“Con oltre 1 milione di esponenti, quella romena è la più numerosa tra le comunità straniere in Italia nonché tra le comunità romene all’estero. Nel 1991 erano 10mila, e questo dà la dimensione di quanto rapida sia stata la sua crescita”. A illustrare questi dati è Benedetto Coccia, Ricercatore Istituto di Studi Politici ‘S. Pio V’, tra i curatori dello studio ‘Radici a metà. Trent’anni di immigrazione romena in Italia’, realizzato con il Centro Studi e Ricerche Idos. Lo studio è stato presentato a Roma nel corso della conferenza ‘I romeni in Italia tra vecchi stereotipi e nuovi orizzonti’, organizzato in Campidoglio dall’Ambasciata di Romania in Italia, dall’Istituto ‘S. Pio V’ e da Idos. Una ricerca in cui, continua Coccia, “abbiamo coinvolto anche persone di origine romena perché si dibatte spesso di cosa ci aspettiamo dalle comunità straniere, ma poco su cosa si aspettano loro dal nostro Paese”. Il titolo ‘Radici a metà’, spiega l’esperto, “non indica un legame spezzato bensì che è cresciuto in due terre diverse e parte da quando Traiano porta i romani in Dacia, dove restano fino al 271. Un arco di tempo breve- osserva Coccia- ma che ha lasciato tanto: il romeno è l’unica lingua neolatina dell’area. Tracce si ritrovano poi anche nella legge, nella filosofia e nella cultura”. L’appello del volume è di “non tranciare questa radice antica, cedendo all’assimilazione completa della cultura italiana. L’integrazione non è abbandonare identità, costumi e valori. Tutto questo- conclude lo studioso- va mantenuto vivo, perché per l’Italia è fonte di arricchimento”. Ad entrare nel merito dello studio è anche Antonio Ricci, ricercatore di Idos: “Abbiamo davanti la terza edizione del volume, le prime due servirono a combattere gli stereotipi, peggiorati nel 2007 a causa dell’omicidio Reggiani (la donna assassinata a Roma da un giovane romeno, poi condannato all’ergastolo, ndr). In quest’ultimo studio invece si guarda alle prospettive future: i tanti giovani nati e cresciuti qui, portatori di esempi di successo”. Tra gli elementi più interessanti emersi dal rapporto secondo Ricci c’è il fatto che “l’esperienza romena rappresenta un laboratorio di cittadinanza europea“, perché se i padri “furono considerati immigrati, i figli e i nipoti sono cittadini europei”. Dallo studio emergono anche altri dati, come la presenza oggi di un maggior numero di donne sole che lasciano il paese per lavorare in Italia. Famiglie separate che fanno contare “150mila bambini che restano in Romania, ma -avverte il ricercatore- non deve spingere a biasimare donne che con coraggio si trasferiscono per lavorare e costruire un futuro migliore”. Si contano poi “250mila nati nel nostro Paese. Ricci prosegue: “Sono 610mila i lavoratori, 50mila gli imprenditori e 63mila i disoccupati che risentono come noi della crisi. Gli occupati svolgono soprattutto mansioni non qualificate ad esempio nell’agricoltura o in compiti di cura della casa o degli anziani”. Figure che “sono state indispensabili durante la pandemia di covid 19”. Solo il 5%, avverte ancora Ricci, “svolge impieghi qualificati ma questa cifra sta crescendo”, un traguardo che si raggiungerebbe più facilmente “se venisse semplificato il riconoscimento del titolo di studio“. In generale, i cittadini romeni “contribuiscono con 2 punti percentuali al Pil dell’Italia, sul 10% che giunge dalle comunità straniere”, conclude lo studioso.
Marta Veronesi