Mario Persico – Opere 1955-2022
Giovanni Cardone
Fino al 5 Febbraio 2023 si potrà ammirare presso Real Casina Vanvitelliana al Fusaro Bacoli- Napoli Mario Persico – Opere 1955-2022 questa retrospettiva – antologica dedicata al grande Maestro recentemente scomparso è curata da Antonio Ciraci ed Antonio Raucci con il contributo poetico di Mimmo Grasso mentre il Saggio Storico- Critico è di Dario Giugliano. L’esposizione gode del Patrocinio Morale del Comune di Bacoli – Napoli. I lavori presenti in mostra sono circa quaranta opere e un corpus di diversi documenti stampati e filmati. Come dice Dario Giugliano: “… Mario non amava definirsi o essere definito artista, anche perché spesso ripeteva che non si sapeva bene cosa mai fosse l’arte. Le cose con la pittura, invece, vanno effettivamente già in maniera diversa. Potremmo, infatti, dire che mentre, se proviamo a chiederci cosa sia l’arte, avremmo immense difficoltà nel trovare una definizione che soddisfi tutti (compresi, ovviamente, noi stessi), con la pittura, invece, è infinitamente più facile trovare una definizione soddisfacente – almeno all’apparenza. Vediamo. La parola pittura indica un’azione (anche già compiuta) ed etimologicamente si fa risalire al verbo latino pingo, col significato di dipingere, tingere, colorire, ornare, abbellire, rappresentare, ma anche ricamare e incidere. Tutte azioni che il senso comune considera accessorie. Pensiamo a una casa. L’essenziale è che stia su, che sia un ricovero solido che ci protegga dalle intemperie e da eventuali altre avversità o possibili minacce. Poi, una volta che questo livello essenziale è stato raggiunto e consolidato, possiamo anche pensare di abbellirla decorandola. Ecco la pittura. Questo ci dice il senso comune. Ma, se guardiamo con più attenzione, riusciamo a scorgere un’altra funzione della pittura, capace di mettere in discussione l’idea stessa di ornamento in quanto accessorio. Essa, infatti, è comunicazione e lo è in quanto forma di conoscenza, come, tra gli altri, ben teorizzò Leonardo da Vinci, rivendicando con decisione il fatto che la pittura fosse qualcosa di assolutamente mentale. Ma dire che la pittura sia qualcosa di mentale può anche esporla al rischio di un fraintendimento, con il paradosso di ridurla a qualcosa di lontano dalla realtà, essa che, invece, è sempre non solo legata alla realtà, ma che non può mai essere se non su un piano di assoluta realizzazione concreta. Che significa, infatti, che la pittura rappresenta, se non che essa riproduce il reale, rendendolo (ri)tocco dopo (ri)tocco? Essa, insomma, a partire dalla estrema, assoluta, tangibile corporeità degli elementi che la costituiscono, intesse un ininterrotto dialogo con la realtà, fatto di infinite mosse di avvicinamento, di continui accenni e gesti, segni di una edificazione, per gradi, di una costruzione che ha l’ambizione di potersi, appunto, rapportare, in un’aspirazione mimetica, col reale stesso. È così che la pittura, come le altre forme di espressione, dà luogo a una realtà altra, parallela, che con quella esterna a essa può ben stare anche in un rapporto di competizione, nella sfida di un sogno mimetico che può farsi pure delirio, incubo. L’inquietudine di questa possibilità prende vita anche nelle opere di Mario Persico, il cui interesse per il mostruoso in generale, per quella condizione metamorfica che sfocia nel deforme, è sempre stato costante nel suo approccio alla strutturazione di una realtà in cui il gioco delle forme rivestiva evidentemente un’importanza fondamentale. Da qui, è facile comprendere la disinvoltura con cui Mario Persico si impadroniva di stili e modalità talvolta anche diversissimi tra loro, ma sempre con l’obiettivo della costruzione di figure umane o animali. Infatti anche quando Mario ha creato oggetti tridimensionali, “sculture” palesemente lontane dalla figura umana – penso, per esempio, alla serie delle Sedie –, le ha comunque “deformate” con l’innesto di “arti” che le facevano assumere un aspetto vagamente biomorfo, al punto che sento di non esagerare se affermo che per Mario Persico l’umanizzazione resta sempre un traguardo ineliminabile. E questo muoversi con disinvoltura tra gli stili, lungi dal poter essere connesso con l’adesione più o meno consapevole a una posizione eclettica, va, invece, problematizzato su un piano politico, oltre che estetico. Ma, questo, me ne rendo conto, è un discorso talmente complesso, che non mi è possibile affrontare qui, dato lo spazio, ormai in esaurimento, a mia disposizione. Valga, allora, solo quest’accenno ancora a Sanguineti e ad alcuni emistichi da quella sua poesia del luglio del 1977 (se non erro), scritta in risposta a un articolo di Fortini, che suona come una chiara dichiarazione di poetica (da cui emerge anche tutto il kierkegaardismo di Sanguineti) e in cui si afferma di sognare di sprofondarsi “a testa prima, ormai, dentro un assoluto anonimato”, chiudendo con questa illuminante affermazione: “oggi il mio stile è non avere stile:”. …” In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Mario Persico apro il mio saggio dicendo : Negli incontri avuti con il Maestro Mario Persico per me sono stati fondamentali perché mi ha fatto conoscere il Gruppo 58, il famoso Documento Sud e la Patafisica, infine ho conosciuto un persona che non amava darsi delle definizioni. Io quando lo conobbi mi mise al proprio agio sembravamo amici non so da quanti anni parlammo della mostra e infine della sua arte e il Maestro mi disse : Molti mi dicono che io parlo molto però non sanno che sono profondamente convinto che le arti plastiche e figurative siano arti del silenzio. Io da giovane mi rifacevo solo quando potevo disegnare. Conobbi Guido Biasi e Mario Colucci, quando mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti, da quel momento credo che la mia vita è cambiata. Posso dire che la vicenda editoriale di Documento Sud rivista promossa dal Gruppo 58 a Napoli, e in particolare da uno dei protagonisti dell’avanguardia napoletana di quegli anni, Luca, pseudonimo di Luigi Castellano. Il periodico, come sottolinea ulteriormente il titolo dell’editoriale appena citato, “Non una rivista, ma un documento”, vuole evidentemente richiamare l’importante esperimento editoriale sviluppato da Georges Bataille tra 1929 e 1930, Documents, rivendicando un dialogo con la cultura surrealista francese che si arricchirà, come vedremo, di ulteriori spunti e suggestioni. La sensazione che Documento Sud voglia aprirsi in modo dialettico e composito a una dimensione europea viene confermata anche semplicemente dando una rapida occhiata ai nomi che, oltre naturalmente a citazioni da André Breton e Guillaume Apollinaire.




Una formazione ampia dunque, in linea con l’obiettivo di Documento Sud: portare la cultura italiana, e meridionale in particolare, a un livello internazionale, innestando propositi di innovazione artistica sulla volontà di riformare il tessuto sociale del Meridione. Sicuramente un progetto ambizioso, che Documento Sud cercherà di perseguire nel migliore dei modi, dando un respiro largo alle sue pagine, che nel presente contributo saranno analizzate con la finalità di fornire al lettore, dando per acquisiti gli studi sull’avanguardia napoletana degli ultimi anni, un’introduzione critica alla rivista, individuandone le linee programmatiche e suggerendo futuri studi e approfondimenti. Fondamentale per capire la genesi del movimento e l’origine della rivista è l’articolo, anonimo ma verosimilmente redazionale, “Il ponte dell’avanguardia Napoli – Milano – Bruxelles – Paris”, che già nel titolo contiene la genealogia artistica del gruppo, ponendo Napoli in fila con alcune delle principali città europee. Ma l’ordine di scrittura rispecchia anche il processo di avvicinamento di Napoli prima verso il nord Italia e poi verso l’Europa: è infatti al 1953 che risalgono, come ricorda l’articolo, i primi contatti milanesi tra l’avanguardia napoletana in particolare Mario Colucci e Guido Biasi ed Enrico Baj, portando all’adesione degli stessi Colucci e Biasi alla Pittura Nucleare, firmando dapprima il manifesto Per una pittura organica (1957) e condividendo successivamente l’esperienza di Albissola Marina. Come l’articolo tiene a precisare, la condivisione avviene sulla base della seconda fase nucleare, in cui si accentua la materialità organica della pittura di Baj. Ma è Luigi Castellano a dettare il passo successivo, promuovendo nel 1958 l’omonimo gruppo formato da giovani artisti napoletani: Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola, Luca, Persico, e pubblicando nel giugno dello stesso anno il primo manifesto collettivo, accolto “in un clima di sgomento, di ostilità e di scandalo”. Punti di riferimento esterni alla città rimangono Baj e il gruppo nucleare, trovando inoltre una sponda utile e prestigiosa nella rivista Il Gesto, cui Biasi collabora negli stessi anni. Altro momento chiave giunge nel gennaio 1959, quando la mostra gruppo ’58+Baj alla galleria S. Carlo l’unica galleria che sostiene il gruppo, come viene sottolineato e il parallelo Manifeste de Naples, sanciscono definitivamente il connubio artistico tra la sperimentazione napoletana e quella nucleare, guardando contestualmente alle esperienze di Phases a Parigi e di Edda a Bruxelles: non a caso tra i corrispondenti di Documento Sud compaiono proprio Edouard Jaguer e Jacques Lacomblez, direttori delle due riviste. Contestualmente, è chiaro il ruolo strategico che in Italia svolgono periodici come i già citati Il Gesto e L’esperienza moderna, che non a caso condividono con la pubblicazione napoletana contraddistinta però da una maggiore “intransigenza” e autoreferenzialità autori e artisti, e rimandano nelle pagine pubblicitarie alle stesse riviste internazionali menzionate da Documento Sud, a sua volta posto tra le “riviste raccomandate” da Il Gesto. La rivista diretta da Castellano, in tale contesto, si propone di essere “il ponte” tra varie esperienze, “servendosi soprattutto (e non è un paradosso), di molte inedite tradizioni locali e del materiale di “colore” del vecchio Sud”, cui va aggiunto un certo orientamento generale verso tutto quello sperimentalismo centro-europeo (dalla seconda “vague” surrealista ai “Cobra”, ai “nucleari” ecc.) il quale sottolinea una certa aspirazione universale alla più spregiudicata libertà delle forme, così come è facilmente riconoscibile nel programma dell’avanguardia napoletana (e quindi nel suo organo) una ben precisa simpatia verso tutti i tentativi di instaurazione di una nuova infanzia figurativa (seconda una riscoperta in chiave “magica” del repertorio figurale). Così come vengono dichiarate le fonti ispiratrici, nella mappa culturale redatta all’interno di Documento Sud sono ben chiari anche i poli negativi e i riferimenti artistici da cui differenziarsi. È così che Mario Persico, in “Prima idea per una etica dello scandalo”, invita a superare le “ricette alla Fautrier o alla Wols” che portano ad allontanarsi da una adesione epidermica alla realtà, uccidendo “ogni percezione e sintomologia esistenziale”, e sostenendo invece “una mostruosa unità di pensiero”. Il pericolo, continua Persico, è di “schematizzare delle sensazioni”, riducendo “in formula ogni mistero Ogni cosa è registrata, lo stupore quasi non esiste, ogni immagine ha il suo freddo cifrario.”. La “condanna” di Wols e Fautrier nasce ovviamente dalla necessità di prendere le distanze da un tipo di pittura che, per le crettature della superficie e l’immersione materica del colore, avrebbe potuto essere avvicinata alle sperimentazioni degli artisti napoletani, che invece evidenziavano orgogliosamente la collaborazione con l’ambito nucleare, arricchito da risonanze surrealiste francesi e da un empito panico soggettivo unito alla riscoperta di una materia pittorica pulsante. Ne è chiaro esempio l’articolo “valore delle cose” , dello stesso Mario Persico, che si serve della pittura per spiegare il testo e viceversa, in un dialogo tipografico che costituisce uno dei tratti distintivi di Documento Sud. Gesto pittorico e scavo euristico procedono di pari passo, Persico si concentra sulla valorizzazione e riscoperta di “presenze paleontologiche ancora palpitanti” che progressivamente si impongono sulla superficie dell’opera, dando luogo a un incessante susseguirsi di “Fatti emozionali” enigmatici e sorprendenti di cui percepisco soltanto il fascino, Fatti o Cose che io definisco presenze ancestrali. Un naso, una bocca, un braccio, un organo genitale, o qualsiasi altra cosa può trasformarsi in un essere avente una propria “spina dorsale”. Siamo in effetti sempre all’interno di una dimensione figurativa che viene allentata e fratturata, percorsa da scoppi di colore, ma che pure resiste e riemerge. È una concezione che trova significativamente una stretta corrispondenza con le “immagini attive” teorizzate da Jaguer nell’articolo “Matiere + Mouvement = Feu” pubblicato nel primo numero del Il Gesto giugno 1955. Il critico francese invita gli artisti a creare delle immagini che sorgano dall’immediato confronto con il fluire della vita, liberando l’autore dalle costrizioni socio-culturali imperanti. Una tale volontà artistica non può che confliggere con un altro indirizzo coevo, cioè gli ultimi esiti dell’Informale, oggetto di specifici attacchi sia su Il Gesto che su Documento Sud: in particolare nel contributo “Così come vi furono un tempo dei poeti maledetti.” di Edouard Jaguer per quanto riguarda il primo; nell’articolo “invettive” di Guido Biasi e nel commento di Toni Toniato dedicato a Sergio Fergola per quanto riguarda il secondo. In particolare l’articolo di Jaguer, pur risalente al 1957, sembra funzionare da cornice di quanto emerso fino ad ora, affrontando una ricostruzione più ampia dello sviluppo storico artistico coevo, a partire dalla necessaria rivalutazione del Surrealismo e di Dada e dalla constatazione che le ultime urgenze artistiche nascono dall’“insurrezione contro la trascrizione puramente oggettiva della realtà”. Eppure, “questo movimento che va sotto il nome abusivo di ‘Tachisme’ o di ‘Informe’è evidente che non può minimamente pretendere di aver superato il surrealismo e l’arte astratta dei tempi eroici”.
Aperture e chiusure seguono nel raggio di poche righe: Jaguer da un lato concede a Pollock di essere animato “da una foga spettacolare, da una specie di rabbia sacra introducendo tecniche ancora poco usate”, ma dall’altro precisa subito che tuttavia tali tecniche erano “procedenti in gran parte da scoperte anteriori, sovente di marca surrealista”, e che in ogni caso “non si trovava ‘LA’ questa ‘Art Autre’ di cui si è tanto parlato . O piuttosto, si, fu questo ‘ART AUTRE’, ma di fatto esisteva già dall’avvento di DADA”. Se nei primi artisti “informali” Jaguer ravvisa dunque delle note positive pur circoscritte e definite, è contro le derive attuali che viene puntato il dito “oggi assistiamo ad un’orgia reiterata di macchie colorate, sempre più aleatorie sprovviste delle connessioni psichiche che drammatizzavano l’opera di WOLS o di DE KOONING”, individuando invece le radici di un’avanguardia genuinamente rivoluzionaria nell’“azione considerevole del gruppo ‘REFLEX’, del movimento COBRA (1948-1951) e l’attività vigorosamente polemica del Movimento Nucleare di Milano”. Il commento di Toniato, si concentra sulla definizione della pittura come espressione di un dettato interiore, capace di tradurre “una aderenza assoluta alle strutture fenomenologiche e psicologiche” del mondo contemporaneo in “presenze emergenti di una concreta esperienza, di una situazione vissuta nelle sue varie dimensioni ed implicazioni”. Non c’è più il simbolo allora, quanto piuttosto “segni” che nascono da una “de-simbolizzazione dell’oggetto” e che portano in sé memoria del “mimetismo surreale di una loro originaria relazione”. In sostanza, Toniato vuole marcare la lontananza rispetto alla “sensibilità inerte di una incontrollata visione informale”, rispetto alla quale, a suo parere, le opere di Fergola, così come quelle degli altri pittori d’avanguardia napoletani, portano evidenti le tracce di un’archeologia visuale, da ritrovare sia nei ricordi personali, sia negli archetipi mitici meridionali: elementi questi che emergono anche nella scelta di disseminare la rivista di proverbi napoletani e di inserire spesso una foto dedicata a squarci di vita partenopei nelle prime pagine dei diversi numeri. Del resto, il ruolo chiave della figurazione viene giocato anche nel campo della scultura, come dimostra l’articolo di Marcello Andriani su Antonio Venditti , capace di riscoprire temi arcaici, perfino legati “allo stupore religioso del primo uomo: animali, gruppi di figure, e ancora figure, figure, figure…”, e di ridefinirli all’interno “di una mitologia nuova, complessa, misteriosa”. Venditti, sottolinea ancora Andriani, è “uscito sano e salvo dall’incubo dell’astrazione più amorfa”, facendo ritorno a una scultura in grado, oltreché di valorizzare gli aspetti formali, artigianali, della materia, anche di essere “metafora dei propri sentimenti” ancora una volta figurazione, elaborazione di un universo mitico ed echi di memorie personali si amalgamano all’interno di un’articolata ermeneutica interpretativa. Ma figurazione non vuole dire ovviamente scadere nel realismo, visto come conseguenza della negazione della libertà espressiva nei paesi socialisti. Lo testimoniano almeno due articoli: “L’avantgarde en Pologne” di Alexandre Henisz e “Realismo socialista nella Repubblica Democratica Tedesca” di Walter Fedler. Nel primo l’autore, parlando dell’Esposizione d’Arte delle 32 Repubbliche Popolari svoltasi a Mosca nel dicembre 1958, sostiene che il padiglione polacco fosse stato il più visitato, scandalizzando gli “ortodossi” del partito ed esaltando invece il pubblico per il tentativo di riprendere il dialogo con le avanguardie europee, interrottosi dapprima a causa della guerra e poi per le imposizioni staliniste di sviluppare un’arte di impronta realista. Anche Fedler, nel suo pezzo centrato sulla situazione delle arti nella Germania Est, non esita a denunciare una situazione in cui tutto è stato ridotto al livello di “una cattiva arte di fare manifesti”, soggetta alle volontà “dell’onnipotente funzionario culturale” e succube di un contenuto che non deve essere “in disaccordo con le direttive dell’ufficio politico . Vive soltanto il ‘realismo socialista’, l’arte di fare manifesti del pittore politico”. L’obiettivo dei due articoli è evidentemente quello di funzionare da raccordo con quelli rivolti contro l’Informale, per evitare che si ingenerasse nei lettori l’equivoco di assimilare la volontà di sovversione culturale del Gruppo 58, a quella militante partitica degli artisti legati al P.C.I.. Quella promossa dall’avanguardia napoletana è invece una lotta morale che nasce prima di tutto da un’esigenza personale e intima di “liberare” il Mezzogiorno da un’asfissia morale e culturale, con il proposito di “realizzare una graduale ibridazione dei diversi modi di pensare e di essere, tanto necessari a restituirci un individuo più vivo e sensibile”.
L’accusa di essere provinciali viene ribaltata dagli artisti napoletani ammettendo da un lato il legame inscindibile con il territorio di provenienza (sottolineato anche nel lessico: “ovemai fossimo ‘guappi di cartone’ il nostro agire sarà sempre meno mortificante che se fossimo artisti disonesti e uommene e niente”), e dall’altro enfatizzando la necessità di promuovere un’arte che non sia imbrigliata in griglie omologanti. D’altra parte, i termini “provinciale” e “dialettale”, intesi in senso provocatorio e positivo, possono essere utili per leggere alcune delle caratteristiche della poetica portata avanti negli anni da Documento Sud, che tra i suoi obiettivi pone anche quello di valorizzare e risemantizzare la tradizione popolare napoletana: non a caso, in uno degli editoriali precedentemente citati si dichiarava di voler dare vita a “un sud laico e popolare”. È così che nascono, in senso antifrastico, i continui richiami alla superstizione e alla numerologia, riletti però secondo un’ottica surrealista, in grado cioè di attivare memorie recondite e creare cortocircuiti inventivi. Ne è un chiaro esempio l’inserto in cartoncino rosso di quattro pagine dedicato alla prima mostra del Gruppo 58+Baj la cui copertina è riquadrata dalla scritta “La superstizione contro la ragione”, commentata a sua volta dall’aforisma di Goethe che recita “La superstizione è la poesia della vita: in modo da non ferire il poeta di essere superstiziosi”. Funziona da controcanto giocoso il trafiletto intitolato “Il vostro destino” al centro della pagina, in cui la superstizione, dopo l’apertura a Goethe, torna a essere ricompresa nel suo senso tradizionale legato appunto alla numerologia e alle previsioni astrologiche. È evidente però che per Documento Sud, nella prospettiva di rileggere e valorizzare le credenze meridionali, la superstizione sia vista innanzi tutto come la capacità poetica di trasfigurare la realtà, facendo emergere sulla superficie significati arcani e reconditi: l’allusione all’arte degli aderenti al Gruppo 58 è lampante, e infatti molti commenti ruotano attorno al potere immaginifico delle pitture degli avanguardisti napoletani, in grado di filtrare e trasfigurare la realtà attraverso la propria sensibilità. La superstizione allora non sarà più un retaggio culturale da nascondere e lasciare nell’oblio, quanto piuttosto un’anticipazione, per certi versi, degli studi psicanalitici. A questo sembra almeno alludere Mario Persico nell’articolo “Gli atti deformanti”, accompagnato da una sua opera del 1959 . Persico sostiene che ogni trasformazione, innovazione decisiva, risieda “in un ‘atto’ o in una ‘deformazione’, indipendenti dalla realtà fino a quel punto concepita; vale a dire in una relazione illogica con essa”: da qui nascono dipinti e lavori in grado di trovare rapporti nuovi con la contemporaneità, a partire da una lettura personale del reale. È un percorso evolutivo che avviene in prima battuta nell’interiorità dell’artista, seguendo un processo euristico che deve molto alla psicanalisi e alle letture surrealiste ad essa connesse: “Freud ebbe coscienza della forza e delle conseguenze di quel ‘non logico’, e mosse da ‘esso’ per esplorare i labirinti dell’IO”. Associazioni mentali incongruenti, capacità inventive fantastiche: è la stessa interpretazione che Henry Delau offre delle pitture di LUCA nell’articolo Imagerie cosmica meravigliosa . Delau spiega infatti che una delle principali qualità di Castellano è quella di trasportare l’osservatore in una dimensione arcana, solcando territori inesplorati eppure visibili, superfici artificiali eppure memori di una loro profonda naturalità esistenti da sempre. Un ruolo chiave, in questa dinamica di riti arcani e tradizioni riaffioranti, è svolto dalla città di Napoli che permea di sé la rivista, sia attraverso la pubblicazione di proverbi e detti locali, sia attraverso opere d’arte che la presuppongono o la ritraggono direttamente. Ad esempio Castellano in Napulione e’ Napule , pubblicata sul secondo numero della rivista, con procedimento simile a quello di Baj di cui si dirà a breve, sovrappone una sua fotografia su una cartolina con il golfo di Napoli: il busto dell’artista emerge dal Vesuvio sullo sfondo, esprimendo un legame indissolubile con la città, e rendendo manifeste quelle intersezioni tra razionale e irrazionale, visibile e invisibile, di cui parla Delau nel suo articolo. Ma questa rilettura in chiave surrealista di Napoli contraddistingue tutto il periodico, a partire dalle foto inserite a fianco dell’editoriale nei primi quattro numeri, e raffiguranti aspetti tipici, folkloristici o legati all’ambito religioso popolare: nel primo numero una fila di reggiseni, nel secondo un teschio sormontato da una candela in quello che sembrerebbe un sepolcro sotterraneo, nel terzo un “madonnaro” all’opera , nel quarto una strada o un cortile con vari oggetti disposti alla rinfusa. L’intento è evidentemente quello di far scattare nel lettore collegamenti visivi e mentali inaspettati, cercando di rendere tangibile, come scrive Mario Persico in un’altra circostanza, “questa compenetrazione di ‘essenze’, facendo convivere il pessimo e l’ottimo, il brutto e il bello, il bene e il male (in tutte le loro accezioni) e tutte le apparenti antitesi che si possano immaginare”. Ideali antenati di simile operazione non possono dunque che essere “i Duchamp, i Max Ernst, gli Schwitters e altri, quando introdussero nel surrealismo il ‘readymade’ e ‘l’objet trouvé’”. Tuttavia, spiega ancora Persico, “essi miravano a produrre una serie di ‘schoc’ del tipo più generale, a trasferire sulla tela quel ‘fortuito incontro di un ombrello e una macchina da cucire su di un tavolo operatorio’ profetizzato da Lautreamont ”, mentre finalità del Gruppo 58 è “annullare ‘il giudizio di valore’, formulare un’estetica dell’accettazione totale”. Ancora più diretto è Guido Biasi che nel suo “Elogio del rifiuto”, partendo dall’assunto secondo cui “oggi il rifiuto è ormai irrifiutabile”, sostiene la centralità poetica e artistica “di oggetti in disuso, di cose usate e smesse, di rottami in disordine, di avanzi confusi”, capaci di riscattare la loro precedente destinazione funzionale attraverso una vita postuma, purificandosi, e tornando a essere “significato” e non più “funzione”: “Il rifiuto è la vendetta fantastica delle cose che si ribellano”. Le carte sono così definitivamente svelate ed è di nuovo Biasi, nelle “invettive” del quarto numero, ad affermare con decisione che “sia inutile negare che il Surrealismo abbia deposto le sue uova segrete in un luogo da noi ereditato, e che esse abbiano maturato il senso delle formidabili avventure che noi ci apprestiamo a vivere. Assistiamo oggi alla metamorfosi del fumoso fantasma onirico in allucinante Realtà di carne”. Quello che viene reclamato è dunque il permanere dell’immagine che segue sentieri associativi e meccanismi visivi surrealisti, abbinati a un senso tattile della pittura ma nel caso del rifiuto e del reimpiego entrano in gioco necessariamente anche Pierre Restany, il Nouveau Réalisme e il suo sviluppo successivo, ovvero la Mec-art, di cui infatti farà parte anche Bruno Di Bello. Snodo fondamentale sono in questo senso le sperimentazioni portate avanti da Baj, tra cui gli “specchi”, che vengono interpretati da Andriani come metafora della fantasia inventiva dell’artista “che ‘specula’, al momento, sulla magia delle superfici ‘speculari’”, ma soprattutto come manifestazione eclatante “di una visione violentata dalle crepe e moltiplicata dai frammenti apparentemente sconvolti”, che rivela a sua volta “un altro aspetto (magico ma presente fino alla più spiccata suggestione e sensazione delle dita) di quella ambiguità e plurivocità fantastica che lo affascinano fin dal fortunato e fortunoso periodo delle ‘montagne’ (1957-58)”. Non sorprende allora che nello stesso numero le opere di Colucci siano lette alla stregua di “larve e immagini di larve; larve future di prefigurazioni presenti, simboli di fatti senza data – la sua bicicletta di smalti pedala dentro liquidi soli verso violenze cromatiche dalle cifre inaudite”, in cui dunque dato pittorico e contenutistico si innervano l’un l’altro. Non diversamente, i lavori di Cena sono frutto di una profonda riflessione interiore “i suoi segni sono dettati da un impulso interno, per un discorso intimo con una realtà dello spirito”, che attraverso un “lungo processo formativo” si concretizza in un “mondo fatto di un messaggio di segni e forme” che “materializza sensazioni e percezioni nuove per un’epoca nuova”. È un sovrapporsi di stati emotivi e di materia pittorica che arriva a concretizzarsi visivamente in alcune opere presentate sul periodico, a partire dai quadri di Enrico Baj. È lo stesso artista a presentare una delle sue opere nate dalla sovrapposizione di oggetti incongruenti su pitture precedenti , facendo “apparire l’arrivo di alcuni sputnik o di personaggi di altri mondi su fondi assolutamente convenzionali”. L’effetto di spaesamento era accresciuto appunto dallo stratagemma di ricorrere a “fondi dipinti da altri pittori artigianali”, quanto di più “convenzionale e antiemozionale esista nel campo della visione” un effetto simile, aggiunge Baj, a quello provato quotidianamente da ciascuno di noi allorché, uscendo di casa, si immette in un sistema preesistente, prendendovi parte del riferimento eclatante alle “passeggiate” surrealiste. Dall’ambito surrealista il Gruppo 58 eredita anche le allusioni e un linguaggio critico afferente alla sfera sessuale, come dimostra, tra l’altro, l’articolo. “L’Eden e la satrapia del sesso” che Riccardo Barletta dedica a un dipinto di Sergio Fergola (Elegia). Tutto il commento, rispettando del resto l’iconografia del quadro, si sviluppa sui poli centrali della composizione (l’elemento fallico accanto a Eva, “esaltato da un alone luminoso”, e invece “l’esplosione vitalistica di una macchia di rosso acceso”, accanto ad Adamo), che arrivano a enucleare “il mito della caduta, il valore del sacro, il destino del mondo, l’antitesi tra sesso ed amore”.
A livello pittorico, Fergola sviluppa invece un denso “simbolismo realistico” in cui riesce a conciliare il rispetto della forma e della figurazione con un uso espressivo del colore, rendendo “esperibili esistenzialmente le realtà rappresentate”. Una pagina propriamente surrealista è poi quella in cui a Il tagliatore di teste (collage del 1960) di Mario Persico viene affiancato uno scritto di Marcello Andriani , che svolge il tema della decapitazione dando vita a diversi micro racconti di poche righe: dalla richiesta di un marito che cerca “Tagliatore di Teste Anche Non Autorizzato Disposto Sopprimere Mia Moglie” alla narrazione postuma di un condannato a morte “Sentii la lama fredda dividere in un istante più rapido degli istanti normali la mia testa dal mio busto. La mia nuca batté con forza contro il fondo del paniere di vimini”, dall’elenco di decapitati “celebri” (Luigi XVI, Golia, Maria Antonietta, Tommaso Moro, Oloferne) alla redazione di un verbale poliziesco con finale satirico “La perizia necroscopica ha potuto stabilire che la decapitazione è stata eseguita in maniera pressoché perfetta, si ha ragione dunque di sospettare che l’assassino sia un macellaio o un chirurgo”. In un simile contesto non poteva poi mancare un esplicito riferimento al librocollage surrealista forse più famoso: La Femme 100 Têtes di Max Ernst. Ragnar van Holten nel suo pezzo affianca un’incisione di François Boucher tratta da Faunillane ou l’Infante Jaune, di Carl Gustaf Tessin, in cui il principe Perce-Bourse ritrova, passeggiando nel parco, la testa di una statua femminile, che poi ricomporrà per intero, a una delle incisioni di tema analogo di Max Ernst, ricavandone, a suo dire, un documento storico sui diversi atteggiamenti e comportamenti. Mario Persico, in cui il primo racconta al secondo il suo incontro nella metropolitana parigina con la “Giovane Masturbatrice presso il finestrino, sonnolenta, con l’ultimo piacere spento come una cicca sotto gli occhi fumosi. Aveva le unghie tutte lunghe, eccezion fatta per il medio della destra dove l’aveva cortissima”. Ricordi surrealisti, ambizioni poetiche, avanguardie artistiche dialogano dunque sulle pagine di Documento Sud che tra 1959 e 1961, come visto, prova ad attirare l’attenzione del mondo culturale sul Meridione d’Italia, collegandolo alle grandi imprese artistiche italiane ed europee, in particolare milanesi, francesi e belghe. Il tentativo sicuramente in parte riesce, anche grazie alla preziosa collaborazione con artisti e critici del calibro dei vari Jaguer e Lacomblez citati in apertura, ma non avrà forza a sufficienza per andare oltre i sei numeri del periodico. Tuttavia, il seme della rinascita era stato piantato e crescerà negli anni seguenti attraverso gli esperimenti editoriali di Quaderno tre fascicoli concentrati nel 1962, promossi da Stelio Martini e maggiormente virati sull’ambito della Poesia Visiva e Linea Sud sei numeri tra 1963 e 1967 promossi di nuovo da Castellano riviste diverse tra loro e anche rispetto a Documento Sud, che perfino nel suo aspetto tipografico aveva cercato di funzionare da ponte con altre esperienze d’avanguardia. Nel presente contributo si è cercato di offrire una prima panoramica d’insieme della rivista, evidenziandone gli apporti surrealisti e la parabola creativa, ma naturalmente molte altre piste d’indagine sarebbero ancora percorribili, analizzando ad esempio in profondità l’impatto della rivista sugli artisti napoletani intorno al 1960, considerando anche che molti degli aderenti al Gruppo 58 lasciarono poi la città. Un filo che però in qualche modo non si interruppe, grazie ancora una volta a Luigi Castellano e alla sua Linea Sud. Nel 1966 illustra la traduzione italiana di Luciano Caruso dell’opera patafisica “Ubu Cocu” di Alfred Jarry. In Persico l’interesse per le teorie patafisiche una sorta di ironico ritorno a quanto di esoterico rimane nel pensiero occidentale, secondo l’insegnamento di Alfred Jarry, demone dell’assurdo e della derisione è una costante della sua opera. Fin dagli anni cinquanta Mario Persico frequenta e collabora con Edoardo Sanguineti.Tra i momenti più interessanti di questa collaborazione si possono annoverare le scenografie e i costumi per l’opera Laborintus II di Sanguineti su musiche di Luciano Berio, andata in scena alla Scala nel 1973. Più recentemente ha firmato con Sanguineti, Dorfles e Pirella il “Manifesto dell’Antilibro” ed ha realizzato nel 2001, alla Biennale di Venezia, due “Bandiere della Pace” impagina nei modi della “poesia visiva” un testo di Sanguineti. Ancora nel 2003 ha illustrato un “Omaggio a Goethe” e nel 2004, un “Omaggio a Shakespeare, nove sonetti”, con traduzioni di Sanguineti. Dal 2001 divenne il Rettore Magnifico dell’Istituto patafisico partenopeo e stampa “Patapart” , una delle più belle, colorate e difficili da sfogliare riviste d’arte contemporanea ma i avute a Napoli. Il Catalogo della mostra Mario Persico – Opere 1955-2022 è edito dal Il Laboratorio di Nola.
Mario Persico Biografia
Nato a Napoli nel 1930. Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli sotto la direzione di Emilio Notte e già nei tardi anni Quaranta espone alcune sue opere in mostre collettive nella città partenopea. Nel 1955 aderisce al movimento nuclearista firmando il celebre Manifesto dell’Arte nucleare di Enrico Baj e, tre anni più tardi, è, quindi, tra i fondatori del Gruppo 58 con Biasi, Del Pezzo, Fergola e Luca (Luigi Castellano). In questi anni diventa redattore della rivista «Documento Sud» e allestisce le sue prime mostre personali sia in Italia (Ischia, Milano, Roma, Viareggio, Genova, Napoli) che all’estero (Stoccarda, Ulm, Chicago, Tubinga, Colonia, ecc.). Dopo la chiusura di «Documento Sud» prosegue la sua attività editoriale collaborando a «Linea Sud», diretta e fondata da Luca nell’anno cruciale 1963. I suoi interessi sperimentali lo conducono, negli anni successivi, a molteplici collaborazioni artistiche, dalla realizzazione di Fogli sperimentali (Guanda 1966) alle illustrazioni per Ubu Cocu di Alfred Jarry, tradotto da Luciano Caruso; dalla realizzazione di scenografie e custumi per lo spettacolo Laborintus II di Luciano Berio e Edoardo Sanguineti, sino, nel 1995, alla stesura del Manifesto dell’Antilibro con Dorfles, Pirella e lo stesso Sanguineti. Tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio Persico collabora con la rivista «NDR» e con l’Ististuto patafisico partenopeo di cui diventa “Rettore Magnifico” nel 2001. Tra le collaborazioni editoriali, oltre a quelle con Sanguineti (Tecnomemoria, Il Laboratorio 1980; Libretto, Pirella 1995; Omaggio a Goethe, Sottoscala 2003; Patacofanetto, Socrate 2003; Omaggio a Shakespeare, Manni 2004), meritano di essere ricordate pure quelle con Jan Orto (Acqua dall’alto, Il Laboratorio 1983), con Franco Cavallo (Veroniche/Le sedie dell’isterismo, Il Centro 1972; L’anno del capricorno, Rossi & Spera 1985); con Giulia De Rosa (Ossi di pollo a Coney Island, Il Laboratorio 1992), e con Luigi-Alberto Sanchi (Contro la lingua di Orfeo, Socrate 2002). Numerose sono anche le pubblicazioni di cartelle grafiche, tra le quali ricordiamo almeno quella pubblicata a Stoccarda dalle Edition Galerie Senatore nel 1970 con testo di Luca.
Real Casina Vanvitelliana di Bacoli – Napoli
Mario Persico – Opere 1955-2022
dall’8 Dicembre 2022 al 5 Febbraio 2023
Venerdì e Sabato dalle ore 17:00 alle ore 20:30
Domenica dalle ore 10:00 alle ore 13:00 e dalle ore 17:00 alle ore 20:30