel libro: la passione per la lettura e la scrittura, nonché quello del rapporto che lega l’una all’altra; passione per la conoscenza che però rimane sistematicamente delusa. Nei racconti di Palomar traspare una grave senso di disillusione e amarezza. Essi narrano le vicende di un uomo, appunto il signor Palomar, immerso nella riflessione sul mondo e sul senso dell’esistenza. Egli si pone domande cosmiche a cui non a cui non riesce a dare una risposta. Il postumo Sotto il sole giaguaro è un volume che raggruppa tre racconti: Il nome, Il naso, e Un re in ascolto. L’intenzione di Calvino era di scrivere un libro sui cinque sensi. La morte improvvisa gli impedì di completare i racconti dedicati alla vista e al tatto. Come si è visto, nella narrativa calviniana degli anni Sessanta– ma anche nei testi critici  ricorre spesso la figura del labirinto come metafora del rapporto tra l’uomo e il mondo industriale. Il labirinto rappresenta la complessità, il caos, ma anche un percorso tortuoso e intricato che conduce in mezzo al caos o l’attraversa. Questa concezione sottintende l’esistenza di un principio ordinatore dell’apparente disordine e impenetrabilità del mondo, ma anche l’ambiguità del modo di vivere il labirinto sospeso tra la paura di perdersi e il gusto della sfida a trovare il centro e una via d’uscita. A differenza del labirinto unicursale classico di Cnosso, in cui vi è un centro e un’unica via d’uscita da ricercare, o dell’Irrweg barocco, in cui la via d’uscita si trova nascosta dentro un intrico di vicoli ciechi, il labirinto calviniano più rispondente alla realtà moderna  è rappresentato piuttosto da una rete o rizoma, struttura che prevede molteplici vie d’uscita praticabili che rinviano a loro volta ad altri labirinti. Si ritrova così quell’idea di letteratura già introdotta da Calvino nel 1961 nel Dialogo di due scrittori in crisi, secondo la quale il romanzo non può più pretendere d’informarci su come è fatto il mondo; deve e può scoprire però il modo, i mille, i centomila nuovi modi in cui si configura il nostro inserimento nel mondo, esprimere via via le nuove situazioni esistenziali .

Il Percorso della mostra è suddiviso in Undici Sezioni :

L’albero

Difficile è trovare un’immagine che si presti meglio dell’albero a fungere da emblema dell’opera di Calvino. Si pensi al Barone rampante, storia di un personaggio che trascorre tutta la vita sugli alberi senza mai scendere; ai boschi dei racconti partigiani e alle foreste delle fiabe; alle selve ariostesche del Castello dei destini incrociati e alla descrizione del millenario albero messicano del Tule in Collezione di sabbia; e anche, su un piano diverso, alle ramificazioni sintattiche dei suoi testi più arrovellati e problematici. E tuttavia il paesaggio originario di Calvino è un altro. È quello del racconto autobiografico La strada di San Giovanni, stilizzato in forma geometrica nella prosa Dall’opaco: lo scenario d’un golfo del Ponente ligure visto da mezza costa, come un balcone sporgente verso il mare, simile al palco di un teatro. Da questa posizione contemplativa – quasi la forma a priori della sua percezione dello spazio – Calvino muove per inoltrarsi in luoghi diversi: nell’intrico di boschi reali o immaginari, ovvero nel reticolo delle città. Strade e sentieri da esplorare, percorsi, tragitti: forse labirinti.

Natura vs artificio

Calvino parla di sé come della pecora nera di una famiglia dove solo gli studi scientifici erano in onore. Costretto a giorni alterni a seguire il padre nel podere avito di San Giovanni, l’adolescente Italo era invece affascinato dal cinema, moderna fabbrica di sogni e di racconti. Da un lato lo spazio fisico dei campi e degli orti, oggetto dello sguardo esperto del padre e di un impegno agricolo infaticabile, vissuto come una missione; dall’altro lo spazio immaginario dei film, che incanta il giovane spettatore come l’annuncio o la promessa che il mondo è molto più grande e ricco, più vario e avventuroso della realtà di cui può avere esperienza diretta.

La guerra, la politica

L’esperienza partigiana segna una svolta decisiva nella formazione di Calvino. Come per molti giovani della sua generazione, la Resistenza ha il valore di un’inedita assunzione di responsabilità: la possibilità di scegliere, di schierarsi, di prendere in mano il proprio destino. La decisione di unirsi alla lotta armata significa per Calvino anche la scoperta del paesaggio, l’entroterra sanremese e le pendici delle Alpi Marittime, già frequentate con il padre cacciatore, e vissute ora in condizioni affatto diverse. D’altro canto, all’aprirsi degli spazi esterni – i monti, ma anche la Storia, le sorti collettive – corrisponde la messa fra parentesi degli spazi interiori. I rovelli cerebrali dell’adolescenza perdono rilievo, quello che conta sono le azioni concrete: di qui, anche, la scelta di aderire al PCI. «La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” e perciò mi ero definito anarchico […]. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata» (Un’infanzia sotto il fascismo, in “Il Paradosso”, settembre- dicembre 1960). Calvino lascerà il PCI dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956).

Ritratti di Calvino

«Kim, Kim… Chi è Kim?». La domanda che s’incontra nel romanzo di Kipling (Kim, 1901), poi ripresa da un personaggio del Sentiero dei nidi di ragno, il partigiano Kim che s’interroga sul senso dell’esperienza che sta vivendo, potrebbe essere riformulata così: «Calvino, Calvino… Chi è Calvino?». Non è un caso che fra i suoi disegni si conti un certo numero di auto-caricature, che a seconda dei casi accentuano i tratti pensosi e perplessi, la concentrazione comicamente severa, il cipiglio torvo da “duro” di maniera. Dopo la Liberazione («che per me corrisponde a una seconda nascita») Calvino lascia la Riviera. Luogo di elezione è Torino, città dalle linee geometriche e perpendicolari: «città che invita alla logica, e attraverso la logica apre la via alla follia». L’ambiente della casa editrice Einaudi consente al giovane scrittore di allargare i propri orizzonti culturali: sarà quella, com’egli stesso dichiara, la sua vera università.

Il reale e il fantastico

Per tutti gli anni Cinquanta Calvino coltiva il progetto di scrivere un grande romanzo realista che rappresenti le contraddizioni della società italiana contemporanea e della modernità urbana e industriale, ma i risultati sono sempre inferiori alle sue aspettative. In compenso prende gradualmente piede un’ispirazione diversa, tra l’avventuroso, il fiabesco e il fumettistico. Se Il visconte dimezzato nasce quasi per caso, come una vacanza tra impegni maggiori, attraverso la grande impresa delle Fiabe italiane Calvino si persuade del valore della trasfigurazione fantastica. Lo spazio dell’esperienza concreta appare insidiosamente opaco: lo si può solo percorrere di scorcio, narrando vicende particolari, mirate, senza pretese di totalità, combinando racconto e riflessione saggistica.

 «Le fiabe sono vere»

Una costante dell’opera di Calvino è l’attenzione riservata ai lettori più giovani. Le novelle di Marcovaldo, inaugurate sulle pagine dell’“Unità” all’inizio degli anni Cinquanta e proposte in volume nel 1963 con le illustrazioni di Sergio Tofano, saranno per molti anni il libro più venduto dell’intero catalogo Einaudi; lo stesso Calvino cura l’edizione scolastica (ridotta e commentata) del Barone rampante, il titolo più fortunato della trilogia araldica I nostri antenati; dalla grande silloge delle Fiabe italiane vengono tratte raccolte più agili, illustrate da Emanuele Luzzati. Discorso a parte merita il progetto (purtroppo mai realizzato) delle fiabe teatrali per la televisione Teatro dei ventagli, concepito insieme al pittore (nonché poeta e scenografo) Toti Scialoja, che disegna costumi e bozzetti. La dimensione fiabesca entra in gioco anche in vari testi calviniani legati a opere d’arte, come le Quattro favole d’Esopo per Valerio Adami. 

Tutto il cosmo, qui e ora

All’inizio degli anni Sessanta Calvino abbandona l’alternanza tra racconti fiabeschi e racconti realistici per intraprendere una strada nuova. La narrativa “cosmicomica” inscena esperienze di sconcerto e disorientamento sullo sfondo di epocali trasformazioni nella storia dell’universo e delle specie viventi. A raccontare è il «vecchio» Qfwfq, che nelle vicende narrate appare però sempre acerbo e sprovveduto: dagli eventi che accadono è preso regolarmente alla sprovvista. Abbandonato ogni riferimento diretto alla storia, Calvino gioca sull’incrocio fra i tempi lunghissimi dell’astronomia e dell’evoluzione e una prosaica quotidianità, “comica” sia in omaggio ai fumetti (comics) sia perché, a dispetto di tutte le possibili catastrofi, un domani c’è sempre.

Mescolando le carte

Non è più tempo di narrazioni lineari, di azioni che puntano dritte a un obiettivo. Ora ci si deve misurare con una realtà labirintica: caso-limite è Edmond Dantès chiuso nella fortezza d’If (Il conte di Montecristo), che si può salvare solo ricostruendo la pianta della sua prigione. Spesso i personaggi calviniani si smarriscono, come nel Castello dei destini incrociati: ritrovandosi privi della parola in mezzo a un bosco, raccontano la loro storia allineando le carte dei tarocchi. In questa fase Calvino ragiona sulla narrativa come processo combinatorio. E nel frattempo torna a indicare i due fuochi attorno ai quali gravita la sua ispirazione, che coincidono con due emblemi e due luoghi diversi: San Giorgio e San Girolamo, le lande disabitate dove s’incontrano belve e mostri, e il chiuso della stanza, riservata agli studi.

L’atlante delle città (in)visibili

Quasi sempre le storie che Calvino racconta cominciano con un personaggio che si sposta da un luogo all’altro. Nelle Città invisibili incontriamo un viaggiatore celebre, Marco Polo, intento a descrivere a Kublai Kan le città che compongono il suo immenso impero: un repertorio di immagini ed emblemi che evocano differenti organizzazioni della convivenza, dello spazio, del discorso. L’assunto è che solo finché le città sapranno conservare una forma l’ordine riuscirà a resistere al caos. In un panorama che svaria dall’incanto di un Oriente favoloso a scenari futuribili cupi e allarmanti, a volte scopertamente distopici, non c’è spazio per un’utopia vera e propria. Come scrive in un saggio su Fourier, ciò che si può oggi perseguire è un’utopia discontinua, pulviscolare, sospesa; ovvero – come suona il celebre finale del libro – «cercare e saper riconoscere chi e che cosa, nell’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Ma sarebbe riduttivo esaurire in questa massima il senso di un’opera quanto mai complessa e sfaccettata: spiragli di luce per il futuro andranno cercati fra le aeree invenzioni della città sottili, l’inquieto dinamismo delle città e gli scambi, la vivacità imprevedibile delle città nascoste.

Viaggi e descrizioni

 Negli anni Settanta Calvino si dedica spesso all’esercizio della descrizione, che esalta i caratteri di concretezza e precisione del linguaggio saggiandone la capacità di aderire al reale. In questo frangente nasce il personaggio del signor Palomar, alter ego intento a osservare sia aspetti e fenomeni della vita quotidiana sia ambienti nuovi. Alcuni importanti viaggi all’estero (Messico, Giappone, Stati Uniti, Iran) offrono l’occasione di rinnovare la tensione dello sguardo; e il dialogo con una serie di prestigiosi artisti contemporanei stimola la riflessione sulla dimensione visuale, sulla spazialità, sul rapporto tra parola e immagine.

 Cominciare e ricominciare

Dopo aver sperimentato forme intermedie tra il racconto e il saggio, reportages e descrizioni, poemetti in prosa, Calvino torna alla narrazione dispiegata con l’iper-romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, una serie di incipit romanzeschi incorniciati dalle avventure di un lettore che viene regolarmente interrotto sul più bello. Da sempre Calvino predilige gli inizi, i momenti aurorali, quando dall’infinito delle possibilità comincia a dipanarsi una vicenda particolare, che cattura l’attenzione e la fantasia di chi legge. Riflessione sulla lettura, omaggio ai lettori e (ancor più) alle lettrici, Se una notte d’inverno accarezza il sogno di cancellare o mettere fra parentesi la figura dell’autore, vista come una presenza incomoda, quasi un ostacolo. E tuttavia fra i progetti che Calvino coltiva in questi stessi anni ci sono anche narrazioni d’impianto autobiografico: e ancora un libro sui cinque sensi, una serie di racconti dedicati a oggetti d’uso quotidiano, il ciclo di lezioni per la Harvard University intitolato Six Memos for the Next Millennium – a conferma del fatto che Calvino è uno scrittore che non ha mai cessato di tenere lo sguardo rivolto al futuro. Electa pubblica il catalogo di cui è autore Mario Barenghi e illustra, sezione dopo sezione, il percorso della mostra. In questa occasione la casa editrice, nell’ambito delle pubblicazioni di approfondimento della figura di Calvino, ripropone un testo prezioso, ormai introvabile: Idem di Giulio Paolini, edito nella collana “Einaudi letteratura” nell’aprile 1975. La nuova edizione ospita una versione più ampia e inedita del testo di Calvino intitolato La squadratura. A questo titolo si aggiunge il volume Calvino A-Z, a cura di Marco Belpoliti, per la collana Enciclopedie. Vi sono riunite 146 voci affidate a 56 autori che, in forma breve ma in modo estensivo, forniscono una mappa per entrare nel mondo-Calvino, nei suoi libri ma anche nei temi, nelle idee, nelle vicende della sua vita di scrittore.

Scuderie del Quirinale Roma

Favoloso Calvino. Il mondo come opera d’arte.

Carpaccio, de Chirico, Gnoli, Melotti e gli altri

dal 13 Ottobre 2023 al 4 Febbraio 2024

dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00 

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