Gazzettino Italiano Patagónico

All’ Antiquarium di Centuripe  I Maestri del Novecento :  

da Guttuso a Vedova  

Giovanni Cardone Settembre 2022

Fino all’8 Gennaio 2022 si potrà ammirare l’Antiquarium di Centuripe – Enna  la mostra I Maestri del Novecento: da Guttuso a Vedova. Opere dalla collezione Alberto Della Ragione a cura di Sergio Risaliti- Direttore del Museo Novecento di Firenze. Il progetto espositivo nasce dalla collaborazione tra il Comune di Centuripe e il Museo Novecento di Firenze, con l’intento di rendere fruibile una selezione di capolavori esposti per la prima volta in Sicilia e provenienti da una delle più importanti raccolte dedicate all’arte italiana del Novecento: la Collezione Alberto Della Ragione. La raccolta, composta da oltre duecento opere, fu donata dall’ingegnere Alberto Della Ragione al Comune di Firenze nel 1970, all’indomani della violenta alluvione che colpì la città nel 1966. Con il suo gesto, alimentato da un profondo senso civico, Della Ragione rispose all’appello lanciato dallo storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti, la cui volontà era quella di istituire un Museo Internazionale di Arte Contemporanea, come risarcimento simbolico ai danni subiti dal patrimonio storico-artistico fiorentino. Come dichiara l’Assessore alla Cultura del Comune di Firenze Alessia Bettini : “Un viaggio speciale per una ricca selezione delle opere donate a Firenze dal mecenate e collezionista Alberto della Ragione. “Grandi capolavori del Novecento italiano che fanno parte del prezioso lascito avvenuto all’indomani dell’alluvione del 1966. È proprio il caso di dirlo, l’arte e la bellezza non hanno confini ed è molto significativo riuscire a realizzare importanti sinergie nel segno della cultura. Firenze ha l’ambizione per farlo, creando e rafforzando questi legami virtuosi.” Mentre afferma Sergio Risaliti : “Dal 2018 il Museo Novecento si occupa della valorizzazione della Collezione Alberto Della Ragione, con progetti ‘esportati’ fuori dalla città metropolitana di Firenze. Un cospicuo numero di opere provenienti dalla raccolta dell’ingegnere-collezionista è stato presentato a Salò, in occasione della mostra Italianissima, per poi approdare a Livorno, in una mostra che ha visto confrontate due collezioni: quella pubblica di Della Ragione e quella privata dell’avvocato Iannaccone. Superato l’ostacolo della pandemia, le opere della collezione civica sono tornate a viaggiare, e questa volta arrivano a Centuripe, quasi a coprire un raggio d’azione che ha tracciato una linea di continuità nella penisola. In questa occasione abbiamo concentrato l’attenzione sul carattere umanistico di molti dipinti realizzati dagli artisti della prima metà del Novecento italiano, dove emerge la passione per le vicende dell’uomo, l’ambiente quotidiano, la natura e i drammi storici attraversati all’epoca in cui queste opere furono realizzate. Una sottile vena esistenzialista che sembra aver animato Alberto Della Ragione, deciso difensore della libertà artistica e della funzione antagonista dell’Avanguardia. La presenza di Guttuso è un omaggio voluto alla Sicilia che ha dato i natali a uno dei più grandi cantori della realtà umana nella pittura del Novecento. Siamo felici di questa collaborazione con il Comune di Centuripe e con il Sindaco Salvatore La Spina, da sempre amante dell’arte”. Per il Sindaco di Centuripe Salvatore La Spina: “La presenza a Centuripe di quarantuno opere dei più grandi maestri del ‘900 era inimmaginabile, fino a poco tempo fa. La disponibilità del Sindaco Dario Nardella, della Dirigente Marina Gardini e di tutto lo staff della Direzione Cultura del Comune di Firenze, l’amicizia di Sergio Risaliti, curatore e brillante Direttore del Museo Novecento, l’attenzione dell’Assessore al Turismo Manlio Messina, la generosità degli sponsor (Med Service, Manusia Restauri, LuxEsco, Verzì Caffè) e l’operosità dell’Associazione Liberart, sono state le componenti necessarie affinché un progetto così ambizioso potesse realizzarsi in un piccolo centro della Sicilia.

Oggi possiamo affermare, con orgoglio, che Centuripe ospita una delle mostre più importanti dell’isola nel 2022. Invito i centuripini, i siciliani ed i turisti in vacanza, a venire ad ammirare questi capolavori e gioire delle bellezze storiche e paesaggistiche del nostro paese.” In una mia ricerca storiografica e scientifica suoi Maestri del Novecento, ovvero da Guttuso a Vedova apro il mio saggio dicendo : Alla metà del secondo decennio del XX secolo in tutta Europa, quasi in coincidenza cronologica con alcuni dei più trasgressivi movimenti dell’avanguardia, e per mano di artisti che di questi movimenti erano stati parte attiva, dal cubismo al dadaismo, dall’espressionismo al futurismo, soffiò il vento di un nuovo classicismo, annunciato da opere diventate simbolo di quell’inversione di linguaggio, o, meglio sarebbe dire, di quella conversione “al concreto, al semplice, al definitivo” di cui parlerà alcuni anni più tardi Margherita Sarfatti, la teorica del Novecento italiano. Tra le due guerre l’arte europea, accantonando l’impeto destabilizzante delle Avanguardie, è pronta a rivalutare il realismo classico, in Italia Margherita Grassini Sarfatti auspica appunto un ritorno al classicismo. Con entusiasmo dà corpo al suo progetto, che intende coniugare la modernità con la monumentalità del Rinascimento. Infatti, nel 1922 fonda il gruppo noto come Novecento, al quale inizialmente aderiscono sette pittori A. Funi, P. Marussig, L. Dudreville, E. Malerba, M. Sironi, U. Oppi e A. Bucci; alcuni di loro se ne allontanano presto per timore di essere strumentalizzati, ma il gruppo si ricostituisce nel 1926 con il nome di Novecento Italiano e raccoglie, data la protezione assicurata dal regime, un numero assai alto di adesioni. Nonostante le pressioni di chi vuole ridurre la cultura a semplice strumento di regime, per qualche tempo la Sarfatti riesce a mantenere questa iniziativa lontana dai toni più volgarmente propagandistici, tenendo fede alle motivazioni artistico culturali che la animano. Negli anni successivi la Grassini si interessa all’architettura razionalista, privilegiando progettisti volti al contemporaneo come Terragni, Figini, Michelucci e Pollini. Proprio al giovanissimo Terragni, di cui capisce e protegge il talento, Margherita commissiona il monumento funebre per il figlio Roberto, ignorando altri professionisti più in vista, ma non ugualmente radicali. Inoltre promuove la valorizzazione delle arti applicate con il fine di coniugare modernità e tradizione, rinnova la Biennale di Monza e istituisce la Triennale di Milano, facendovi costruire il Palazzo dell’Arte. Sebbene aspiri a raccogliere in Novecento l’intera ultima produzione artistica italiana, Margherita è comunque aperta a tutti i fenomeni emergenti e interessata alle differenze estetiche ma nel frattempo il Ministero della cultura si trasforma in un rissoso centro di potere, da cui le arrivano attacchi sempre più numerosi. Mentre all’estero le finalità artistiche di Novecento riscuotono grande successo, in Italia alla Sarfatti viene meno buona parte degli appoggi. L’emarginazione di questa lucida intellettuale coincide in architettura con l’adozione da parte del regime di un freddo e retorico stile littorio, ben lontano dalla sobrietà formale del razionalismo. Il tentativo grassiniano di dare al fascismo una piattaforma ideale ormai è diventato ingombrante, Margherita non concorda con le imprese coloniali, non approva l’intensificarsi dei rapporti con la Germania nazista, si scontra con l’ostilità di gerarchi avidi e senza scrupoli come Farinacci e Starace e nel contempo percepisce la perdita di interesse nei suoi confronti da parte di Mussolini. Nel 1938, di fronte al clima così mutato, la Sarfatti fugge all’estero; la sua famiglia invece vive in pieno le vicende del totalitarismo antisemita, tanto che una sorella Nella Grassini Errera rimarrà vittima del lager ad Auschwitz. Margherita soggiorna prima a Parigi dove frequenta tra gli altri Jean Cocteau, Colette e Alma Mahler e infine si stabilisce in Sud America, dato che il suo desiderio di essere accolta negli USA non ha trovato risposta. Ritorna in Italia alla fine della guerra e nel 1955 riesce a far stampare una autobiografia dal titolo ‘Acqua Passata’, dove il rapporto con Mussolini è quasi ignorato. Resta invece inedito a lungo il primo manoscritto delle sue memorie intitolato ‘Mea culpa’, pubblicato solo post mortem con il titolo My fault. Negli ultimi anni Margherita si isola nella sua villa di Cavallasca, vicino a Como, dove morirà nel 1961.  L’interesse per l’arte oppure per le ‘arti’ nasce precocemente  e si esprime compiutamente in occasione dell’Esposizione Internazionale di arti decorative e industriali moderne tenuta a Parigi nel 1925 e delle Biennali di Monza e poi le Triennali di Milano, occasioni cui ella partecipa direttamente. I suoi interventi in questi ambiti sono stati oggetto di studi specifici ad opera di storici delle rispettive discipline pur tuttavia, ho deciso di riportarle in questo saggio per meglio capire la sua figura di Critico d’Arte e di donna ed i vari movimenti artistici che hanno caratterizzato il primo novecento. Come non ricordare il “ritorno a Ingres“ di Picasso, con la serie dei piccoli disegni naturalistici e dei ritratti di Ambroise Vollard e di Max Jacob, dipinti dal pittore spagnolo verso il 1915, testimonianza di uno dei “ritorni” più celebri della storia dell’arte del ’900, o quello altrettanto significativo del pittore italiano Gino Severini, che nel 1916 dipinse “in una forma semplice che rammenta i nostri primitivi toscani” il Ritratto di Jeanne e La maternità? Ma quale fu la pittura che deviò il suo corso nel nuovo classico del ’900? Secondo Franz Roh, il teorico tedesco del realismo magico, tutta la migliore pittura europea, dal cubismo al futurismo, all’espressionismo, fu interessata da questo “ritorno all’ordine” e la maggior parte degli autori che avevano propugnato le tesi dell’avanguardia si ritrovarono verso la fine del secondo decennio del secolo a ripassare la lezione degli antichi maestri. Nell’elenco delle tendenze realiste comparse tra la fine dei secondi anni Dieci e i primi anni Venti, Roh cita il naturalismo di Derain, il purismo di Ozenfant e Janneret, il classicismo di Valori Plastici, la scuola di Rousseau, il verismo di Dix e Grosz, il nuovo linearismo di Beckmann e Hofer. All’origine di questa sorta neo figurativa, che attribuiva alla pittura una funzione ermeneutica della realtà profonda attraverso lo studio delle apparenze, stava l’idea del ritorno inteso non come reazione all’avanguardia, bensì come richiamo dell’antico e del classico alla contemporaneità. Scriveva nel 1988 a questo proposito Jean Clair, in un importante saggio dedicato al realismo magico, che il ritorno della pittura a schemi saldamente legati alla tradizione antica era da considerare “insito nella vita stessa delle forme”: “Non il ritorno automatico, passivo e nostalgico ai valori sicuri del passato, bensì l’espressione ansiosa, dopo il decennio frenetico che la storia dell’arte aveva attraversato fra il 1905 e il 1915, del bisogno di fondare l’arte del dipingere su basi più solide e più stabili”. Che non si fosse trattato di un “ritorno” inteso come restaurazione di uno stile antico, contrapposto al linguaggio delle avanguardie del primo Novecento, lo dimostra l’ampio dibattito critico, vivacissimo soprattutto in Italia e in Germania, attorno alla definizione della parola classico, da non intendersi, come spiegava il letterato italiano Massimo Bontempelli, come una determinazione di tempo, bensì come una categoria spirituale: “classica – scriveva infatti Bontempelli, profeta della ‘fine dell’avanguardia’ – è ogni opera d’arte che riesca ad uscire dal proprio e da ogni tempo”. I critici letterari che si occupano della produzione letteraria di Bontempelli, adoperano di solito il termine “realismo magico” per definire i tratti tipici del suo stile letterario. Comunque, occorre rendersi conto del fatto che nelle opere di Bontempelli possiamo individuare sia elementi tipici proprio per il realismo magico sia elementi che rivelano l’ispirazione da altre correnti letterarie. La produzione bontempelliana quindi non può essere definita nei limiti di un solito filone letterario, ma si tratta piuttosto di un risultato dell’influenza di vari movimenti letterari, artistici e filosofici del tempo. Siccome la presente tesi si occupa dei racconti di Bontempelli scritti negli anni ‘20 e ‘30, nei quali l’influsso del realismo magico sulla produzione dello scrittore prevale sulle altre tendenze, è opportuno soffermarsi proprio su questo argomento. Lo scopo di questo capitolo è perciò quello di provvedere uno sfondo teoretico necessario per poter affrontare l’opera letteraria dello scrittore. Si propone di definire il termine realismo magico e di individuare i tratti tipici di questo filone letterario, confrontandolo con altri filoni letterari che manifestano tratti simili. Inoltre, ci si concentra sulla concezione del realismo magico di Bontempelli, delineando i suoi concetti più significativi. Esaminando l’espressione “realismo magico”, si può notare che si tratta di una sorta di ossimoro che unisce due elementi semanticamente in contrasto – da una parte il sostantivo “realismo” che si riferisce a situazioni e ambienti reali, e dall’altra l’aggettivo “magico” che viene associato con il mondo fantastico e immaginario.

Tra i tratti tipici del realismo letterario appartengono l’ambientazione precisa, i protagonisti comuni e la rappresentazione fedele della vita dei personaggi. Gli autori quindi cercano di raffigurare la realtà quotidiana, creando nei lettori la sensazione che raccontino fatti veri. Dal punto di vista della forma, la narrativa tende a seguire l’ordine degli avvenimenti senza sperimentazioni stilistiche o formali, facendo continuamente il riferimento al reale. Il termine “magico”, invece, viene spesso usato per riferirsi a eventi straordinari, soprannaturali e inverificabili. Così, nella narrazione si trovano temi e situazioni inconsueti che si intrecciano e si oppongono con gli schemi tradizionali usati nel realismo. Il termine “realismo magico” è quindi una sintesi di due termini opposti che costituiscono un legame tra il mondo reale e fantastico. In altre parole, si parla del realismo magico quando gli elementi magici appaiono in un contesto realistico. Il termine “realismo magico” è per la prima volta utilizzato nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh per descrivere lo stile particolare del gruppo dei pittori tedeschi appartenenti al movimento artistico “Nuova Oggettività”.  Gli artisti appartenenti a questo movimento cercano di esprimere l’orrore e il caos della guerra, ma i loro dipinti sono privi di ogni sentimentalità. Per di più, nella loro concezione della realtà sono notevolmente influenzati dal pittore italiano Giorgio De Chirico, esponente principale della corrente artistica che si chiama “La Pittura metafisica”. Tra i caratteri fondamentali della produzione di De Chirico appartengono per esempio le prospettive multiple, l’assenza dei personaggi umani, le scene che si svolgono nei posti isolati e l’atmosfera inquietante, tutto ciò suscita la sensazione di solitudine e straniamento. Dunque, i dipinti metafisici raffigurano oggetti ed eventi che fanno parte della realtà quotidiana, ma li presentano da prospettive diverse, creando una sensazione del mistero e della meraviglia. A differenza del realismo magico letterario, nella pittura non troviamo gli elementi magici o fantastici inquadrati esplicitamente nella rappresentazione della realtà, ma si tratta piuttosto di una visione del mondo attonita, come se la realtà fosse vista attraverso un obiettivo misterioso. Successivamente, il realismo magico è associato con il realismo insolito degli artisti come Ivan Albright, Paul Cadmus e George Tooker che fanno parte del gruppo di pittori americani attivi negli anni ‘40 e ’50. Quanti dipinti si potrebbero considerare delle vere e proprie opere che fanno parte di quel rinnovamento che, in opposizione ai linguaggi delle avanguardie, allo scorcio del secondo decennio del secolo tornarono a parlare l’antica lingua dei grandi maestri primitivi italiani, di Giotto, di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, alcuni addirittura ritrovando nuove suggestioni nel mito delle culture arcaiche e primitive, così come magistralmente rilette da Picasso il volto più dionisiaco dell’arte contemporanea, in alcuni tra i suoi più incredibili dipinti degli anni Dieci, primo fra tutti Les demoiselles d’Avignon? Un sintetismo primitivo, che aveva appassionato anche il giovane Amedeo Modigliani, quando giunse a Parigi nel 1906, e aveva messo alla prova, suppergiù negli stessi anni, un po’ tutta l’avanguardia, da Apollinaire a Marie Laurencin, da Delaunay a Vlaminck, da Brancusi a Max Jacob, da Picasso a Max Weber, che nel culto delle antiche civiltà nere, ma soprattutto nell’opera incorrotta e profondamente ingenua del Doganiere Rousseau, colsero l’esempio più alto del realizzarsi, nell’attualità della storia contemporanea, di una nuova, perfetta congiunzione di forma, verità e simbolo. E proprio a Rousseau va dato merito se rimase accesa nell’arte europea del XX secolo una fiamma di naïvetè arcaica ed innocente, capace di alimentare il cuore di molti artisti moderni, dai già citati Picasso, Derain, Max Weber, all’italiano Carlo Carrà, che per questa via, spenta la passione futurista e non ancora domata quella metafisica, ritroverà, verso il 1915, i caratteri distintivi di una “pittura dell’origine” sua propria, animata da suggestioni e motivi che richiameranno a nuova vita non solo la tradizione arcaica dei pittori primitivi del Trecento e Quattrocento ma anche la forza perduta del simbolo. In Carlo Carrà il ricordo della figurazione primitiva di Rousseau diventerà l’allegoria del Fanciullo prodigio, un dipinto del 1915, in cui si è voluto acutamente ravvisare una sorta di ritratto dell’Artista, di colui che attraverso la sofferenza dell’età adulta ha ritrovato la fanciullezza e nella fanciullezza ha riabbracciato il prodigio della Meraviglia, lo sguardo incontaminato della purezza.

Nello spazio senza tempo, dove viaggia La carrozzella, dipinta da Carrà nel 1916 o nel primitivismo scarnificato ed enigmatico di I romantici, sempre del 1916, si compie la brevissima ma intensa stagione del primitivismo italiano, che volgerà da queste premesse, verso l’affermazione di quella che il grande critico e storico dell’arte tedesca Wilhelm Worringer, proprio riferendosi all’opera di Carrà, nel 1921 definì “la misura classica dell’arte europea”. Se per la maggior parte degli artisti europei il ritorno alla figurazione coincise con un atto di rinuncia dei postulati teorici e formali delle dottrine dell’avanguardia, ci fu anche chi, come il grande pittore italiano di origine greca Giorgio de Chirico, sulla strada del classico aveva da sempre indirizzato la propria ricerca. Il pittore greco dal volto d’Apollo, padre della Metafisica, aveva fatto la sua scelta fin dai tempi della giovinezza, quando, negli anni di Monaco, aveva adottato come suoi maestri ideali Bòcklin e Klinger, e aveva trovato conferma alla sua idea di moderno nella scultura antica e nelle regole dell’arte italiana del Rinascimento. Fedele ai propri convincimenti, che gli fecero abbracciare da subito la strada di una figurazione classica, de Chirico, fin dall’inizio attese alla vita segreta delle cose e tentò di rappresentarla nelle sue prime composizioni metafisiche, all’incirca a partire dal 1910, sebbene l’anno ufficiale di nascita della Metafisica va ricondotto dal 1917, quando nella città di Ferrara, lì giunti per diverse ragioni, si incontrarono e ne condivisero le formulazioni di poetica Carlo Carrà, il più giovane Filippo de Pisis, Alberto Savinio, fratello di de Chirico e lo stesso de Chirico, che alla metafisica aveva da tempo dedicato il suo cuore e la mente. Come dice lo stesso De Chirico dalle pagine di “Valori Plastici”: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile, ci vorrà tempo e fatica”, tuonava Giorgio de Chirico alla fine del 1919 sulle pagine di “Valori Plastici”, ad un anno dalla prima uscita della rivista diretta da Mario Broglio. Quel processo di “restaurazione” dei valori formali che si era avviato nelle arti figurative in tutta Europa nell’immediato primo dopoguerra trovò espressione in Italia in questa rivista, luogo di convergenza e di confronto delle forze più vive dell’arte e della critica di quegli anni. Sin dal primo numero ospitò sulle sue pagine i nomi più diversi di critici e artisti, provenienti da situazioni culturali talvolta contrastanti. Comune era però l’asserzione della crisi della modernità, così come era stata espressa nell’esperienza dell’avanguardia e la ricerca di uno stile e di un linguaggio che si esprimessero nell’ambito di regole formali eterne. Ciò si traduceva nella volontà di riaffermare la concezione dell’arte come esperienza della tradizione, specificamente quella italiana, e di propugnare come alternativa un rinnovato classicismo, talvolta invocato come “italianismo artistico”. Questo clima intellettuale tipicamente italiano e l’intento di definire “il carattere dell’arte” distinguono il “clima di Valori Plastici” dalla generale tendenza del ritorno all’ordine che è diffusa negli stessi anni in tutta Europa. È datato aprile 1918 il frammento poetico Zeusi l’esploratore che Giorgio de Chirico invia a Broglio da Ferrara perché appaia sul primo fascicolo di “Valori Plastici”, la cui uscita verrà invece posticipata, per vari motivi, al mese di novembre. Il primo numero di “Valori Plastici” apre all’insegna della Metafisica, recando sul frontespizio l’Ovale delle apparizioni di Carrà del 1918. Si accrediterà così l’immagine di rivista ufficiale della Metafisica, presentandosi principalmente come tribuna di espressione di de Chirico e Savinio, anche se nella mente di Broglio non c’era un preciso programma, né l’intenzione di lanciare manifesti, quanto piuttosto quella di provocare un confronto all’interno di una situazione comune. Nello stesso periodo si pubblicava il volume Pittura metafisica di Carlo Carrà. Tra il 1918 e il 1919 si parlava perciò ancora di Metafisica, finalmente chiarificata dai primi scritti teorici pubblicati dagli artisti stessi, proprio mentre evolvevano verso nuovi approdi. Et quid amabo nisi quod aenigma est? era stato infatti il titolo da lui dato molti anni prima ad un famosissimo autoritratto, opera nella quale il suo volto appare segnato da una profonda inquietudine, quasi che la capacità di vedere oltre le apparenze, gli rivelasse tutte le pene della solitudine e della malinconia, proprie dell’uomo contemporaneo. Ogni Piazza d’Italia del resto sarà, nello stesso tempo, luce accecante e ombre inquietanti, visibile e invisibile che si rincorrono, presente e passato che si congiungono.

Se per i futuristi la relazione tra lo spazio e gli oggetti fu azione allo stato puro, per i pittori metafisici divenne luogo della rivelazione magica della vita nascosta delle cose: gli oggetti, pur rimanendo riconoscibili, persero ogni legame di contiguità e di logica concatenazione con lo spazio che li circondava o con gli altri oggetti disposti nello stesso spazio. Ne furono prove superbe le rarissime nature morte metafisiche di Giorgio Morandi che alla metafisica giunse più tardi, accompagnato oltre che dalla lezione di Carrà, da un ripensamento in guisa di una assoluta rarefazione delle cose nello spazio della lezione di Cézanne e la serie più nota delle Piazze d’Italia di de Chirico appunto, come la celebre Matinée angoissante, dipinta nel 1912, che ci rivela lo spettro dell’enigma in una Torino assolata, con il lungo porticato in ombra che corre a perdita d’occhio sulla sinistra e che incrocia in primo piano la sagoma cupa di un treno che passa, ricordo improvviso del padre e della terra natale. “La pittura di de Chirico scrisse Soffici sulla rivista “Lacerba” nel 1914 non è pittura nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e di facciate, di grandi linee dirette, di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di stasi, che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo della nostra anima quasi addormentata. Giorgio de Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto “la melanconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo a una piazza solitaria, oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno, staziona il camion di un grande magazzino, o fuma una ciminiera altissima nel cielo senza nuvole”. Alla Metafisica successe il tempo del mito e dell’allegoria: negli anni Venti, la pittura di de Chirico, con la quale ebbe interessanti assonanze quella dell’amatissimo fratello Alberto Savinio, più interessato però alla rappresentazione onirica e surreale della realtà che all’indecifrabilità dell’enigma, si volgerà alla rilettura dei grandi Maestri del passato. La perfezione tecnica e la misura di Raffello, Tiziano, Dosso Dossi, Poussin (e negli anni Trenta soprattutto Rubens, Fragonard, Delacroix) gli fecero comprendere come raggiungere il folle sogno dell’immortalità, senza per questo rinunciare alla seduzione dell’enigma, cui si confacevano le sembianze dei manichini gladiatori, copia dei dioscuri omerici che compaiono nei suoi quadri verso il 1926, o gli archeologi ermafroditi, con il torace e il ventre ingombro di colonne, templi, alberi e quanto d’altro la sua fervida fantasia e lo stato di sogno gli suggerivano. Gino Severini anticipa tutti. Già nel 1916 aveva affermato la propria indipendenza dal futurismo, approdando alle sue prime composizioni classiche, una scelta che troverà fondamento teorico nel testo pubblicato a Parigi del 1921. È in anticipo anche sulle scelte d’altri grandi pittori del tempo, come per esempio Pablo Picasso, che solo nel 1917 porterà a conclusione, grazie anche al viaggio in Italia, quel processo pur iniziato nel ’15 di trasformazione della sua pittura in direzione neoclassica. Con Severini è forse Carlo Carrà l’artista italiano che meglio rappresenta il passaggio del guado tra avanguardia, Realismo magico, Novecento e per certi aspetti antinovecento. La sua pittura attraversò e fu protagonista di tutte le principali tappe dell’arte italiana del primo ’900, dal futurismo al primitivismo, all’avventura metafisica, all’approdo alle poetiche della nuova figurazione di Novecento, alla sublimazione dell’opposizione al regime nelle sequenze dei paesaggi dipinti negli anni estremi della dittatura. “Mutare una direzione in arte – ebbe a scrivere a questo proposito in La mia vita – non significa rinnegare tutto il passato, bensì allargarlo fino a compenetrarlo con un altro concetto estetico. Scoprire nuovi rapporti ignoti, aprire meglio gli occhi per comprendere una somma maggiore di realtà”. Passata brillantemente la prova metafisica, in cui realizzò quadri dominati dall’inquietudine ma anche opere di più complessa fattezza nate dall’ambiguità come la natura morta metafisica superò la fase critica del passaggio tra il sogno visionario metafisico e la concretezza del realismo di Novecento, tra il ’19 e il ’21, dipingendo alcune delle più radiose rappresentazioni della storia dell’arte europea del ’900. I dipinti Le figlie di Loth, L’attesa, Il Pino sul mare, esercizi di umiltà e grandezza insieme, mostrarono nella restaurazione del candore arcaico ispirato dalla pittura dei grandi Primitivi italiani, la continuità della tradizione, che allo spirito del tempo presente portava dal passato i doni della Meraviglia, della Scoperta e dello Stupore, di una pittura, insomma, che era nello stesso tempo etica ed estetica. Negli anni successivi Carrà riportò la sua pittura dentro un alveo di più forte naturalismo, dando vita ad una serie di mirabili paesaggi con figure o semplici marine raffiguranti il litorale toscano, che rappresentarono anche in età tarda, tra la fine degli anni Venti e i Trenta, il permanere nella sua ricerca di caratteri di magico realismo, coniugati non più alla rarefazione narrativa del suo antico primitivismo o della parentesi metafisica, ma piuttosto alla riscoperta di una nuova mitologia del quotidiano, ancora ricca d’incanto e di sorpresa, nella quale azioni e cose, nel permanere nell’atmosfera di un misterioso incanto, assurgevano al ruolo di nuovi riti. La ricomparsa in epoca tarda di una riflessione sulla pittura di paesaggio, impegnò Carrà nell’esecuzione quasi ossessiva di opere in cui luce e atmosfera davano spazio a quella voce antinovecentista, che fu di molti artisti contrari al regime, che proprio nella rinascita di temi molto ortodossi della pittura, come il paesaggio, seppero attendere negli anni più bui del fascismo all’esercizio etico del mestiere. La Metafisica rappresentò un episodio straordinario dell’arte italiana, ma limitato nel tempo. I suoi protagonisti, in primo luogo de Chirico, ma è il caso anche di Carrà, de Pisis, Morandi, Savinio, alle soglie degli anni Venti erano già consapevoli che questo capitolo intenso ma breve della loro ricerca stava volgendo alla fine e la loro pittura era già in ascolto di nuove suggestioni, attratta più fortemente e più compiutamente da un esercizio formale e di composizione che superava, in direzione di una ritrovata classicità, la separazione dell’enigma metafisico. Peraltro la pittura metafisica contribuì con la sua poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, a preparare un fertile terreno per quegli artisti che alla pittura dell’avanguardia avevano dato poca retta, o per brevissimo tempo ne avevano condiviso la poetica come Mario Sironi, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Felice Casorati, Virgilio Guidi, Antonio Donghi, Piero Marussig, Arturo Martini, artisti tutti già attivi sulla scena dell’arte nazionale nei secondi anni Dieci. Costoro, ignorando il clamore futurista in quel torno di tempo ancora acceso nei toni, e certo più interessati al richiamo della storia, erano pronti a scrivere il nuovo capitolo della pittura italiana postbellica, che dalla storia e dalla riflessione sul passato voleva trarre originale energia creativa. Il loro intento fu quello di far rivivere la tradizione antica nell’attualità del tempo presente, di ridare fiato alla ricerca dell’origine e dell’identità, di promuovere in un clima culturale dove la tendenza neopurista vinceva le ultime resistenze dell’avanguardia, una ricognizione sui repertori antichi per farne nuova fonte d’ispirazione. Tra gli interpreti più originali della traduzione metafisica in testi di puro arcaismo magico fu senza dubbio il piemontese Felice Casorati, autore di alcune tra le più toccanti e misteriose composizioni di quegli anni “di mezzo”, tra il ’20 e il ’23, anni sospesi tra la vocazione all’incanto del realismo magico e la più solida partita di Novecento. Casorati non visse il travaglio dei molti cambiamenti di stile, che aveva accompagnato la maturazione per esempio dell’opera di Carrà: il suo abbandono alla figurazione composta e tradizionale fu una scelta di antica data e risaliva ancora ai primi anni Dieci, quando nel 1907 fu accettato tra gli espositori della Biennale di Venezia e poi, tra il 1913 e il 1920, fatta salva la parentesi della guerra, partecipò sempre a Venezia alle rassegne di Ca’ Pesaro. Dunque non di ritorno ma piuttosto di continuità nella cifra classica si deve parlare per questo grande autore, che nella casa-studio di via Mazzini a Torino, accoglieva come discepoli giovani artisti come Gigi Chessa, Francesco Menzio, Carlo Levi, tutti protagonisti di quel momento d’oro della vita torinese, all’incirca verso il 1923, in cui le aspettative di un’arte nuova vennero a coincidere con la poetica del realismo magico. Ma quale antico, quale classico fu invocato da questi artisti sopravissuti alla tragica, lunga parentesi della prima guerra mondiale, che cambiò le sorti e il volto del vecchio continente, aprendo la strada a nuovi nefasti destini, nei primi anni Venti, anni ancora innocenti, celati sotto le spoglie dell’utopia socialista? Non bastò all’inizio richiamare a nuova vita la gloriosa storia che aveva fatto grande l’Italia artistica del Rinascimento: i più, Carlo Carrà in testa, vollero spingersi ancora oltre, fino alle nude pendici rocciose del Monte sacro dipinto da Giotto, per recuperare all’arte contemporanea l’essenzialità narrativa della lezione esemplare di verità ed etica dei Primitivi italiani, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Modelli che divennero esempi di riflessione per la nuova poetica del realismo magico, dove proprio il silenzio magico di Giotto fu la parola d’ordine che non fece perdere la rotta nella notte buia dell’ideologia, il silenzio delle parole mute, dei luoghi senza tempo, di vite immobili e sospese, l’unica vita possibile per chi non volle misurarsi o confondersi con la retorica di Stato. La magica e immota segretezza che pervase di sé gli oggetti della pittura italiana ed europea degli anni Venti, fu espressione di valori contrari a quelli delle avanguardie, sia nell’ambito pittorico che in quello afferente il significato dell’opera d’arte, che rispose a una nuova visione dell’oggetto acquistava il valore assoluto di “simbolo profondo per contrastare l’eterno flusso mediante qualche cosa che persiste”. È questa una definizione di poetica che attribuiva alle cose animate e inanimate della pittura una funzione escatologica, vicina al pensiero di Nietzsche e Schopenhauer e in evidente contrapposizione con la filosofia bergsoniana dello slancio vitale. Lo spirito del realismo magico, cresciuto e nutrito tra il 1918 e il 1922 grazie al dibattito teorico aperto dalle pagine della rivista “Valori Plastici” diretta da Mario Broglio rivista cui contribuirono le intelligenze più vive dell’arte del tempo, da de Chirico, a Carrà, a Savinio all’incirca verso il 1923 confluì e per certi aspetti si saldò con i caratteri più austeri e composti di Novecento, che non fu un vero e proprio movimento, come del resto non lo era stato il realismo magico, ma più semplicemente una tendenza di stile. L’eterogeneità del lavoro dei pittori, che oggi si indicano come novecentisti, non consentì infatti di elaborare una poetica comune, anche se furono condivisi alcuni caratteri distintivi di uno stile che fece ricorso alla figurazione, alla fedeltà ai canoni di un naturalismo idealizzante, ad una composizione sommaria, non descrittiva, ma vigorosa nella ritrovata plastica dei volumi, ad atmosfere sospese che accoglievano forti suggestioni del realismo magico. Iconografia e caratteri stilistici di questa nuova figurazione traevano esempio da modelli del mondo classico per eccellenza, ma anche da quello già ricordato dei Primitivi italiani e soprattutto dalla lunga stagione rinascimentale e dalla sua rinascita in età neoclassica, da artisti della tempra di Ingres, ma anche dalla pittura dei fiamminghi e degli etruschi, un soggetto quest’ultimo che trovò compiuta celebrazione nell’opera di Massimo Campigli. I temi più diffusi furono il ritratto, la natura morta e l’allegoria, porta aperta tra la realtà apparente e la verità profonda delle cose. L’allegoria apparve nelle sue molteplici sembianze, da quella mitica a quella biblica, da quella implicita, celata dietro l’apparente realismo delle cose rappresentate, a quella esplicita rivolta alla poesia sommessa e raccolta del quotidiano, a quella, infine, allusiva legata ad un repertorio iconografico di simboli che riflettevano le grandi problematiche della vita e della morte, del tempo, del sacro. Novecento nacque nel 1922 da un raggruppamento di sette artisti, Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi, che si presentarono riuniti sotto quest’etichetta nel 1923 alla mostra tenutasi nella Galleria Pesaro di Milano, con gli auspici di Mussolini e la presentazione della giornalista, critica d’arte Margherita Sarfatti. Nel 1924 il gruppo “Sei pittori del Novecento” (Oppi si era isolato) si presenta alla Biennale di Venezia con un testo della Sarfatti in catalogo: scopo della mostra, così come delle esposizioni che seguiranno, alcune di grande rilievo come quelle del 1926 e del 1929, fu quello di ridare alla pittura italiana, un primato nell’ambito della ricerca artistica europea. Margherita Sarfatti, teorica del gruppo, lavorò con fede e passione per ricondurre ad unità di stile e d’intenti il lavoro dei migliori artisti italiani dell’epoca, anche allo scopo di rifondare una tradizione pittorica italiana moderna. Tenace e volitiva Margherita Sarfatti difese i caratteri di “italianità” dell’arte contemporanea, cui però non pose mai veti né vincoli, accogliendo nel suo gruppo le più disparate inclinazioni, purché rivolte all’identico progetto di sostegno e valorizzazione dell’arte nazionale. E proprio in quella direzione, di un’arte profondamente italiana, capace di rappresentare il nuovo sentimento degli artisti, attenti ad un’interpretazione in chiave contemporanea della tradizione passata, ma anche di un’arte coincidente con i nuovi valori dettati dal regime si pose la delicatissima questione del rapporto arte e politica. È delicatissimo il compito di valutare criticamente, alla luce della storia tragica del Ventennio fascista, il significato di quella affinità tra l’interesse degli artisti per i Maestri Antichi e quell’identica passione espressa dalla dittatura, che in Italia proprio sulla pittura degli Antichi costruì gran parte del proprio repertorio di simboli e vaneggiamenti, di glorie e d’eroi, mostrando nella retorica della citazione il limite della propria politica conservatrice. I rapporti tra la poetica di Novecento e il regime di Mussolini, che a Novecento diede il proprio appoggio ufficiale nel 1923 in occasione della prima mostra del movimento alla Galleria Pesaro di Milano e nel 1926 alla mostra Il Novecento Italiano sempre a Milano, è un capitolo complesso della storia artistica dell’Italia fascista tra gli anni Venti e i Trenta. E la complessità derivò proprio dall’ambiguità della relazione tra l’immaginario dell’ideologia fascista, che nella sua febbrile attività di propaganda rispolverò molti dei vecchi miti dell’Italia antica, attualizzandoli in una veste retorica e conservatrice, e la poetica autenticamente originale di quel ritorno all’ordine, che dopo l’euforia dell’avanguardia, aveva ristabilito il valore dello stile come idea, della regola come metodo di conoscenza, del classico come origine e attualità. Negli anni Trenta il disperdersi all’interno della poetica di Novecento del silenzio e dell’aura incantata del realismo magico, che lasciò il posto ad un realismo sempre più concreto e assertore di valori ideologici funzionali al fascismo, fu manifesta espressione della fine dell’autonomia dell’arte. La perdita del sogno e del principio di verità favorirono l’avvento di un nuovo corso della pittura italiana, forzatamente epico e monumentale, per molti aspetti anche glorioso nei risultati, soprattutto là dove si misurò con le grandi dimensioni degli affreschi murali di propaganda. Mario Sironi fu tra i molti che si ritrovarono a dover fare i conti con le grandi committenze pubbliche, destinate a celebrare i sogni di gloria del regime, i suoi luoghi comuni, le sue virtù. Avvezzo ad una straordinaria e colta frequentazione dei repertori classici, frammista ad una pressoché unica capacità di governare con il suo gesto creativo la tettonica degli spazi delle grandi composizioni, il suo contributo emerse per qualità e altezza dei risultati pittorici, certo non secondi a quell’autentica vocazione magico realista, che nel corso degli anni Venti, nelle sue misteriose composizioni, come per esempio nel superbo dipinto del 1924 L’allieva, aveva offerto uno dei più significativi contributi del XX secolo alla rappresentazione della tragica melanconia dell’uomo contemporaneo. Per molti altri, invece, la concessione ad una pericolosa adulazione, trasformò il gesto creativo in una pedissequa propaganda, di segno dunque contrario ai principi di un’arte realmente libera. Non fu sempre facile nel turbinio degli eventi dell’arte del Ventennio riconoscere e distinguere la moralità dell’esercizio autentico dell’arte dall’acquiescenza al potere. Ciò avvenne principalmente per due motivi: da un lato per il fatto che in Italia la questione culturale non diventò mai una bandiera in prima linea della propaganda politica, a tutto vantaggio della circolazione delle idee dell’arte, anche di quelle non propriamente in linea con il gusto del regime, dall’altro lato perché anche là dove, come in Novecento, i temi della pittura coincisero con i nuovi miti del potere politico, questo fatto, come sopra si è ampiamente scritto, non fu se non in casi eccezionali tacciabile di consapevole connivenza ideologica. Va peraltro rilevato che l’organizzazione delle attività culturali sul territorio nazionale aveva creato nel settore artistico uno strumento molto avanzato di controllo, costituito da una rete capillare di premi e di mostre “sindacali” provinciali e regionali, i cui migliori esponenti confluivano nelle grandi manifestazioni nazionali. A queste mostre, è inutile dire, posizioni contrarie al regime non furono naturalmente ammesse, mentre furono ammesse, forse perché non riconosciute come antitetiche alla politica culturale del fascismo, molte opere che oggi si possono definire “di resistenza”, opere nelle quali gli artisti, contrari al gusto dominante di Novecento, e contrari soprattutto all’idea di un’arte di regime, manifestarono il loro disagio con una fuga nelle più svariate direzioni, dal facile ripristino della poetica del paesaggio postimpressionista, all’espressionismo di toni accesi della Scuola romana, all’astrazione geometrica dei pittori milanesi attivi attorno alla galleria del Milione di Milano, al chiarismo promosso dal critico Edoardo Persico, al Gruppo dei Sei di Torino sostenuto dal critico Lionello Venturi. In questo modo si assicurò alla vita culturale del Paese un passaggio sufficientemente ampio attraverso le more del fascismo, che solo alla fine degli anni Trenta, poco prima dello scoppio della guerra, rafforzò le proprie difese contro l’opposizione culturale, che inconsapevolmente era stata nutrita e cresciuta al suo stesso interno nel corso degli anni precedenti. Negli anni Trenta, nel clima di generale dispersione delle regole e degli indirizzi di stile, che avevano governato il fronte dell’arte novecentista, emerse dunque alla superficie, pur celata da un’apparente, innocua diversità, la fronda di chi non era stato solidale all’idea del ritorno all’ordine e aveva battuto altre strade. Molti di questi artisti trovarono ragioni comuni in una pittura calata in una sorta d’esistenzialismo capace di slanci lirici della materia e del colore, inimmaginabili per la sobria plastica di Novecento, o, ancora, sospinti verso il racconto di una visione tragica e angosciosa della realtà, cosa anche questa severamente bandita dalle serene, placide composizioni del vigoroso classicismo di Novecento. Tra i molti artisti impegnati nella battaglia per la sopravvivenza di quella voce antiformalista e anticlassica, Mario Mafai e Renato Guttuso rappresentano gli estremi di una ricerca, che per vie diverse coltivò l’identica tensione di ansia e di verità. Da un lato ci fu l’avventura della scuola di via Cavour a Roma, culla della cosiddetta Scuola romana, che ebbe come principali protagonisti tra il 1927 e il 1930 Mario Mafai, la moglie Antonietta Raphäel, e l’amico intimo Scipione. La loro storia, che iniziò con il comune apprendistato presso la Scuola libera di nudo a Roma nel 1925, si intrecciò naturalmente con quella “ufficiale”, scandagliò le possibilità dell’arcaismo, della metafisica, del classicismo, per approdare infine, in dialettica con Novecento e non come radicale opposizione, ad una pittura del tutto originale, intrisa di emozionalità dove il colore riconquistò una forte carica espressiva, aiutato dal ricorso ad un tonalismo romantico che soprattutto in Scipione e Mafai corroborava la forma di una nuova capacità evocativa, non più descrittiva e analitica ma sommaria ed enunciativa. La fine precoce di Scipione, morto nel 1933, e l’allontanamento dall’Italia di Mafai e della moglie Antonietta Raphäel, chiuse un capitolo brevissimo ma intenso dell’arte italiana, la cui eredità fu accolta e interpretata da altri artisti romani impegnati in percorsi alternativi alle strettoie del classicismo, come Cagli, Capogrossi, Melli, Ziveri. Protagonista del gruppo milanese ‘Corrente’, costituito da oltre una decina di artisti riunitisi nel 1938 attorno alla rivista “Vita giovanile”, fondata dal pittore Ernesto Treccani, fu invece il giovane Renato Guttuso, un’artista che salirà agli onori delle cronache internazionali dell’arte nell’immediato dopoguerra, per il suo rigoroso impegno culturale nella vita politica dell’Italia postfascista. Già sul finire degli anni Trenta Guttuso aveva fatto la sua scelta, proprio nella direzione anticlassica battuta da ‘Corrente’, che alla tradizione mediterranea e rinascimentale oppose una visione tutta europea, sorretta da una riflessione critica su quanto la pittura d’oltralpe aveva prodotto nella scia dell’anticlassicismo, dunque basata sul riesame dell’opera di Van Gogh, Ensor, Munch, gli espressionisti tedeschi e soprattutto di Picasso, sulla cui lezione si imposterà il lavoro di gran parte della pittura italiana alla fine della seconda guerra mondiale. Nel gruppo di ‘Corrente’ Guttuso rappresentò l’anima anti-lirica per eccellenza, che si opponeva a quel filone più incline all’espressività del colore che della forma, bene interpretato da Renato Birolli. La pittura di Guttuso fu inizialmente orientata in senso fortemente espressionista, sfuggendo ad ogni sospetto di classicità: il suo tragitto partiva da rappresentazioni nelle quali forma e colore, nell’esasperazione delle linee e dei toni, si mescolavano sulla tela come parti indistinguibili di una realtà nella quale, forse solo in misura pari alle visionarie tele di Scipione, si coagulava la ribellione alle regole e alla misura di Novecento. Agli inizi degli anni Quaranta – già dal 1937 Guttuso risiede stabilmente a Roma dove è vicino anche all’ambiente della cosiddetta Scuola romana – il suo espressionismo cede gli accenti più forti ad una più sobria figurazione, come nel caso di Figura, tavolo e balcone e Donna alla finestra  del 1942, opere nelle quali già si misura la sua vocazione per un realismo capace di accendere “una nuova sensibilità estetica, che andava di pari passo con una nuova coscienza sociale, che da un generico ribellismo antiborghese arrivava alla progressiva consapevolezza antifascista”. Renato Guttuso nasce a Bagheria, in Sicilia, da subito entra in contatto con la pittura attraverso il padre, anch’egli artista; successivamente frequenta lo studio del pittore Emilio Murdolo. I paesaggi, i rilievi montuosi della sua terra, ispireranno Guttuso lungo tutto il corso della sua carriera. All’età di tredici anni firma già diverse opere, legate prevalentemente alla pittura di paesaggi. Negli anni a venire si sposta dalla città natale per studiare a Palermo, presso la bottega di Pippo Rizzo, scultore e pittore vicino al futurismo. Negli anni Trenta, Guttuso lascia l’isola per Roma, dove espone alla Quadriennale Nazionale d’Arte e poi l’anno successivo, il 1932, arriva a Milano, ospite presso la Galleria del Milione insieme ad altri artisti siciliani. Durante il servizio militare, pochi anni dopo, ha l’occasione di conoscere Lucio Fontana, diventato in seguito fondatore dello Spazialismo, Elio Vittorini, poi ideatore nel 1945 della rivista Il Politecnico, ma anche il famoso letterato Salvatore Quasimodo; il filosofo Edoardo Persico e molti altri. Sono gli anni in cui l’artista matura una coscienza politica che influenzerà la realizzazione delle sue opere, intrise di simboli e ideologie. Il 1939 è l’anno in cui si trasferisce nella capitale, Roma, fonte d’ispirazione e occasione di studio continuo, ma che deve lasciare qualche anno dopo per complicazioni politiche. In quegli anni, Mussolini persegue a Roma una sempre più aspra politica di repressione, contro i partiti dell’opposizione; Guttuso, fortemente antifascista, è costretto a lasciare la città. Nel 1945 è a Parigi dove conosce Pablo Picasso, considerato un amico, ma anche uno stimolo sempre nuovo per le sue opere, essendo l’artista spagnolo una delle personalità del Novecento più varie a livello di sperimentazione tecnica. Fondamentale è, nel dopoguerra, l’adesione al gruppo artistico Fronte Nuovo delle Arti (1946-48), per dare voce a tutti gli artisti che, per colpa del fascismo, non poterono esercitare liberamente la propria arte in Italia. Ne fanno parte Leoncillo Leonardi, Morlotti, Vedova, Corpora, Fazzini e altri. Una vita molto dinamica quella di Guttuso, un artista che viaggia sia per l’Italia che all’estero, ottenendo riconoscimenti, importanti collaborazioni per scenografie teatrali, riviste italiane e internazionali, oltre all’invito ad esporre più volte in occasione della Biennale di Venezia. Dal 1965 vive e lavora a Roma a Palazzo del Grillo, senza mai abbandonare la carriera politica non era mai venuta meno la sua fede comunista: già nel 1940 si era infatti iscritto al Partito Comunista d’Italia clandestino, culminante con l’elezione a senatore nel PCI, il Partito Comunista Italiano, nel 1976. Il suo capolavoro del 1972, I funerali di Togliatti, oggi conservato al MAMbo di Bologna, è una sorta di manifesto della pittura comunista. Nel 1974 dipinge invece Vucciria, il capolavoro dedicato al noto quartiere di Palermo. Il 18 gennaio del 1987 si spegne a Roma, all’età di settantacinque anni. Nella sua carriera, Guttusot ha collezionato ben quattro partecipazioni alla Biennale di Venezia  dal 1948 al 1995 e tre alla Quadriennale di Roma  dal 1931 al 1937, oltre a mostre personali a Palazzo Grassi a Venezia  del 1981, a Milano a Palazzo Reale  del 1985, allo Stedelijk Museum di Amsterdam  del 1962, alla Kunstverein di Francoforte  del1975. In assenza di un linguaggio adeguato più di un altro per realizzare opere d’arte impegnate politicamente, Guttuso opta per la libertà espressiva. La sua idea risulta chiara leggendo le seguenti parole: “Esprimersi con assoluta sincerità ed in comunità di spirito, liberi da ogni preoccupazione, sia arcaica che neoclassica, sia metafisica che intellettualistica. Primitivi, per necessità, perché nati in un’epoca di inizio” da Discorsi sulla sincerità: i giovani, in L’Ora, 10-11 aprile 1933. Una delle sue opere più note è la Crocifissione del 1941. Un’opera molto criticata soprattutto dalla Chiesa per la “rappresentazione irriguardosa” del Cristo in croce, secondo la curia bergamasca. I colori sembrano spenti, quasi metallici, i corpi deformati simili a caricature; le pose assunte dalle figure sono antinaturalistiche e allungate, figlie dell’influenza dell’opera di Picasso, Guernica. Guttuso continua con i suoi interventi non convenzionali, attraverso tecniche tradizionali, come il disegno, ampiamente utilizzato dall’artista la parte progettuale, infatti, è anche lo strumento con cui l’artista fa pratica.

Negli anni Cinquanta, Guttuso è quindi solito prendere un disegno e intelarlo, presentandolo come fosse un dipinto. Alcuni studiosi di Guttuso, in particolare Enrico Crispolti, critico e storico dell’arte italiano, hanno trovato delle difficoltà nell’attribuire con certezza opere all’artista, seppur egli, all’epoca dell’indagine, fosse ancora in vita; ciò che mise in difficoltà il critico e l’artista stesso era la quantità di disegni realizzati: talmente tanti da non riuscire a distinguere un originale da un falso. Un problema che neppure l’intervento di Guttuso in persona poté risolvere. Molti gli artisti che elogiarono l’artista siculo, in primo luogo l’amico, scrittore, poeta e regista Pier Paolo Pasolini, ma anche le testimonianze di Leonardo Sciascia sono rilevanti per comprendere come agiva l’artista. Un’amicizia, quest’ultima, interrotta da una discussione politica. Dagli scritti si evince che nelle sue opere il legame con la terra occupa un posto fondamentale, sebbene in continua evoluzione con la sua poetica. Su un’opera giovanile, La fuga dall’Etna, 1938-1939, Sciascia fa un parallelismo con l’attaccamento alle proprie origini, concetto cardine in Giovanni Verga: “La poetica è per entrambi quella di semplificare le umane passioni, ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga l’uomo attaccato allo scoglio della miseria e degli affetti, soffre come e quanto l’uomo in fuga, l’uomo in rivolta di Guttuso”. Guttuso, peraltro, nel 1978 realizza alcune illustrazioni per I Malavoglia di Verga. Anche Maurizio Calvesi nel saggio Guttuso e la Sicilia del 1985 scrive a proposito di vicinanza alla terra natia: “pochi artisti, come Guttuso, sono così profondamente segnati dalla loro origine, e non soltanto nella natura dei temi, ma nelle stesse scelte linguistiche”. Negli anni Quaranta, l’arte di Guttuso cambia: il realismo e il drammatismo dei suoi dipinti si accentuano, e nell’immediato dopoguerra diventa vivo l’interesse per uomini e donne del popolo. Guttuso, in quegli anni, realizza due versioni dell’Occupazione delle terre incolte in Sicilia, una del 1947 (meglio nota come Marsigliese contadina), e l’altra del 1949 circa; è evidente un cambiamento tecnico da parte dell’artista. Le due opere non sembrano nemmeno avere così pochi anni di distanza una dall’altra. Nella prima emerge l’influenza di Guernica di Picasso, artista che conosce e col quale stringe amicizia nel 1945: le figure sono talmente vicine che quasi si sovrappongono, i volti sono squadrati, le espressioni fredde, spesso senza i connotati del viso; le sembianze umane sono deformate totalmente, quasi come se fosse una natura morta. La seconda versione è al contrario chiara e leggibile per l’osservatore, in quanto le figure sono distinte tra loro, oltre che dal paesaggio circostante. Una delle sue ultime opere è La fuga in Egitto del 1983, per la cappella del Sacro Monte di Varese, dove inconfondibili sono i colori, provenienti dalla sua Sicilia. Negli stessi anni, nel silenzio di un’impresa quasi impossibile, giorno dopo giorno, ci fu chi giocò una partita assolutamente solitaria. È il caso del pittore bolognese Giorgio Morandi che rinunciò a partecipare a qualunque manifestazione pubblica e collettiva, dove l’arte fosse stata protagonista. Fu il suo un distacco dalla vita attiva, un prendere le distanze dalla politica, la dichiarazione di una propria diversità, così come diversa da ciò che si andava ricercando in Italia in quel torno di tempo, fu la sua opera, quotidianamente e quasi ossessivamente attesa allo studio e alla catalogazione delle poche, piccole cose del suo ristretto mondo domestico. Bottiglie, tazze, brocche e qualche barattolo vuoto, rimasto a decantare sul tavolo di casa divennero la ragione stessa della sua poetica, forma e contenuto della sua ricerca, tutta risolta nell’amore di un unico genere, la natura morta appunto, con qualche rara eccezione per il paesaggio. “Nel ’31 – scrive il critico Arcangeli nella monografia dedicata al grande bolognese – Morandi, torna a colare a picco, in silenzio. Modestamente, senza importunare nessuno, senza che nessuno intenda davvero, dipinge i quadri e lavora all’incisione ch’io ritengo le opere più ardite e nuove dell’Europa di quel momento. Sono i suoi soliti oggetti, ma adesso egli riprende l’indagine, tentata in profondità verso la fine del 1929 e proseguita saltuariamente nel ’30, con anche più dura, triste, accanita sapienza. Ogni opera, testimonia di un’ossessione allucinata, potente, quasi folle. Davvero, come testimonia Brandi, si potrebbe ora parlare d’attacco dissolvente all’oggetto… ma l’oggetto non cede mai… Sono i suoi ostaggi, questi oggetti di cui egli è, tuttavia, prigioniero; sono ostaggi e, sicuramente, houtes pates”. Solo un cenno ma ne vale la pena: la fine della seconda guerra mondiale azzera in Italia, come nel resto d’Europa, ogni certezza e riapre conflitti radicali tra gli artisti, tra chi è chiamato traditore e chi invece sa di non aver tradito. Ogni guerra vuole le sue vittime anche dopo la fine reale dei conflitti. In questo la cultura con le sue abiure e le sue licitazioni, con i suoi compromessi e le sue sconfessioni, sembra essere un terreno molto fertile dove si accalcano i morti, chi non ha reagito, chi non ha capito, chi non ha voluto capire, chi infine ha fortemente creduto. Mentre negli anni quaranta in Italia  per la maggioranza degli artisti , l’Astrazione e l’Informale sono punti di arrivo , dopo un tentativo di percorrere a tappe forzate un percorso di aggiornamento , altrove più scontato , attraverso una figurazione neocubista o picassiana , e una fase di iniziazione /sperimentazione su nuovi materiali della pittura , spesso basata su suggerimenti provenienti dalla Francia o dall’America . Questo premessa non deve tuttavia far pensare a una situazione povera e provinciale.  In effetti l’Italia43 vive , nell’immediato dopoguerra , un’intensa stagione creativa , che la porta in pochi anni a un dialogo intenso e alla pari con altri paesi europei. Come si è detto , molti dei futuri pittorici informali attraversano, durante e subito dopo la guerra , una fase figurativa : alcuni come Morlotti , non la lasceranno mai, dando vita a un curioso ‘linguaggio ibrido’. Artisti provenienti dal clima della scuola romana , come Afro e gli scultori Leoncillo e Mirko che era il fratello di Afro, dopo una fase ‘figurativa e neocubista’ , affogheranno sempre più le loro suggestioni figurative in linguaggio astratto e, in seguito , informale , che tocca il suo apice creativo tra la metà degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta . Artisti origine o formazione veneziana , come Vedova o Turcato daranno una visione nuova all’ informale in Italia. Lo stesso succederà in seguito con Lucio Fontana con i suoi concetti spaziali e Alberto Burri che nella sua arte la materia diviene la sua pittura . Farà parte della collezione di Alberto della Ragione, Emilio Vedovache proviniva da una famiglia operaia e si forma come pittore prevalentemente autodidatta. Tenta svariati mestieri: in fabbrica, presso un fotografo, da un restauratore. A metà degli anni Trenta inizia a disegnare e a dipingere con grande intensità, privilegiando, come soggetti, prospettive, architetture, figure e molti autoritratti. Nel 1936-37 è ospite di uno zio a Roma dove frequenta la ‘Scuola Libera di Nudo’ di Amedeo Bocchi, quindi trascorre un periodo a Firenze frequentando con poca assiduità una scuola libera. Nel 1942 espone tre quadri al Premio Bergamo e aderisce al gruppo milanese ‘Corrente’. Il movimento di Corrente si preparò tra 1934 e 1937 e si costituì intorno alla rivista Vita giovanile -poi Corrente di vita giovanile e infine ‘Corrente- edita’ a Milano nel gennaio 1938 da Ernesto Treccani: fu punto di incontro per Renato Birolli, Renato Guttuso, Bruno Cassinari, Aligi Sassu, Giuseppe Migneco, Arnaldo Badodi, Ennio Morlotti, Italo Valenti, Emilio Vedova. In seno al movimento, gli artisti adirono a una fitta comunicazione (nuovo fu lo stretto contatto con la critica) e a un certo grado di organizzazione. Al di là dell´entusiasmo per il Picasso di Guernica, fu assunta a modello la pittura di Van Gogh, Gauguin, Ensor e degli espressionisti tedeschi, ricca di accesa emotività. La tendenza fu di proporre alla cultura un forte rinnovamento, con il sostegno di filosofi, poeti e letterati, da Banfi a Ungaretti a Vittorini. I giovani della generazione che succedeva a quella dei metafisici esprimevano la volontà di riunirsi alla tradizione europea. L´opposizione al ‘neoclassicismo novecentesco’ e ufficiale, per ritrovare la libertà dell´arte, avvenne mediante accentuazioni espressioniste verificabili in incrementi nella libertà di ‘ductus’ e nelle tensioni e problematiche germinanti nell´opera. Il movimento significò la costituzione di una vera ‘militanza politica’ d´opposizione al regime, allo scopo di riconquistare l´indipendenza ideologica. La rivista fu soppressa nel maggio 1940 ma l´azione proseguì con edizioni d´arte e letteratura e un´attività espositiva che, iniziata presso la ‘Bottega di Corrente’ in via Spiga 9, diretta da Duilio Morosini, trovò il sostegno del collezionista Alberto della Ragione. Il gruppo espresso dalla mostra nazionale del dicembre 1939 a Milano, dal coevo Premio Bergamo che vide partecipare all´edizione del 1942 -con la Crocefissione di Guttuso- tutti gli artisti di Corrente e nelle stesse ‘Gallerie di Corrente’ che ospitarono le personali di molti artisti del gruppo e varie rassegne di gruppo, negli anni tra 1939 e 1943, risulta assai allargato. Si considerano, accanto ai citati, i nomi di Broggini, Cantatore, Cherchi, Fontana, Grosso, Lanaro, Levi, Mafai, Mantica, Manzù, Mucchi, Paganin, Panciera, Pirandello, Ponti, Prampolini, Scipione, Tomea, e ancora, Bo, Ferrata, Lattuada, Gatto, Malipiero, G.Labò, Quasimodo, Rebora, Sereni. Nel 1944 il gruppo di Corrente era disperso. Molti dei suoi componenti animarono le file della Resistenza. Birolli e Guttuso documentarono nei loro cicli grafici, con il secco ´disegno realista´, la crudeltà della guerra.La maggior parte degli autori portò a nuovi sviluppi la propria attività creativa nel dopoguerra. Un´ampia rassegna rievocativa del movimento di ´Corrente´ in tutti i suoi aspetti è stata allestita a Palazzo Reale di Milano nel 1985.L’anno seguente Vedova tiene una mostra di disegni alla galleria La Spiga, subito chiusa dalla polizia segreta fascista. Negli anni 1944-45 partecipa attivamente alla Resistenza e nei lavori di questi anni si nota già un segno più vigoroso. Nel 1946 firma a Milano il ‘Manifesto del realismo’ (Oltre Guernica) ed è a Venezia tra i fondatori della ‘Nuova secessione italiana’, poi ‘Fronte nuovo delle arti’. Inizia la partecipazione ad una serie di mostre collettive internazionali, tra cui la Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950, la Biennale di San Paolo nel 1951, ancora la Biennale veneziana nel 1952, Documenta di Kassel nel 1955. A rassegne come la Biennale di Venezia e Documenta di Kassel parteciperà in diverse altre edizioni. Si associa al ‘Gruppo degli Otto’ (1951), promosso da Lionello Venturi, dal quale si dissocia due anni più tardi con una dichiarazione pubblica nel corso del convegno ‘Alta Cultura’ alla Fondazione Giorgio Cini. Crea collages materici e assemblages e lavora in ambito informale con un’intensa gestualità sulla scala cromatica dei bianchi e dei neri, con inserimento dei rossi. Realizza il Ciclo della protesta e il Ciclo della natura. Nel 1954 partecipa alla II Biennale di S. Paolo del Brasile e gli viene conferito un premio che gli permette di trascorrere tre mesi in Brasile. Qui viene fortemente colpito dalla realtà delle zone interne del Sudamerica e dal Carnevale di Rio. Nel 1956 ha luogo la prima personale in Germania, a Monaco. Nel 1958 inizia un intenso lavoro litografico e ottiene il Premio Lissone. L’anno seguente espone il primo Scontro di situazioni, un ciclo con tele disposte ad angolo, all’interno della mostra Vitalità nell’arte, allestita nel veneziano Palazzo Grassi e curata da Carlo Scarpa. Nel 1960 viene insignito del Gran Premio per la pittura alla XXX Biennale di Venezia, assegnatogli da una giuria internazionale di soli esperti. Dai primi anni Sessanta lavora ai Plurimi, realizzazioni polimateriche ampiamente articolate nello spazio ed estensibili, esposti in una prima mostra alla ‘Galleria Marlborough’ di Roma e presentati da Giulio Carlo Argan. Diverse università americane lo invitano a tenere delle ‘lectures’ sui suoi Plurimi. Avvia una serie di esperienze didattiche alla Sommerakademie für bildende Künste di Salisburgo, dal 1965, e all’Accademia di Venezia, dal 1975. Costantemente rivolto all’innovazione nella ricerca, crea lastre in vetro in collaborazione con la fornace muranese di Venini, Spazio-plurimo-luce, lavora ai cicli di Lacerazioni e Frammenti, realizza i Dischi e i Cerchi, inoltre collabora con Luigi Nono alle scenografie di Intolleranza ’60 e Prometeo. La sua forte volontà creatrice si manifesta anche nella produzione incisoria attraverso sperimentazioni sulle varie tecniche. Tra le ultime mostre personali si ricordano quelle alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Torino nel 1996, al Castello di Rivoli nel 1998, alla Galleria Salvatore e Caroline Ala di Milano nel 2001. Muore a Venezia il 25 ottobre 2006. Ripercorrendo la volontà di Alberto Della Ragione, il lascito supera i confini cittadini e regionali per arrivare in Sicilia, a Centuripe, città ricca di storia e custode di importanti tesori artistici e archeologici. Con una selezione di opere che spazia da Renato Guttuso a Emilio Vedova, da Mario Mafai a Filippo de Pisis, il pubblico potrà ammirare circa quaranta capolavori del coraggioso mecenate che sin dagli anni Venti si dedicò all’arte, quando ancora diffidente nei confronti della produzione del suo tempo, acquistò le prime opere ottocentesche. Il suo amore per i contemporanei fu suggellato da una visita alla prima Quadriennale romana, nel 1931, che provocò in lui un deciso rifiuto dell’arte dei secoli precedenti. Il collezionista rispose così all’istanza etica di “non passare ad occhi chiusi tra l’arte del proprio tempo, ma di dare all’opera dell’artista vivente il legittimo conforto di una tempestiva comprensione”, da subito motivata da ideali antifascisti e da una reazione alla politica culturale del Regime. La grande qualità e la varietà delle opere incluse nella raccolta, che valsero a Della Ragione il primo premio alla Mostra delle Collezioni d’arte contemporanea di Cortina d’Ampezzo del 1941, è evidente nel dialogo che si instaura tra capolavori di correnti e movimenti diversi: da Valori Plastici al Novecento Italiano, dal Secondo Futurismo al Realismo magico. Grande risalto assumono inoltre le opere dei maestri della Scuola romana e di Corrente, con cui Della Ragione instaurò non solo rapporti di tipo professionale, ma anche dei veri e propri legami di amicizia. È il caso di Renato Birolli e Renato Guttuso, il quale, a proposito del collezionista, dichiarò: “seppe darci ciò di cui avevamo bisogno: la fiducia, l’amicizia, viveva con noi della stessa passione, si bruciava della stessa fiamma”. Della Ragione iniziò così ad offrire il proprio supporto ad artisti giovani, spesso trascurati dal mercato e dalla critica ufficiale. Da allora la sua collezione d’arte contemporanea, che già negli anni Quaranta era una delle più grandi esistenti in Italia, crebbe progressivamente. La raccolta rivela come il gusto dell’ingegnere-collezionista fosse comunque orientato, nella scelta di artisti e opere, verso i generi più tradizionali (tra cui la natura morta, il ritratto, il paesaggio, il nudo femminile), che assicurarono un quadro di riferimento, anche inconscio, alle sue scelte talvolta spregiudicate. Pur essendo deciso a rinnovare la propria visione dell’arte, Della Ragione non rinnegò mai totalmente la figurazione. Nelle oltre duecento opere della raccolta emergono temi cari alla storia dell’arte moderna, ai quali pittori e scultori aderivano offrendo provocatorie soluzioni figurative senza mai travalicare i confini visivi collaudati nelle epoche precedenti. Vorrei concludere con delle parole scritte da Renato Guttuso nel 1961 sulla figura di questo grande collezionista : “Della Ragione seppe soprattutto darci ciò che di più avevamo bisogno: la fiducia e l’amicizia. Viveva con noi della stessa passione, si bruciava alla stessa fiamma.”

L’Antiquarium di Centuripe-  Enna

I Maestri del Novecento: da Guttuso a Vedova. Opere dalla collezione Alberto Della Ragione

dal 29 Luglio 2022 all’8 Gennaio 2023

dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 13.00 dalle ore 15.00 alle ore 20.00

Lunedì Chiuso 

Te esperamos en Buenos aires Sur 750, Plottier, Neuquén

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