Gazzettino Italiano Patagónico

La Prima Retrospettiva dedicata a Sabine Weiss una delle maggiori rappresentanti della Fotografia Umanista 

Giovanni Cardone

Fino al 29 Ottobre 2022 si potrà ammirare presso La Casa dei Tre Oci di Venezia Sabine Weiss. La Poesia dell’Istante una retrospettiva dedicata è mai realizzata finora, la prima in Italia dedicata alla fotografa franco-svizzera curata da Virginie Chardin. Sabine Weiss scomparsa all’età di 97 anni nella sua casa di Parigi il 28 dicembre del 2021, è tra le maggiori rappresentanti della fotografia umanista francese insieme a Robert Doisneau, Willy Ronis, Edouard Boubat, Brassaï e Izis. L’esposizione è il primo e più importante tributo internazionale alla sua carriera, con oltre 200 fotografie, la retrospettiva è promossa dalla Fondazione di Venezia, realizzata da Marsilio Arte in collaborazione con Berggruen Institute, prodotta dall’Atelier Sabine Weiss – Laure Delloye Augustins, con il sostegno di Jeu de Paume e del Festival internazionale Les Rencontres de la photographie d’Arles, sotto l’alto patronato del Consolato generale di Svizzera a Milano. Unica fotografa donna del dopoguerra ad aver esercitato questa professione così a lungo e in tutti i campi della fotografia dai reportage ai ritratti di artisti, dalla moda agli scatti di strada con particolare attenzione ai volti dei bambini, fino ai numerosi viaggi per il mondo, Sabine Weiss ha partecipato attivamente alla costruzione di questo percorso espositivo, aprendo i suoi archivi personali, conservati a Parigi, per raccontare la sua straordinaria storia e presentare il suo lavoro in maniera ampia e strutturata. Gli scatti esposti ai Tre Oci ripercorrono, insieme a diverse pubblicazioni e riviste dell’epoca, il lavoro della fotografa, dagli esordi nel 1935 agli anni 2000. Come testimoniano in mostra le foto dei bambini e dei passanti, fin dall’inizio, Sabine Weiss dirige il suo obiettivo sui corpi e sui gesti, immortalando emozioni e sentimenti, in linea con la fotografia umanista francese. È un approccio dal quale non si discosterà mai, come si evince dalle sue parole: «Per essere potente, una fotografia deve parlarci di un aspetto della condizione umana, farci sentire l’emozione che il fotografo ha provato di fronte al suo soggetto». In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Sabine Weiss che è divenuta un seminario universitario apro il mio saggio dicendo : Vi sono più accezioni per intendere la parola “Umanista”. Una, secondo il dizionario, è la “persona che condivide gli ideali culturali propri dell’umanesimo, e anzitutto il culto per le lettere antiche” . Cioè, quell’ umanesimo che trova le proprie basi nella filosofia orientale già in Confucio e Gautama Buddha, sebbene il termine sia più frequentemente usato per indicare i filosofi occidentali. Il termine, coniato solo nel 1808 da Friedrich Immanuel Niethammer, designa il pensiero tradizionale in Occidente, nel quale si intendeva evidenziare l’importanza delle lettere classiche e dell’uomo, nel mondo che è fatto a sua misura. È in questa visione dell’uomo come figura centrale del mondo che si deve intendere il termine umanista nella fotografia . Vi è una rivalutazione della figura dell’uomo, che diventa il soggetto centrale e il punto cardine visto come l’essere umano che lascia una traccia di sé nella natura e nel mondo . La fotografia umanista è un chiaro esempio di come questa concezione illuminista fu fondamentale anche nei secoli a seguire, anche se teoricamente, una vera “scuola umanista” non sembra esistere4 e determinarne i confini temporali è particolarmente difficile. Si può supporre che il movimento principale si sviluppò tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la fine degli anni ’60, in Europa ma principalmente in Francia, per poi spostarsi negli Stati Uniti e trovando le sue radici nella fotografia e nel cinema degli anni ‘30. La fotografia, dopo la grande guerra, sta avendo il suo momento di splendore, accanto alle avanguardie degli anni ’20, andando alla ricerca di valori nuovi e di nuove forme per superare quel conflitto che aveva distrutto un paese e i suoi uomini. L’espansione industriale sta sconvolgendo l’ambiente e la vita, così come il paesaggio intorno sembra star cambiando grazie alla ricostruzione di grandi fabbriche. È negli anni trenta infatti che si inizia a rivolgersi all’uomo: la fotografia diventa la testimonianza della gente dei quartieri più disagiati. La fotografia ben presto inizia ad avvicinarsi alle persone, prima nelle strade prima, poi nelle fabbriche fino a toccare i quartieri più poveri della città. Ma la Francia, come altri paesi europei, viene a sua volta colpita dalla crisi dopo quel breve periodo di prosperità. L’arte si avvicina di nuovo all’ordine e la fotografia, invece, si avvicina ancora di più alla realtà, mostrando le classi operaie e la loro ribellione, condotti dal movimento del Fronte Popolare. Ma anche questo periodo di pace, segnato anche da qualche vittoria dei lavoratori, sembra avere vita breve, intimorito dalle nuove minacce di guerra che sembrano sorgere intorno al paese. Così le arti si fanno più scure, caratterizzate da una certa disperazione e allo stesso modo la fotografia sembra rallentare, fino ad una rottura che sarà segnata dalla dichiarazione di guerra e dall’occupazione tedesca. Se durante la guerra si era preferito una fotografia di propaganda, soprattutto al servizio del governo di Vichy, con la liberazione di Parigi, si cerca di promuovere la ripresa del paese e l’unità, anche a livello mondiale. Si cerca, al contempo, di rinnovare i valori universali di umanità che, con la scoperta dei campi di concentramento e l’utilizzo della bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale, erano stati quasi totalmente compromessi. Vi è una nuova idea di speranza, anche se le comunità nazionali sono state distrutte, e vi è il desiderio di costruire, nuovamente, un mondo migliore. Così la fotografia è imbevuta della visione umanista e universalista del periodo post-bellico, in questa realtà che è ancora ricca di pessimismo per colpa anche della paura di possibili nuovi conflitti data la Guerra Fredda e la decolonizzazione . Vi è la nascita di due correnti di pensiero diverse, una più incentrata sul raccontare e mostrare gli eventi violenti e drammatici dell’attualità e l’altra, invece, ha un approccio più scientifico-sociologico e osserva ed esplora la routine quotidiana dell’uomo, con intento, non tanto a mostrare l’azione, quanto le cose e il mondo in maniera più ampia . Esiste anche una terza via, molto più personale e artistica. Vi sono coloro che preferiscono vagare e usare la propria “fantasia”, concentrandosi sulle persone attraverso uno sguardo più ironico, tenero, quasi compassionevole, realizzando immagini isolate, risultato di una visione più personale. Sono fotografi meno interessati ad un evento o ad una specifica situazione, interessati invece ad uno spazio che loro scoprono attraverso lo scambio di sguardi, in questa relazione che instaurano con i soggetti fotografati e che viene percepita solo tra loro e il fotografo. Per questo tipo di fotografia, l’emozione è primaria ed è più importante della forma, la loro “investigazione” riguarda il quotidiano e il banale ma viene mostrata con una certa tenerezza e una grande fede nell’uomo. Non è strano che questo tipo di fotografia si sviluppi proprio in Francia, nel dopoguerra; già nel diciannovesimo secolo, grazie anche alle innovazioni tecniche, molti fotografi avevano abbandonato gli studi per invadere le strade e le vie cittadine . Tra questi anche Eugène Atget che nelle sue fotografie di uomini e dei loro mestieri, pubblicate dalla rivista Paris Moderne , è possibile cogliere l’estetica, l’ispirazione e la base di ricerca di quella fotografia poetica che invece avrà il suo culmine mezzo secolo dopo. In questi anni di ricostruzione, a causa anche delle difficoltà a ritrovare e reperire materiale e per gli alti costi di produzione, diventa fondamentale il ruolo delle agenzie di stampa, anche a livello internazionale, che permettono ai fotografi di continuare il loro lavoro e permettono di diffondere nell’immaginario collettivo, lo stereotipo della Francia. Se nel dopoguerra si diffonde un’idea pessimistica, attraverso l’arte si oppone una corrente più fiduciosa, che rifiuta la distruzione dell’uomo e quella causata dall’uomo e che concepisce la fotografia come una mezzo universale per celebrare l’uguaglianza a le democrazia. Questo nuovo umanesimo cerca di ricostruire le rovine che l’uomo ha fatto basandosi sui punti in comune che comunismo e cristianesimo scoprono di avere nel periodo postbellico. I due ideali dominano la stampa e se da una parte vi è il sogno di una società e lavoro senza classi, dall’altra vi è una particolare attenzione per la dignità dell’uomo. La stampa e i giornali di sinistra, così come anche quelli cattolici, puntano su temi, situazioni e personaggi iconici che richiamano i temi umanistici. È la stampa che è in crescita e vi è una continua richiesta di immagini e documenti, ma è la stessa nozione di reporting che inizia ad evolversi e vi è, anzi, la nascita di una nuova professione: il «reporters-illustrateurs». Non è più un solo catturare le notizie più importanti, quanto un approfondire le problematiche, per andare oltre al semplice momento, esternando quei valori di speranza e favorire un dialogo che allontani l’ombra di una futura guerra mondiale, catturando l’uomo le cui azioni possano testimoniare questa nuova era. Questo stile di immagini apprezzate in Francia beneficia della rinascita della stampa illustrata, con riviste come Réalités, Plaisirs de France o Paris Match ma anche grazie alle agenzie di fotografia che producono libri illustrati dei fotografi del momento, come l’agenzia Rapho, rilanciata proprio nel 1945 dove, a fotografi come Savitry, Landau e Brassaï, si uniscono Boubat, Janine Niepce e Sabine Weiss, che rappresentano la corrente umanista. Ma non tutti lavorano per la stampa, alcuni, ad esempio Doisneau o Ronis, cercano di lavorare in modo indipendente anche se lo status di fotografo continua, ancora, ad essere molto precario. Coloro che non si affidano alle agenzie, cercano di farsi conoscere grazie al passaparola, attraverso le relazioni personali e attraverso pubblicazioni precedenti o rare mostre o sono i fotografi stessi a rivolgersi a editori per proporre i propri lavori con più o meno successo. Nella Francia del dopoguerra, i fotografi umanisti contribuiscono a creare l’iconografia nazionale che è tinta di note nostalgiche e punta all’ottimismo, cercando di cogliere i parigini nella loro quotidianità. È inizialmente una Francia in cui si mostra l’arte di vivere e gli stereotipi francesi, costruendo quello che è l’ “iconografia francese”. Le immagini sono volute principalmente da due istituzioni fondamentali, il Commissariat général au tourisme e la Documentation française, con le quali i fotografi firmano un contratto per mantenersi e lavorare sotto commissione. Questi organi sollecitano tale tipo di fotografia per mostrare e promuovere quei particolarismi nazionali, istruendo e presentando, al contempo, la nuova economia e la forza del paese. Parallelamente a queste due organizzazioni, emergono anche importanti editori, che cercano anche loro di trasmettere l’identità nazionale che sembra essersi perduta dopo l’occupazione tedesca, cercando contemporaneamente di inserirsi tra tradizione e modernità. I fotografi, in questo caso, lavorano fianco a fianco agli scrittori e se, in un primo momento devono quasi lottare per fare in modo che il proprio nome sia menzionato, con la liberazione di Parigi e il secondo dopoguerra, le fotografie umaniste, non senza qualche difficoltà, avranno sempre più spazio. La fotografia lentamente va a sostituire il disegno, e anzi, si va ad evolvere anche il rapporto tra testo e immagine. Inizialmente l’immagine era solo ornamento, per accompagnare le linee di testo ma diventerà talmente importante da ridurre lo stesso testo ad una breve legenda, fino ad essere essa stessa il punto di partenza dello scrittore. La fotografia viene scelta perché più radicata nella città, “testimonianza reale” di ciò che avviene, quindi definita più “imparziale” della scrittura che invece è filtrata dalla conoscenza e dai pensieri dello scrittore o poeta. Essa diventa importante al punto che è alla base anche della copertina dei libri, una evoluzione che però non piace a molti, notando il pericolo nel vedere le proprie immagini ritagliate, perdendo ogni riferimento al soggetto, cosa che porterà artisti come Willy Ronis a lasciare l’agenzia Rapho perché non in grado di controllare l’uso improprio delle sue fotografie . Con il termine umanista, è l’uomo il soggetto principale, immerso nella città e nella vita urbana che ne fa da sfondo ai vari scatti. Questa tendenza si rivela soprattutto nella terza edizione  del 1948 del Salone Nazionale di Francia, presso la Biblioteca Nazionale – evento creato nel 1946 e successivamente organizzato annualmente, fino al 1958 – in cui la città, rappresentata nei suoi sobborghi, non è sfondo solo per moda, ma è una continua ricerca del vero e della verità che non si trova nei quartieri più agiati. I fotografi umanisti prediligono il Salon perché permette loro di mostrare il proprio lavoro personale, continuando, al contempo, l’intento stesso del Salone di preservare la “produzione di immagini”. Tra gli espositori vi sono Brassaï, Boubat, Ronis e Doisneau. L’uomo rappresentato è un uomo semplice, che vive ed è consapevole della realtà e della propria epoca, e il fotografo, attraverso la ricerca di materiale “umano”, cerca di rinnovare l’iconografia ma al contempo di soddisfare anche il gusto del pubblico. Visto il pubblico più popolare al quale la mostra era destinata, l’uomo rappresentato aveva un valore morale e un forte significato sociale, al punto però di creare e moltiplicare i vari cliché e archetipi, fino a perdere quasi del tutto la spontaneità delle fotografie, sfiorando il dilettantismo e perdendo il vigore e l’approvazione iniziale . Il fotografo umanista è idealizzato come colui che passeggia e che, attraverso quelli che appaiono incontri improvvisi e fortuiti, incornicia un momento, divenendo, al contempo, sia spettatore che attore stesso. Lui cammina tra gli altri, rivendicando la sua dimensione umana, ma al contempo fotografa, dimostrando la sua dimensione di artista. È contemporaneamente dentro e fuori quella realtà che lo circonda. La città è lo sfondo principale delle fotografie degli umanisti, così come la strada è il luogo in cui l’uomo si inserisce. Con un forte richiamo ad Atget, la strada nei fotografi umanisti è il palcoscenico per mostrare le figure eccentriche che in passato erano le donne di strada e i disonesti. Ma è Parigi che con le sue architetture crea lo stile e rappresenta la vera estetica fotografica del movimento. Così come i soggetti privilegiati, in queste fotografie dal formato ridotto, sono l’uomo nella sfera dell’amore, della famiglia e del sociale. Le foto devono rappresentare soggetti che, in un periodo di ricostruzione post guerra, siano in grado di portare un’idea ottimistica alle nuove generazioni, immerse anche dei valori tradizionali della società, considerati bene prezioso. Se la sfera famigliare e il mondo più privato è uno dei soggetti prediletti, non nasconde però nasconde però, e anzi, lascia ben in mostra anche un’altra realtà popolata da ubriaconi, zingari, artisti o donne di strada, che brulicano e invadono le strade e le vie nel silenzio notturno. Per alcuni, come Doisneau, non è tanto il centro, quanto la periferia parigina il suo soggetto favorito, fatta di grandi cambiamenti. Le strade che attraversa, i locali che frequenta, come i bistrot, considerati luogo di convivialità, o le rive della Senna e i quartieri più svariati, sono gli stessi che anche Izis e Willy Ronis scelgono, cercando però, di interessarsi tutti ad ambiti differenti. Oltre a questa predilezione per gente comune e per quei personaggi pittoreschi che ispirarono poeti e scrittori, ad attirare i fotografi del dopoguerra sono aspetti nuovi e meno divertenti. Grazie alla stampa, i fotografi focalizzano il loro interesse sulla presenza dell’uomo che è testimone di un’era, incentrandosi su inchieste più sociali. I temi dei loro reportage riflettono le speranze e le lotte del popolo, altamente influenzato anche dagli ideali del Parti communiste français. Si lavora per ottenere un realismo poetico, con un richiamo a quello documentario, come si attesta negli scioperi che scuotono la Francia del 1947, nei quali i fotografi, con occhio attento, documentano gli avvenimenti. Illustrano con forza la durezza dei conflitti sociali, sottolineando i sobborghi della città, trasformando ciò che è sporco e malridotto in qualcosa che tende al meraviglioso, annacquando quell’iconografia solita che vedeva in modo nostalgico il passato. Molti fotografi, in questo modo, esprimono il proprio impegno ideologico, accanto a comunisti e cristiani, o sentono una certa empatia verso quest’ultimo, sentendo la solidarietà per il povero. Molti condividono le lotte operaie e ne prendono parte, ma mostrano anche la modernizzazione e il progresso nel mondo del lavoro della vita quotidiana nelle città e nelle periferie. Si sviluppano campagne per promuovere il bene collettivo, per lo sviluppo del benessere dell’individuo, affermando una speranza per una società più giusta e un domani migliore. Willy Ronis, che insieme a Doisneau fece parte del Gruppo dei XV, è colui che è più interessato alla denuncia dei problemi sociali e alla lotta dei lavoratori, mostrando la loro vita quotidiana e la modestia dei parigini. Più riservato, attento alla forma, al catturare le persone nel loro ambiente e nel cogliere i lavoratori e le famiglie, mostrando la passione per gli uomini e l’idea di fratellanza che li unisce. Anche per questo motivo e per la sua sensibilità ai temi sociali, ne fece di lui il fotografo simbolo del Fronte Popolare. Izis invece, definito il “sognatore” e in parte “melanconico” ha sempre cercato di far trasparire questa sua tristezza e dolcezza, nei suoi scatti. Le sue fotografie alla classe operaria, ai bambini, a semplici uomini nei cafè o anche ai clochard, mostrano il disagio del loro vivere ma al contempo una dignità d’animo, raccontando la realtà umana dei quartieri più popolari. Edouard Boubat invece, appartenente al gruppo della rivista Réalités, è colui che estende il proprio campo d’azione non solo alla Francia, viaggiando per il mondo e cercando di avvicinare a sé le persone. È un testimone contemplativo e calmo definito dal poeta Prévert come “corrispondente di pace”. Cerca di scoprire il mondo e i suoi abitanti, cercando di mostrare i momenti più felici della vita, non eventi eccezionali ma rappresentando una quotidianità ricca di grazia, poesia e pienezza atemporale. Questo tipo di coinvolgimento personale e sociale, per quanto in parte, come affermato prima, mitighi la nostalgica visione del passato, in realtà non hanno l’effetto sortito, in quanto nei libri viene minimizzata questa denuncia alla miseria. Nella stampa straniera prevale per lo più, infatti, quella visione “tipicamente francese”, negando quella realtà sociale e politica del paese. Con i lavoratori, uomini semplici e le loro famiglie delle classi medie e modeste, bambini ricchi rappresentati solamente nella loro spontaneità e innocenza, o coppie innamorate che manifestano i propri sentimenti, i fotografi cercano di rappresentare un’idea e valori umani universali, ma con una loro visione personale. In tutti loro vi è l’assenza del voyerismo e della ricerca del sensazionalismo. Non è vi è alcuna intenzione di sorprendere o scioccare, non vogliono perseguire l’insolito, ma cercano di rappresentare la vita di tutti i giorni, approcciandosi rispettosamente verso i soggetti, soprattutto quelli più umili. Il culmine di questa corrente è sicuramente la mostra organizzata nel 1955 da Edward Steichen al MOMA di New York, intitolata “The Family of Man”, che tra i tanti artisti internazionali, figuravano anche dodici fotografi francesi. La mostra fu di grande successo, al punto che, dopo un tour negli Stati Uniti, venne riaperta e riallestita permanentemente al castello di Clervaux. Questa esposizione mescola la pura foto di reportage con quella di tipo “umanista”, quasi unificandole. Il soggetto della mostra è l’uomo, l’essere umano nella sua vita e i suoi modi di agire e comportarsi, con il mondo e con gli altri, utilizzando la fotografia come mezzo di comunicazione tra i popoli, mostrando la vita quotidiana nelle sue gioie e dolori, trasmettendo la dignità umana. Fu considerata come un messaggio di speranza e fraternità globale, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, che ancora marchiava i ricordi. Questa, secondo molti considerando invece la mostra “Five French Photographers” del 1951 ancora poco matura segna il trionfo dell’umanesimo e il punto più alto della corrente, che si espanse poi al di fuori del suo epicentro francese ma considerata anche l’ultima manifestazione degna di nota di questo importante movimento. La mostra che però non mancò di ricevere critiche, soprattutto per l’eliminazione delle differenze, dell’importanza della storia dei singoli paesi verso una verità universale, obiettivo che molti fotografi non perseguono. Anzi, questa eliminazione delle tante diversità per una fraternità globale, sembrò aver cancellato anche la natura soggettiva nei lavori dei fotografi. Ma si può notare come in questa mostra solo una minima parte, il 6% delle opere esposte , fosse di artisti francesi, facendo intuire anche come l’Europa e la Francia, in quel periodo, non fossero più il centro del mondo. Da non confondere con il Gruppo dei Quindici, il Groupe des XV era una associazione di fotografi francesi con l’obiettivo di promuovere la fotografia come arte e al contempo di preservare il patrimonio fotografico francese. Nata nel 1946 come continuazione dell’associazione Le Rectangle, scioltasi con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, venne fondata e guidata da André Garban, e insieme si riunivano presso il suo studio fotografico, vicino alla chiesa di Notre Dame de Lorette. Tra il 1946 e il 1957  ultimo anno prima dello scioglimento  veniva organizzata una mostra collettiva all’anno, in diverse sedi come nella Galerie Pascaud, o nella galerie Mirador. André Garban fu anche creatore e promotore del Salon national de la photographie e il curatore Jean Vallery-Radot concesse loro lo spazio della galerie Mansart, presso la Biblioteca nazionale, dal 1949. Il manifesto del gruppo aveva un forte richiamo a quello di Le Rectangle, creando quindi un legame tra le due associazioni, promuovendo una fotografia come arte, in grado di mostrare opere di qualità, impegnandosi a rispettare lo spirito di lealtà e aiuto reciproco, caratterizzati da un forte cameratismo, “quasi spirito di squadra sportivo” .

Il rispetto veniva associato anche al processo fotografico, attraverso l’utilizzo di una fotografia reale, un negativo perfetto e, se possibile, senza alcun ritocco, ricercando nuovi angoli, nuove idee ma guardando sempre alla tradizione, identificata in Nadar, Atget e Cartier-Bresson. Il 1946 fu, oltre che l’anno di fondazione del gruppo, un anno importante per la nuova visione delle arti e una nuova rivalutazione che portò alla nascita della SIAP, associata al Groupe des XV, che gestiva il diritto d’autore e la riproduzione delle fotografie, attraverso un codice etico e prezziario, per controllare la diffusione delle opere. Tra i membri del gruppo, ricco di stili differenti, possiamo ricordare soprattutto i due umanisti Robert Doisneau e Willy Ronis, infatti in comune alla corrente umanista, sono interessati alla documentazione della vita nelle strade della città, mostrando la cultura francese, con richiami però al Surrealismo e alla Nuova Oggettività , rifiutando invece il pittorialismo. Il lavoro dei fotografi è reso possibile grazie all’utilizzo di una macchina fotografica molto più maneggevole e leggera, al punto da essere una vera e propria rivoluzione. L’arrivo della Leica è considerato il punto di partenza per la fotografia moderna, che consente di avere più angoli di inquadratura, diventando una “estensione dell’occhio” stesso. Gli ingranditori però, non erano abbastanza avanzati e l’immagine stampata non permetteva di essere di buona qualità ma granulosa, anche nel formato 18×24. L’introduzione di Ergy Landau, nel 1928, della Rolleiflex 4×4, fu una vera rivoluzione in Francia, che venne presto utilizzata da Brassaï e dal gruppo di fotografi ungheresi, per poi venire adottata anche da chi lavora per l’agenzia Rapho . Il nuovo dispositivo, preferito alla Leica, permise un movimento più fluido, liberandolo dall’ingombro del treppiede. Oltre a Leica e Rolleiflex, si inizia ad utilizzare anche la Contax, competitor della Leica, che venne presto utilizzata soprattutto per la possibilità di montare ottiche Zeiss e che permetteva di avere dai grandangolari ai teleobiettivi. Nel 1935, intorno a questi tre dispositivi, si riunirono più fotografi formando dei piccoli “gruppi” divisibili in: Contax-club, Rollei-club e Leica-club. I fotografi, con queste nuove attrezzature, furono ben presto in grado di creare un rapporto simbiotico con il dispositivo, rendendo in questo modo il loro lavoro più personale e, grazie al formato quadrato (6×6), danno vita ad una propria estetica. L’evoluzione della fotografia umanista fu possibile, dopo il secondo conflitto mondiale, anche grazie al progresso tecnologico e alle attrezzature americane, con l’introduzione anche di lampade flash, strobo, teleobiettivi a focale corta e pellicole 1000 ASA. I fotografi umanisti, grazie anche ad una naturalezza nella composizione, attraverso la luce e il contrasto, non abbandonano l’importanza della forma, sempre secondaria però al soggetto principale. In più, lavorano quasi esclusivamente in bianco e nero, che permette un approccio diverso rispetto all’utilizzo del colore, con anche però ulteriori problemi tecnici che possono influenzare le fotografie, lasciando meno spazio all’immaginazione. Rifiutano, almeno in teoria ed ispirandosi a idee pre- belliche, ciò che è il trucco tecnico, il falso e il ritocco. Non hanno il gusto per le manipolazioni né per le composizioni audaci, cercano di riprodurre la realtà che si presenta loro sul momento, atteggiamento forse ereditato dalla fotografia documentaria, e non vogliono infatti ricostruire la scena. Questo rifiuto per il cambiamento però è ora visto solo come una pura teoria dopo la scoperta che “Il bacio davanti all’Hotel De Ville” di Doisneau era stato organizzato insieme a due attori, cosa ben diversa dalle fotografie invece fatte su commissione come quelle di Ronis. Anche la stampa e la qualità di stampa ha il suo valore nella fotografia umanista, al punto che lo stesso formato va a condizionare anche l’impaginazione dei giornali dell’epoca. Bisogna però aspettare il 1955 con l’introduzione di nuovi obiettivi e pellicole più veloci, come l’introduzione nel mercato della pellicola Tri-X caricata su un dispositivo 24×36, per avere un’ulteriore rivoluzione nella fotografia, che però sembra toccare solo di sfuggita quella umanista, se si considera la fine, apparente, del movimento a fine anni ‘60. Sabine Weiss è una delle fotografe più importanti di questa corrente anzi di questo movimento che in Francia detta il suo percorso storico posso dire ella essendo una donna combattente e visionaria da svizzera naturalizzata francese perché aveva capito, come il filosofo dell’irrequietezza, E.M. Cioran, che una girata in bicicletta nella campagna francese o ascoltare un ubriaco di genio in una bettola, è sempre meglio di una lezione all’università certamente più feconda e commovente di qualsiasi grammatica che si porta dietro gli effetti della tirannide o gli allori del mercantilismo come responsabili del disagio a vivere di interi pezzi di popolo. Sapeva che solo a prezzo di grandi abdicazioni, ruffianerie e servitù trasecolanti che un fotografo diventa “normale”. Qualsiasi clown shakesperiano ci aiuta a comprendere che l’avanzata della civiltà dello spettacolo è proporzionata alle imprese di demolizione della soggettività affogata nella mediocrazia e nel grado di stupidità e smarrimento accettato da esulcerati dal successo e dal consenso! La lode matricolata delle caste è sempre una suggestione da mentecatti della gloria. La Weiss comincia a fotografare nel 1932 con una macchinetta di bachelite il padre, un ingegnere chimico e imprenditore di perle artificiali fatte con squame di pesce, la sostiene tra il 1942 e il 1946 apprende la tecnica fotografica che poi getta alle ortiche si trasferisce a Parigi e inizia a fotografare di tutto dalla moda alla ritrattistica di musicisti, letterati, cineasti pubblica su riviste e giornali  come: Vogue, Paris Match, Life, Time si sposta sulla visione documentaria della realtà e viaggia negli Stati Uniti, Egitto, India, Marocco, Myanmar, Etiopia qui le sue immagini sono ammantate di una bellezza impervia contengono una fascinazione del margine che attraversa il soggetto amato specie quelle dei bambini figurano un’allegrezza disincantata sono fotografie sprotette da ogni passione, un’elegia della gioia come poetica della differenza o dell’imperfezione che li considera fuori da un divenire già deciso. I colleghi e amici della Weiss sono Doisneau, Cocteau, Utrillo, Giacometti, Lartigue, Ronis, Boubat, Izis, Kertész tutta gente che non si nasconde dietro il grigio dell’alfabeto o la polvere della cultura ma nel concime azzurrato dove l’arte è il seme che produce costellazioni di dissidio e là dove l’arte crea il buio, lo sguardo sovversivo dell’artista esonda di luce. Il buon samaritano del pittorialismo fotografico, Edward Steichen, inserisce tre fotografie della Weiss nella mostra del MoMa, altamente meritevole, The Family of Man, la più menzionata  “Intérieur d’église au Portugal -Interno di una chiesa in Portogallo è del 1954, e “mostra un bambino in ginocchio sul pavimento piastrellato chiazzato di luce, con la faccia rivolta verso sua madre scalza, che, come la falange circostante di figure, è vestita di nero” ci basta per andare al fondo di una dissidenza incondizionata l’inquadratura è forte, asciutta, abrasiva denuncia, senza gridarlo troppo, una situazione di povertà universale e la soggezione o ignoranza sulla quale poggia! La Weiss è donna di minuscole stelle e manciate di sale lanciate nel vento della fotografia le sue immagini contengono infatti l’umanesimo di una storia svergognata straniere all’incondizione di miserie secolari e ogni fotografia che coglie nei giardini della grazia senza artifizi, profuma di mandorle non commestibili i frammenti di vita quotidiana che scippa alla realtà barboni, coppie che si baciano, ragazzi-minatori, “quasi adatti”, fanciulli che ruzzano nelle strade sono una specie di trattato d’amore dell’umano nell’uomo, disseminato in oltre quaranta pubblicazioni la fotografa sorridente non si fa mancare nemmeno collaborazioni importanti con Jean Dieuzaide, Leonard Freed o il sociologico radicale Pierre Bourdieu e pone la sua fotografia sulla soglia del dire-fare, ma infine diviene una rivelazione o una promessa che aspira a evocare e sconfiggere ingiustizie e disuguaglianze sambra una sorta di testamento etico del linguaggio fotografico in cui la Weiss sostiene, ci sembra, che è nella verità reinventata che si disfano le categorie della sofferenza ed è nei sogni realizzati degli uomini in amore che nasce il divenire di un’altra innocenza e di un’altra umanità. Una sezione del percorso della mostra è dedicato ai suoi ritratti di pittori, scultori, attori e musicisti. Per cinque anni, Hugh Weiss è il mentore dell’artista Niki de Saint Phalle, mentre Sabine è vicina ad Annette Giacometti, la moglie del grande scultore Alberto. In mostra non mancano i loro ritratti accanto a quelli di altre personalità come Robert Rauschenberg, André Breton, Alberto Giacometti, Niki de Saint-Phalle, Anna Karina, Françoise Sagan, Romy Schneider, Ella Fitzgerald, Simone Signoret, Brigitte Bardot.

Il Percorso Espositivo della mostra è diviso in Otto Sezioni :

Da Ginevra a Parigi, 1935-1950

Sabine Weber scopre l’amore per la fotografia in giovanissima età e a 18 anni inizia l’apprendistato presso la Maison Boissonnas, un rinomato studio di Ginevra. Nel 1945, appena ottenuto il certificato di idoneità professionale, si trasferisce in Rue du Marché e realizza il suo primo reportage sui soldati americani in licenza nella città svizzera. Una delusione d’amore e il desiderio di vedere il mondo la inducono a lasciare Ginevra, ed è a Parigi che un giorno del 1946 si presenta a Willy Maywald per proporsi come sua assistente. Maywald, fotografo di moda, amico degli artisti, la introduce nei circoli mondani parigini e le procura un alloggio nel quartiere artistico di Montparnasse. Nel 1949 incontra il suo grande amore, il pittore americano Hugh Weiss, con il quale si trasferisce nella casa-studio dove la coppia vive per tutta la vita. Il loro primo viaggio in autostop, nell’estate del 1950, li porta da Parigi a Saint-Gingolph, il paese natale di Sabine, poi alle Isole Borromee, a Stresa, a Milano, a Verona, a Padova e infine a Venezia.

Comunità familiare per alienati, Dun-sur-Auron, Francia

Nell’autunno del 1951 Sabine Weiss, che sta pensando di entrare in un’agenzia fotografica, visita la Magnum, che le suggerisce di realizzare un reportage su Dun-surAuron, una piccola città nel dipartimento francese di Cher che accoglie i malati di mente in una comunità aperta. Fondata dallo psichiatra Auguste Marie nel 1892 per alleviare la pressione sui manicomi parigini, la comunità accoglie diverse centinaia di donne affette da disturbi mentali e demenza senile, che vengono accudite da famiglie “adottive”, libere di muoversi e svolgere diversi compiti. Questo esperimento fotografico rimarrà negli archivi della fotografa poiché la direzione dell’istituto vieterà di distribuire l’immagine delle proprie residenti e il lavoro resterà in gran parte inedito fino a oggi, con l’esposizione alla Casa dei Tre Oci.

Nascita di uno stile: prime opere personali, 1946-1952

Fin dai suoi esordi, Sabine Weiss è attratta dalle atmosfere della notte, dello spettacolo della strada, delle persone fragili, dal tema dell’infanzia. Il contatto è sempre per lei immediato, diretto e intenso. L’artista dirige la sua attenzione verso il corpo, i gesti, le emozioni e i sentimenti dell’altro, per questo si lega rapidamente alla scuola “umanista”, con la quale si identifica apertamente. Non si è mai allontanata da quell’approccio.

Fotografa professionista. Un decennio intenso, 1952-1962

Alla fine degli anni Quaranta, Sabine Weiss è una delle poche fotografe donne a praticare la sua professione. Il momento è quello giusto, con la stampa illustrata in rapida espansione. Aggiunge alla sua Rolleiflex una Leica e una Linhof, le sue opere cominciano ad essere pubblicate e si costruisce una clientela che le garantisce commissioni regolari. La sua carriera ha una svolta decisiva nel 1952, quando entra nell’agenzia Rapho su segnalazione di Robert Doisneau. Doisneau appoggia anche la sua candidatura a “Vogue”, rivista con la quale rimane sotto contratto per quasi dieci anni, insieme a William Klein, Henry Clarke e Guy Bourdin. Dal 1953 in poi le sue immagini vengono pubblicate dai principali giornali internazionali. I Weiss vivono circondati da pittori, scultori e musicisti. Hugh è mentore di Niki de Saint Phalle, mentre Sabine è amica di Annette Giacometti, la moglie del famoso scultore. Le viene spesso chiesto di eseguire ritratti di artisti e personalità importanti. Scatta molto nel suo quartiere di Parigi, ma si differenzia dai colleghi di Rapho per una forte attrazione per i viaggi e le culture straniere e per il rifiuto di essere etichettata.

Moda, pubblicità, ritratti, soggetti politici o sociali la portano quotidianamente da un universo all’altro. Il mondo che, tuttavia, preferisce è quello del reportage, per la possibilità che offre di fotografare soggetti che la coinvolgono più personalmente.

In Europa. “The Family of Man”

All’indomani della guerra, con l’entusiasmo della pace ristabilita, in Francia lo stato d’animo è di ottimismo e di fiducia in una nuova solidarietà tra i popoli e tra le classi sociali. Come nelle canzoni o nel cinema, con il realismo poetico rappresentato da Marcel Carné o Jacques Prévert, l’immagine delle classi lavoratrici viene messa in evidenza. Con fotografi come Robert Doisneau, Willy Ronis e Edouard Boubat, l’agenzia Rapho è rappresentativa della scuola umanista francese, che fa dell’uomo della strada uno dei suoi soggetti preferiti. In questo periodo, Sabine Weiss viaggia spesso in Europa e in Medio Oriente, in particolare per la NATO, l’OECD e la rivista “Holiday”. Le sue prime destinazioni sono Italia, Egitto e Spagna, seguite da Austria, Regno Unito, Portogallo, Danimarca, Malta, Giordania, Israele, Germania, Grecia, Jugoslavia, Finlandia, Lussemburgo, Lichtenstein e URSS. Attraversa anche la Francia, passando da un matrimonio mondano a una celebrazione religiosa, dal Salon des Arts ménagers alla 24 Ore di Le Mans. Il lavoro di Sabine Weiss è completamente in sintonia con l’approccio di Edward Steichen in “The Family of Man”, la mostra presentata al Museum of Modern Art di New York (MoMA) nel 1955, che, in un’ottica di pace, sottolinea l’universalità dell’esperienza umana e la capacità specifica della fotografia di catturarla. Per la mostra Steichen sceglie tre delle immagini di Weiss, tra le quali due scattate in Portogallo.

La professione di fotografa, raccontata da Sabine Weiss

Sabine Weiss lavora su commissione per tutta la sua carriera. Nel 1964, Hugh e Sabine adottano una bambina, Marion, e per i dieci anni successivi Sabine si concentra sulla vita familiare e sulle commissioni dei suoi clienti abituali, principalmente nell’ambito della pubblicità e della musica. Nel 1965, durante la partecipazione al programma televisivo “La Chambre Noire”, racconta con ironia i commenti di cui è talora destinataria in quanto donna in un ambiente maschile. Negli anni 2000, continua a ribadire la complessità del suo lavoro e rende onore al lavoro artigianale e al mestiere della fotografia, al di là della ricerca estetica o umanistica.

Affinità americane

Nel 1953 Sabine Weiss espone alla mostra “Post-War European Photography” al Museum of Modern Art di New York (MoMA) e un lungo articolo di Edna Bennett su “US Camera” la presenta al pubblico americano. Questo le vale una mostra personale presso l’Art Institute di Chicago e poi alla leggendaria Limelight Gallery di New York nel 1956. Impegnata con il lavoro, Sabine non riesce a visitare le sue mostre. Ma Charles Rado, che dirige l’agenzia Rapho Guillumette a New York e di cui Sabine è amica, promuove attivamente il suo lavoro e le procura regolari collaborazioni con riviste americane. Sabine compie il primo viaggio in America nella primavera del 1955, viaggiando con Hugh sul transatlantico Liberté. L’artista è impressionata da New York: in compagnia del marito gira per il Bronx, Harlem, Chinatown o la Ninth Avenue, quartieri popolari le cui strade brulicano di dettagli. Il “New York Times Magazine” le dedica due articoli con il titolo: “I newyorkesi (e la Washington) di una parigina.” Sabine Weiss riporta una serie di immagini sorprendenti da questo viaggio, intrise di un personale senso dell’umorismo piuttosto “francese”. Tuttavia queste foto vengono a lungo dimenticate per essere ritrovate e ripubblicate solo nel 2010.

Solitudine e fede, 1980-2000

Nel 1978 si tiene una retrospettiva su Sabine Weiss ad Arras, in Francia. Per la prima volta, la fotografa riguarda i suoi provini e le sue immagini del dopoguerra. Questa revisione della sua carriera riaccende in lei desiderio di viaggiare e di riprendere a lavorare con il bianco e nero. A oltre sessant’anni, sviluppa un nuovo corpus di opere scandito da viaggi in Egitto, India, Ungheria, Isola della Riunione, Guadalupa, Birmania e Giappone, spesso concentrandosi sui momenti contemplativi dell’esistenza. Sebbene si proclami atea, è attratta dall’espressione della fede e spesso fotografa le manifestazioni religiose. Ciò che colpisce lo spettatore è la sensazione di isolamento e a volte di tenera tristezza che queste fotografie emanano, in cui bambini e vecchi sono accomunati dalla loro fragilità. C’è una melancolia che emerge da queste immagini, in contrasto con la personalità vivace e giocosa della fotografa. Solo all’inizio degli anni 2010, con l’arrivo della sua assistente Laure Delloye-Augustins, Sabine Weiss depone la macchina fotografica per concentrarsi sulla rilettura e la valorizzazione delle sue immagini. Di questa mostra è stato pubblicato da Marsilio Arte il catalogo Sabine Weiss. La poesia dell’istante che propone molte immagini inedite, i testi sono di Virginie Chardin, curatrice della rassegna, e di Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci.

La Casa dei Tre Oci di Venezia

Sabine Weiss. La Poesia dell’Istante

dall’11 Marzo 2022 al 23 Ottobre 2022

dal Lunedì al Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 19.00

Mercoledì dalle ore 11.00 alle ore 17.00

Martedì Chiuso

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