in mostra al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze
Giovanni Cardone
E’stata prorogata fino al 3 Ottobre si potrà ammarare al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze la mostra Le tre Pietà di Michelangelo. Non vi si pensa quanto sangue costa a cura di Barbara Jatta, Sergio Risaliti, Claudio Salsi, Timothy Verdon. In occasione dell’incontro “Mediterraneo frontiera di pace 2022”, dove si sono riuniti i Vescovi e i Sindaci del Mediterraneo a Firenze dove intervento anche Papa Francesco. Per la prima volta un’esposizione mette a confronto, vicina l’una all’altra, nella sala della Tribuna di Michelangelo del Museo, l’originale della Pietà Bandini, di cui è da poco terminato il restauro, e i calchi della Pietà Vaticana e della Pietà Rondanini provenienti dai Musei Vaticani. La mostra è un progetto che vede eccezionalmente coinvolti i Musei Vaticani, il Museo dell’Opera del Duomo, il Museo Novecento di Firenze, il Castello Sforzesco di Milano e le istituzioni dell’Opera di Santa Maria del Fiore, Comune di Firenze, Comune di Milano e Fabbrica di San Pietro. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura del Genio del Rinascimento ovvero Michelangelo Buonarroti apro il mio saggio dicendo : La biografia di Michelangelo Buonarroti scritta da Vasari è l’ultima del secondo volume delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino ai tempi nostri nell’edizione del 1550. Quando Vasari scrive la biografia del Maestro, Michelangelo è ancora in vita, anzi è l’unico artista ancora vivente ammesso nell’edizione del 1550. Nel Proemio della terza parte delle Vite Vasari dichiara di volere parlare solo di artisti morti. Il capitolo delle Vite di Vasari del 1550 dedicato a Michelangelo ha come titolo “Michelangelo Bonarroti Fiorentino- Pittore Scultore et Architetto”. Già da questo titolo emerge che Vasari considerava il Buonarroti un artista “a tutto tondo”, abile sia nella pittura, sia nella scultura, sia nell’architettura. Il biografo, nelle prime pagine, allude al nome di battesimo dell’artista e dice che il padre Lodovico Simon Buonarroti “pose nome al battesimo Michele Agnolo, volendo inferire costui essere cosa celeste e divina più che mortale”. Vasari parla anche dell’origine nobile della famiglia Buonarroti, imparentata con i nobili Canossa, ma evidenzia anche la povertà di Lodovico che mandò presto a lavorare i suoi molti figlioli: solo tra tutti Michelangelo, fin dalla più tenera età, dimostrò di avere talento. Il biografo racconta che il padre allora decise di parlare a Domenico Ghirlandaio in modo da mandare il figlio a lavorare nella sua bottega; pattuito il salario, come si faceva a quei tempi il giovane Michelangelo cominciò a lavorare nella bottega del Ghirlandaio. Vasari racconta che presto il Ghirlandaio si accorse che Michelangelo non solo era molto più bravo degli altri discepoli ma che stava superando il maestro stesso. Vasari, nella biografia, riferisce che un giorno il Ghirlandaio non andò a bottega perché lavorava nella cappella grande della chiesa di Santa Maria Novella; in assenza del suo maestro, il giovanissimo Michelangelo si mise “a ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie dell’arte, et alcuni di que’ giovani che lavoravano”. Appena tornò alla bottega, il Ghirlandaio disse: “Costui ne sa più di me” e “rimase sbigottito della nuova maniera e della nuova imitazione che, dal giudizio datogli dal cielo, aveva un simile giovane in età così tenera, ch’invero era tanto quanto più desiderar si potesse nella pratica d’uno artefice che avesse operato molti anni”. Vasari racconta che Giulio II “deliberò di fargli fare la sepoltura” quando fu pienamente convinto del talento di Michelangelo che aveva già realizzato tre opere grazie alle quali aveva acquistato un notevole prestigio. Le tre opere alle quali mi riferisco sono la Pietà, “il gigante di Fiorenza”, cioè il David, e il cartone per la battaglia di Cascina.
Vasari racconta che dalla Pietà Michelangelo “acquistò grandissima fama” e aggiunge che alcuni ritenevano che l’artista avesse scolpito la Madonna troppo giovane. Nella biografia di Vasari la spiegazione relativa alla giovinezza del viso della Madonna sembra al lettore essere frutto dell’opinione dell’autore. Anche Ascanio Condivi nella sua biografia michelangiolesca celebra la bellezza della Pietà cui allude Vasari, chiamando però questa scultura Madonna della febre. In realtà a riguardo possiamo notare una rilevante differenza: Condivi infatti attribuisce allo stesso Michelangelo la spiegazione relativa al volto della Madonna, più giovane di quello di Cristo. L’allievo dello scultore racconta con dovizia di particolari un aneddoto e scrive di avere egli stesso chiesto a Michelangelo come mai la Vergine sembrasse più giovane del figlio; fu in quell’occasione che il Maestro gli spiegò che la purezza aveva mantenuto fresco il volto della Madonna. Vasari non perde occasione per elogiare l’arte del Buonarroti anche quando riferisce l’episodio della realizzazione del David. Il biografo scrive che Michelangelo continuò il lavoro dell’artista Simone da Fiesole che aveva cominciato a scolpire un enorme blocco di marmo senza portare a compimento l’opera. Il blocco di marmo rimase abbandonato per anni; Pier Soderini racconta ancora Vasari pensava di affidare il marmo abbandonato da Simone da Fiesole a Leonardo da Vinci. Michelangelo a quel punto fu sollecitato a venire a Firenze per prendere visione del marmo abbandonato; appena il Maestro vide il blocco di marmo, ebbe l’idea di scolpire un David. Vasari evidenzia il significato della scelta della figura di David: così come David aveva costituito per il suo popolo una protezione e una difesa, allo stesso modo chi governava la città di Firenze, avrebbe dovuto difenderla e governarla con giustizia. Il biografo racconta che Michelangelo, per realizzare il David, si isolò in un angolo della chiesa di Santa Maria del Fiore, al riparo dagli occhi di tutti: “E lo cominciò nell’opera di Santa Maria del Fiore, nella quale fece una turata tra muro, tavole et il marmo circondato e, quello di continuo lavorando senza che nessuno il vedesse, a ultima perfezzione lo condusse”. Il biografo, come aveva già fatto per altre opere quali ad esempio il Tondo Doni, indugia nella descrizione dei particolari della statua, evidenziandone la bellezza e l’armonia delle membra e affermando che “chi vede questa non dee curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri tempi o ne gli altri da qualsivoglia artefice”. La fama di Michelangelo in quegli anni è dovuta anche al cartone per un affresco della Sala del Consiglio a Firenze: questo lavoro gli fu commissionato dal gonfaloniere della Repubblica di Firenze Pier Soderini; l’altra facciata della Sala del Consiglio era stata affidata a Leonardo da Vinci. Michelangelo avrebbe dovuto dipingere un episodio della guerra di Pisa, la celebre battaglia di Cascina, quando il 28 luglio 1364, i Fiorentini, condotti da Giovanni Acuto, sconfissero i Pisani. Vasari dedica una minuziosa descrizione al cartone realizzato da Michelangelo.Vasari aggiunge che coloro che videro questo cartone rimasero “stupidi e morti” e, riferendosi all’arte di Michelangelo, afferma che “non s’essere mai più veduto cosa che della divinità dell’arte nessuno altro ingegno possa arrivarla mai”. Come ho già scritto, la Pietà, il David e il cartone della Battaglia di Cascina procurarono a Michelangelo una fama tale che Giulio II decise di affidargli i lavori per la sua sepoltura e, proprio per questo motivo, lo fece venire a Roma da Firenze. Alcuni aneddoti raccontati da Vasari nella Vita di Michelangelo aiutano a comprendere meglio il rapporto tra l’artista e il pontefice Giulio II. Il biografo riferisce che a Bologna, dopo la vittoria del Papa sui Bentivoglio, Michelangelo ebbe l’incarico di creare una statua di bronzo che lo raffigurasse e che fu scoperta il 21 febbraio del 1508. Mentre Michelangelo lavorava alla statua, il Francia, un pittore e orefice, andò a fargli visita; Michelangelo chiese al collega cosa ne pensasse della statua e questi rispose che “era un bellissimo getto”. Il Maestro interpretò le parole del Francia non come una lode alla propria arte ma al bronzo in sé e gli rispose “con collera e sdegno” dicendogli: “ Va’ al bordello tu e’l Cossa, che siete due solennissimi goffi nell’arte” questa reazione di Michelangelo fece sentire il Francia mortificato davanti ai presenti. L’aneddoto che ha come protagonisti Michelangelo e il Francia è indicativo della personalità un po’ irascibile del Maestro, sebbene rappresenti uno dei rari casi in cui egli inveisca contro i colleghi e disprezzi il loro lavoro. Quando il papa Giulio II tornò da Bologna a Roma, pensò di fare affrescare la volta della cappella dello zio Sisto IV e Vasari riferisce che “per l’amicizia e parentela che era tra Raffaello e Bramante, si stimava ch’ella non si dovesse allogare a Michelangelo” in realtà Giulio II scelse Michelangelo e “ordinò che tal cappella facesse e tutte le facciate con la volta si rifacessero”. Michelangelo, giunto a Roma, si rese subito conto della complessità del lavoro e dell’esigenza di essere affiancato da alcuni collaboratori esperti nell’arte dell’affresco come scrive Vasari. Inizialmente dunque Michelangelo cercò la collaborazione di alcuni “amici suoi pittori” fiorentini ma insoddisfatto dei lavori di costoro non esitò a distruggerli. La reazione di Michelangelo lascia intendere che quando si trattava di lavoro, egli sapeva essere inflessibile e duro nei giudizi. Vasari e Condivi, da questo punto di vista, presentano Michelangelo in modo diverso: Condivi, nella sua biografia del Maestro, vorrebbe ridimensionare l’idea di un Michelangelo ostile alle collaborazioni e poco propenso ad avere degli apprendisti attorno a sé; l’allievo di Michelangelo precisa infatti che l’artista non era contrario ad avere degli allievi ma molti di loro erano poco volenterosi e poco talentuosi, altri invece erano così presuntuosi da rimanere accanto al Maestro per poco tempo e da aprire, subito dopo un breve periodo di apprendistato, una bottega in proprio. Lo stesso Condivi riferisce che Michelangelo era molto rispettoso del lavoro dei colleghi e che non era capace di provare invidia per nessuno di loro; soltanto nel momento in cui si rendeva conto dell’incompetenza degli altri, si esprimeva con giudizi severi. A mio avviso l’allievo e biografo di Michelangelo aveva del suo maestro un’opinione molto idealizzata che lo portava a “dipingere” un ritratto dell’artista circondato da un alone di perfezione. Gli aneddoti raccontati dal collega Vasari sembrano non filtrati dall’idealizzazione che invece sembra connotare la biografia condiviana. Vasari più di una volta presenta Michelangelo in una dimensione più terrena, lo descrive capace di esprimersi talvolta in modo volgare, come quando si offese con il Francia, o di adirarsi con i suoi collaboratori a tal punto da distruggere i loro lavori e da ignorarli definitivamente. Vasari riporta inoltre un episodio in cui Michelangelo, intento a lavorare alla volta della Cappella Sistina, si adira addirittura con lo stesso Giulio II a tal punto da tirare dall’impalcatura delle tavole di legno. Il racconto di Vasari presenta un Michelangelo parecchio irriverente nei confronti di Giulio II: l’artista, nel ritratto che ne fa Vasari, appare furbo e un po’ ingannevole nei confronti dei collaboratori; in realtà però questo “piccolo inganno” che egli tesse alle spalle dei suoi manovali e dei suoi garzoni è volto a mettere alla prova l’affidabilità delle persone di cui si circondava. Il sospetto nei confronti del proprio prossimo è una peculiarità della personalità dell’artista che emerge soprattutto dall’epistolario di Michelangelo e che è presente nel corso di tutta la vita del Maestro, il quale dimostra più volte una difficoltà a fidarsi degli altri che lo spinge sempre ad accertarsi della loro buona fede. La reazione che Michelangelo ha nei confronti del Pontefice nel racconto di Vasari conferma l’ipotesi di una personalità un po’ irascibile e che non sempre riesce a contenersi: anche in alcune delle lettere dell’epistolario troviamo conferma del temperamento talvolta collerico di Michelangelo. Vasari racconta che dopo aver tirato le tavole al Papa, Michelangelo fu costretto a ritornare a Firenze, temendo appunto una punizione da parte del Pontefice. In realtà Giulio II, “volendo che tanta opera non rimanesse imperfetta, scrisse a Pier Soderini, allora gonfaloniere in Fiorenza che Michele Agnolo a’ suoi piedi rimandasse, perché gli avea perdonato”. L’episodio in cui Michelangelo tira le tavole a Giulio II non è solo indicativo di una personalità anticortigiana, ma conferma l’intemperanza del carattere dell’artista. La reazione del Papa testimonia la consapevolezza che Giulio II aveva del valore di Michelangelo: Vasari racconta che un vescovo aveva insinuato dinanzi al papa Della Rovere che Michelangelo fosse ignorante e che il pontefice lo aveva difeso dicendo al vescovo “ignorante sei tu”. Gli affreschi della volta della Cappella Sistina sono l’opera di Michelangelo alla quale sia Vasari sia Condivi dedicano più spazio nelle loro biografie. Entrambe le descrizioni degli affreschi sono molto dettagliate ed entrambi i biografi descrivono con dovizia di particolari le figure dipinte da Michelangelo.




La descrizione degli affreschi della Sistina effettuata da Vasari è ricca di elogi per il Maestro che il biografo inserisce man mano che illustra le figure e gli episodi raffigurati nella cappella. Queste parole rivelano in modo molto chiaro la concezione che Vasari aveva dell’arte di Michelangelo: in particolare, la parola “lucerna” indica il ruolo di “modello” che la pittura. michelangiolesca ebbe presso i contemporanei e la consapevolezza che di questo l’architetto fiorentino aveva. La grande ammirazione per l’arte di Michelangelo da parte di Vasari è evidenziata dall’uso dalla scelta lessicale che il biografo fa nel passo che ho citato e che introduce la vera e propria descrizione degli affreschi della Cappella Sistina. Vasari infatti usa per tre volte la parola “perfezzione”; per esaltare la bellezza delle pitture usa l’ aggettivo “stupendissima”, infine usa per due volte l’aggettivo “bello”, riferendosi in generale alle figure degli ignudi e, più specificatamente, alla “rotondità de i contorni”. Come quando introduce la descrizione delle statue delle tombe medicee in San Lorenzo, anche riferendosi agli affreschi della Sistina Vasari utilizza il verbo “stupire”, alludendo alla reazione che le queste pitture suscitano in chi le osserva. Le scene degli affreschi sono descritte con grande precisione e realismo: ritengo che la cura che Vasari mette nella descrizione di tutte le opere di Michelangelo sia molto significativa anche del rapporto che intercorreva tra i due artisti; le descrizioni che il biografo fa rivelano la grande attenzione con la quale egli osservò le opere del Maestro. I personaggi e le scene della Sistina sono illustrate tutte con grande cura dei particolari, è evidente l’entusiasmo dello scrittore per la pittura dell’amico; ogni qual volta Vasari si sofferma su un personaggio o su una scena utilizza aggettivi volti a esaltare il lavoro del Maestro: l’aggettivo più ricorrente è “bellissimo”, ”bellissima” è definita la movenza del profeta Ezechiele, ma anche la figura del vecchio Zaccaria, la vecchia sibilla cumana e “la libica”. Queste parole che concludono l’ampia descrizione degli affreschi, riprendono le parole con le quali lo scrittore l’aveva introdotta: la “tanta chiarezza” della quale parla Vasari riprende il motivo della “lucerna che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura” con la quale aveva introdotto la descrizione degli affreschi. L’aggettivo “meraviglioso” utilizzato da Vasari per definire Michelangelo si connette col verbo “stupire” che il biografo usa per spiegare la reazione degli osservatori davanti all’arte di Michelangelo. Da più di un passo della biografia michelangiolesca emerge il biasimo di Vasari nei confronti degli artisti del proprio tempo; Michelangelo viene presentato non solo come un modello da imitare ma anche come colui che avrebbe potuto liberare le menti degli altri artisti. Anche l’esortazione agli artisti del proprio tempo a ringraziare “il cielo” sembra essere una conferma del fatto che Michelangelo e la sua arte venisse considerata a quei tempi di origine divina. Ampio spazio della biografia di Vasari è dedicato alla descrizione delle tombe che il Buonarroti scolpì per la famiglia Medici e che erano destinate ad essere collocate nella Sacrestia Nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze. Con queste parole il biografo evidenzia la bellezza delle sculture michelangiolesche in San Lorenzo. Vasari pone l’accento sulla reazione che la bellezza dell’arte di Michelangelo suscitava nell’osservatore: il verbo “fece stupire” ha appunto la funzione di evidenziare la meraviglia e l’ammirazione che le sculture michelangiolesche suscitavano già a quei tempi su chi le guardava. Alcune righe della biografia sono dedicate proprio alla descrizione della statua di Lorenzo e di quella di Giuliano, e dalle parole del biografo emerge lo stupore che egli stesso provò davanti alle statua della Notte: “E che potrò io dire della Notte, statua unica o rara? Chi è quello che abbia per alcun secolo in tale arte veduto mai statue antiche o moderne così fatte? Conoscendosi non solo la quiete di chi dorme, ma il dolore la maninconia di chi perde cosa onorata e grande”, scrive l’architetto fiorentino. Vasari, dopo la descrizione della Notte riferisce che “dottissime persone” scrissero “molti versi latini e rime volgari in lode sua”: questa testimonianza di Vasari è molto indicativa, perché evidenzia il fascino che l’arte del Maestro aveva sui contemporanei, in particolare su personalità colte come Giovan Battista di Lorenzo Strozzi. Il biografo infatti riporta una strofa scritta proprio dallo Strozzi, sebbene, quando scrisse la biografia michelangiolesca, non conoscesse l’autore dei versi. Michelangelo nei propri versi riprende la parola “sasso” utilizzata dallo Strozzi e la quartina scritta dallo Strozzi presenta lo stesso schema di rime della quartina scritta dall’artista. Fra gli aneddoti riferiti da Vasari ce n’è un altro che si colloca nel periodo in cui il Maestro lavorava ancora alla volta della Cappella Sistina, quando Paolo III Farnese era diventato da poco Papa. Mentre Michelangelo lavorava su un’impalcatura molto alta, avvenne che egli cadde e “fattosi male a una gamba, per lo dolore e per la collera da nessuno non volse essere medicato”. Il racconto di Vasari dimostra la schiva personalità del Maestro che, quando era particolarmente arrabbiato, non cercava l’aiuto degli altri, neanche se fosse stato necessario un soccorso immediato: forse la “collera” di Michelangelo in quella circostanza dipendeva dal timore di dovere interrompere i lavori e di doverli rimandare. Un imprevisto del genere avrebbe probabilmente suscitato in una personalità come quella dell’artista altre angosce: forse egli temeva che se i lavori per la volta della Sistina avessero subito un rallentamento a causa del suo infortunio, egli avrebbe dovuto ulteriormente rinviare i lavori per la tomba di Giulio II o rinunciare ad altre importanti commissioni; inoltre è possibile che la rabbia che il Maestro provò quando cadde sia stata determinata dal suo eccessivo senso di responsabilità nei confronti dei familiari ai quali inviava costantemente aiuti economici e per i quali progettava di comprare degli immobili. Vasari arricchisce il racconto della caduta aggiungendo che, sebbene Michelangelo, subito dopo l’infortunio si fosse isolato in casa “disperato”,un amico medico gli venne in soccorso. Michelangelo, pur essendo un uomo riservato e solitario, aveva comunque una cerchia di fedeli amici: il Rontini evidentemente faceva parte di questa piccola cerchia di amici fidati, il medico “affezzionato”, sebbene dopo aver bussato alla porta dell’artista e a quella dei suoi vicini non avesse ricevuto risposta, non si arrese, ma addirittura provò a salire attraverso “alcune vie secrete” e arrivò, camminando “di stanza in stanza” fino al luogo dove si trovava l’amico artista “disperato”. L’episodio rivela la qualità dei rapporti che Michelangelo intratteneva: gli amici del Maestro “si affezionavano a quella virtù” e non esitavano a superare ostacoli per aiutarlo nei momenti di difficoltà. Questo medico fiorentino del quale ci parla Vasari, doveva conoscere bene la personalità di Michelangelo: il Maestro non gli aveva aperto la porta, ma il Rondini non si offende e sente che la cosa più giusta da fare è continuare a cercarlo. Vasari racconta inoltre che “La onde Maestro Baccio finché egli guarito non fu, non lo volle abbandonare già mai, né spiccarse gli dintorno”; questa frase conclusiva del periodo rivela l’affetto sincero che il medico nutriva per l’amico, nei confronti del quale ebbe premure non solo di medico ma anche di parente, essendo forse consapevole che Michelangelo a Roma non aveva il sostegno della famiglia. Vasari racconta che Michelangelo si riprese presto da quell’infortunio e che dopo che guarì ricominciò a lavorare più intensamente di prima. Queste parole di Vasari trovano conferma sia nella biografia di Condivi sia in molte delle lettere dell’epistolario. L’architetto biografo scrive che Michelangelo “ha fuggito il commerzio della corte quando ha potuto”: sono molti gli episodi raccontati da Condivi e che possiamo dedurre anche leggendo le lettere dell’artista, che confermano la veridicità di questa affermazione di Vasari; Michelangelo non fu mai un adulatore dei suoi potenti committenti, pur essendo consapevole dell’importanza di mantenere con loro dei rapporti sereni per potere lavorare. Nelle lettere troviamo anche la conferma della fondatezza delle parole di Vasari, dall’epistolario emerge che Michelangelo intratteneva poche relazioni: comunicava per la maggior parte dei casi solo con coloro cui era legato da rapporti di lavoro, o con i propri familiari e con i pochi fidati amici. Moltissime delle lettere del Carteggio curato da Poggi sono destinate al padre Lodovico, ai fratelli Buonarroto, Gismondo e Giovan Simone, al nipote Leonardo; il Carteggio include anche molte lettere scritte dal padre, dai fratelli e dagli amici più intimi; nel Carteggio infatti confluiscono le lettere per i pochi amici fidati, la Marchesa di Pescara Vittoria Colonna, Tommaso Cavalieri e Vasari. Come afferma dunque Vasari nella biografia è proprio per i parenti e per gli amici più cari che il Maestro si adoperava, dalle lettere emerge proprio che a loro “ha sempre porto aiuto onestamente”.
Quando Vasari parla di “aiuto” allude non solo al conforto affettivo che Michelangelo era capace di dare ai suoi cari, ammalati o in difficoltà, ma anche all’aiuto economico: fin da giovanissimo, l’artista contribuì notevolmente al benessere dei familiari e non esitò ad aiutare amici o semplici conoscenti in difficoltà economica. Il Maestro continuò ad aiutare i propri familiari anche negli ultimi mesi della sua vita, quando ormai era anziano e pieno di acciacchi. Quando Vasari scrive “ma non s’ha curato d’avergli intorno”, a mio avviso allude alla scelta di Michelangelo di vivere lontano dalla casa familiare ma soprattutto al fatto che l’artista preferiva condurre una vita piuttosto solitaria. Vasari tramanda che Michelangelo “s’è ancora curato molto poco avere per casa artefici del mestiero, e tuttavia in quel ch’ha potuto ha giovato ad ognuno”: queste parole trovano corrispondenza nella biografia di Condivi, l’allievo di Michelangelo scrive infatti che egli amava circondarsi di pochi validi apprendisti e collaboratori, ma sfata anche il mito dell’artista burbero che voleva lavorare in solitudine e aggiunge che spesso i ragazzi che si avvicinavano alla “bottega” di Michelangelo o erano troppo presuntuosi -e dopo poco tempo volevano mettersi in proprio- oppure non erano molto talentuosi e volenterosi. Anche nelle lettere si trovano riferimenti a giovani collaboratori dei quali il Maestro non era contento, per esempio Lapo e Lodovico che furono anche causa di un equivoco tra l’artista e l’anziano padre . Un’altra affinità di giudizio tra Vasari e Condivi sta nell’affermazione ”truovasi che non ha mai biasmato l’opere altrui, se egli prima non è stato o morso o percosso”; l’allievo di Michelangelo spiega infatti che il Maestro, pur essendo stato spesso vittima dell’”invidia” di alcuni colleghi, primo tra tutti l’architetto Bramante, non reagiva con cattiveria o perfidia e riconosce anche che Michelangelo possedeva dei raffinati strumenti di difesa, primo tra tutti l’indifferenza, da coloro che tramavano alle sue spalle. In questo punto della biografia michelangiolesca Vasari accenna al rapporto unico che Michelangelo ebbe con Urbino e alla sofferenza provata dal Maestro dopo la morte di costui, avvenuta il 3 dicembre 1555. Vasari arricchisce con piccoli aneddoti anche la parte finale della sua biografia su Michelangelo. Gli aneddoti raccontati dall’architetto fiorentino testimoniano che il pittore della volta della Sistina sapeva fare delle battute di spirito divertenti e argute. In particolare, una volta Michelangelo “disse a un pittore che avea dipinto una Pietà che s’era portato bene, ch’ella era proprio una pietà a vederla”. In un’altra occasione capitò a Roma un amico religioso che diceva già messa “tutto pieno di puntali e di drappi”; Vasari racconta che in un primo momento Michelangelo fece finta di non vederlo, quando l’amico si palesò, Michelangelo mostrò meraviglia nel vederlo così elegante e con molta ironia disse: “ o voi sete bello! Se fosse così dentro, come io vi veggo di fuori, buon per l’anima vostra”. L’aneddoto non testimonia soltanto l’ironia della quale era capace il Maestro, ma dalle sue parole emerge una sorta di disprezzo per il religioso così attento alle apparenze e al lusso. Vasari racconta anche che il Maestro, mentre ultimava la sepoltura di Giulio II, guidava uno “squadratore” dicendogli: “lieva oggi questo, e spiana qui, e pulisci qua”. Alla fine del lavoro, lo “squadratore” si rese conto di avere realizzato “una figura” e si sentì in dovere di mostrare riconoscenza a Michelagelo dicendogli: “«perché io ho ritrovato per mezzo vostro una virtù che io non sapeva d’averla»”. L’aneddoto testimonia non solo che Michelangelo, come scrisse anche l’allievo Condivi, non fosse restio ad insegnare la propria arte ai collaboratori, ma che aveva anche la virtù di aiutarli a esternare le loro potenzialità. Racconta ancora Vasari: “Domandato da uno suo amico quel che gli paresse d’uno che aveva contrafatto di marmo figure antiche delle più celebrate, vantando|si lo imitatore che di gran lunga aveva superato gli antichi, rispose: «Chi va dietro altrui, mai non gli passa inanzi»”. Un altro aneddoto molto divertente raccontato da Vasari e che denota l’umorismo sottile del Maestro è quello che vede protagonista un pittore il quale aveva fatto un’opera “dove era un bue che stava meglio de l’altre cose”; a Michelangelo fu domandato perché il pittore aveva fatto “più vivo” il bue piuttosto che le altre cose ed egli rispose “ogni pittore ritrae se medesimo bene”.
L’ultimo aneddoto raccontato da Vasari sulla vita di Michelangelo richiama una battuta molto gentile fatta dal Maestro, che passava davanti alle porte del Battistero di San Giovanni a Firenze, a chi gli chiedeva un parere su quelle porte; Michelangelo, secondo la testimonianza di Vasari, rispose: “Elle sono tanto belle che starebbono bene alle porte del Paradiso”. L’intento di Vasari è stato quello di onorare la figura di Michelangelo mentre l’artista era ancora in vita. L’architetto biografo inoltre è sicuro dell’immortalità delle opere del grande Maestro, la cui fama vivrà anche dopo la morte, grazie a coloro che parleranno e scriveranno di lui. La conclusione della biografia michelangiolesca scritta da Vasari è simile alla conclusione scritta da Condivi nella sua biografia del Maestro: anche l’allievo di Michelangelo nelle ultime righe della sua opera precisa di volere contribuire a perpetuare la fama del suo Maestro, sebbene in Condivi non troviamo le velleità letterarie che probabilmente si intravedono nelle Vite di Vasari.
Le tre Pietà scolpite da Michelangelo
La prima Pietà scolpita da Michelangelo
La prima Pietà di Michelangelo fu realizzata a ridosso del giubileo del 1500, quando il cardinale Jean Bilhères de Lagraulas commissionò al giovane Buonarroti “una Vergine Maria vestita con Cristo morto, nudo in braccio”. Il committente era a Roma dal 1491, come capo di una delegazione inviata da Carlo VIII di Valois presso la corte papale per preparare la riconquista francese del regno di Napoli. Il giovane scultore fiorentino poteva dedicarsi al tema del dolore materno e soprattutto al mistero dell’Incarnazione che “tra le opere di Dio è quella che più sorpassa la ragione”, come ricordava San Tommaso “poiché non si può pensare nessun’opera divina più mirabile di questa, che il vero Dio, il Figlio di Dio, diventasse vero uomo”. Con la Pietà Vaticana (1498-1499), l’artista impressionò il suo tempo: tale era la bellezza di quel Cristo nudo sorretto amorevolmente dalla Vergine, una giovanissima ragazza umile e casta, avvolta in un profluvio di panneggi per cui Maria è Madre e sposa. Quella giovinezza venne criticata dai più, parendo poco consona alla Madonna. Come ci ricordano le fonti, Michelangelo si difese dalle critiche spiegando che la verginità e la purezza mantengono giovani e belle le donne. Il capolavoro venne collocato nella cappella di Santa Petronilla poco prima del 1500, anno del giubileo. Successivamente la Pietà fu spostata in San Pietro, e nel XVIII secolo fu esposta a destra della navata dove ancora oggi la si può ammirare. In questa Pietà Michelangelo è riuscito a rappresentare la divinità di Gesù calandola nel corpo di un uomo di 33 anni. Cristo appena deposto dalla croce pare dormire in seno alla giovane madre, raggiante nella sua bellezza, luminosa visione di grazie e umiltà. La morte non oltraggerà quel mirabile uomo: il più bello tra gli esseri viventi. Nel corpo intatto, senza segni di violenza subita, si legge già il risorto, colui che vince la morte.
La seconda Pietà scolpita
Molti anni dopo la Pietà Vaticana, Michelangelo tornò a scolpire lo stesso soggetto. Nel frattempo, Roma era stata saccheggiata, La Repubblica di Firenze era crollata e i Medici erano rientrati in città. Michelangelo ha lasciato Firenze nel 1534 e si è stabilito per sempre a Roma. Dopo la morte di Alessandro de’ Medici, ucciso dal cugino Lorenzo, il duca Cosimo I comanda come un principe assoluto. Nel 1547 muore Vittoria Colonna alla quale l’artista era legato spiritualmente. Michelangelo è un artista ormai anziano sempre più concentrato sul destino umano, sulla morte e resurrezione di Cristo, lavora in preda a frequenti crisi depressive. Vive di contrasti, tra l’attrazione per la bellezza, il pungolo dei sensi e il desiderio di ascesi. Comincia a temere la propria morte, il giudizio divino. Fa voto di povertà. Si aggrappa infine alla croce e mette al centro della sua esistenza e della sua ispirazione Cristo, salvatore dell’umanità. L’esecuzione della Pietà Bandini è lunga e difficile, la datazione controversa. Di sicuro il maestro cominciò a lavorare il blocco intorno al 1547. Tuttavia, Michelangelo non portò a termine il lavoro, e la statua, prima di essere venduta nel 1561 a Francesco Bandini, fu conclusa in alcune parti da Tiberio Calcagni, principale assistente del Buonarroti. La statua avrebbe dovuto essere collocata in Santa Maria Maggiore a Roma, probabilmente per la sepoltura di Michelangelo. Vi si legge infatti una profonda e intensa meditazione sulla Morte e la Redenzione, sul Sacrificio di Cristo e la Salvezza, merce anche il transfert nella figura di Nicodemo. Secondo Alessandro Parronchi il blocco prelevato da Serravezza e usato per la realizzazione del gruppo era uno di quelli avanzati per la tomba di Giulio II. Quel marmo, come ricorda anche Vasari, era pieno di impurità ed estremamente duro, tanto che al contatto con lo scalpello emetteva nugoli di scintille. Nel 1553 Vasari, in visita allo studio dell’artista, ebbe l’impressione che Michelangelo esitasse a mostrargliela non terminata. Cercando di variare la posizione delle gambe di Cristo, lo scultore provocò la rottura di un arto. Successivamente, intorno al 1555, prese a martellate la statua rompendola in più punti. Infatti, ancora oggi si osservano segni di rottura sul gomito, sul petto, sulla spalla di Gesù e sulla mano di Maria. Alla morte dell’artista nel 1564 si pensò di utilizzare il gruppo per la sepoltura di Michelangelo a Firenze in Santa Croce. L’opera invece rimase nella villa dei Bandini a Montecavallo e solo nel 1674 venne acquistata da Cosimo III de’ Medici che la destinò ai sotterranei di San Lorenzo. Nel 1722 la Pietà fiorentina fu trasferita in Santa Maria del Fiore. Dal 1981 si trova nel Museo dell’Opera del Duomo.
L’ultima Pietà, detta ‘Rondanini’
Il progetto risalirebbe agli anni tra il 1552 e il 1553. Secondo le fonti, Michelangelo vi lavorò fino all’ultimo. Infatti, l’opera fu rinvenuta nello studio di Michelangelo dopo la sua morte. Nell’inventario redatto in quei giorni la Pietà è descritta in questi termini: “Statua principiata per un Cristo et un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite”. Nel gruppo si alternano parti condotte a termine, riferibili alla prima stesura, e parti non finite, legate ai ripensamenti della seconda versione. Acquista dai marchesi Rondanini nel 1744, la Pietà è arrivata a Milano dove si conserva nel Castello Sforzesco dal 1952. Esito finale di un lungo percorso di arte e di fede la Pietà Rondanini è piuttosto una preghiera che un’opera d’arte, o meglio è la dimostrazione artistica del fatto che l’uomo di fede ha visto oltre le apparenze reali, che la mano non riesce a restituire quanto l’occhio interiore ha potuto contemplare. Siamo già in un’esperienza di notte oscura. Al posto dei sogni, tante volte riferisce le sue aurorali invenzioni, qui ad aprire la strada all’immaginazione dell’artista è la visione mistica del cristiano immerso in una riflessione notturna sull’Unigenito, sulla passione morte e resurrezione di Cristo. Gesù e Maria sembrano esseri fantasmatici, la pietra tende a farsi materia di luce. Cristo esausto sembra scivolare verso la tomba e con il figlio anche la Madre, la cui umanità è come interamente assorbita dal sentimento di amore. Un unico destino travolge miracolosamente madre e figlio in questa metamorfosi mistica, la stessa già provata al momento dell’annunciazione. Ancora una volta Maria è talamo per il suo Signore. L’evidente inclinazione delle due figure, a una visione laterale, pare suggerire una riflessione sulla Resurrezione e l’Assunzione. Se osserviamo bene infatti i due corpi paiono distaccarsi dal suolo, e assieme raggiungere il Padre. La mostra vuole raccontare la grande sofferenza di una madre di fronte alla morte del figlio; la fatica fisica e l’intimo travaglio spirituale dello scultore che libera forme rimaste prigioniere nel marmo e genera capolavori senza tempo. C’è tutto questo nelle Pietà di Michelangelo Buonarroti, un soggetto che la maggior parte delle persone indentifica nel capolavoro della Basilica Vaticana, ma che invece fu tradotto in scultura almeno tre volte dal grande maestro rinascimentale nel corso della sua lunga vita. Per Michelangelo è un percorso durato più di cinquant’anni, che conduce dall’ambizione del giovane che scolpì il proprio nome sul petto della Madonna della versione vaticana, all’immedesimazione personale dell’anziano artista, che in quella del Museo dell’Opera raffigura se stesso nelle sembianze di Nicodemo. Vicino alla propria morte, Michelangelo meditava profondamente sulla Passione di Cristo, come egli stesso fece capire in un coevo disegno della Pietà, donato alla marchese di Pescara Vittoria Colonna, dove scrisse la frase dantesca: Non vi si pensa quanto sangue costa (Paradiso XXIX, 91). Risultato sublime di questa meditazione spirituale fu l’esecuzione della Pietà Rondanini, la cui estrema bellezza rifulge nel tramonto della figura. La mostra vuole ideare un dialogo tra le Pietà che sono collocate una vicina all’altra, e offriranno l’opportunità di studiare l’evoluzione dell’arte di Michelangelo nonché la sua maturazione spirituale, dalla prima giovinezza quando a Roma scolpì per l’antica San Pietro l’opera ora nella navata laterale nord della Basilica alla sua ultima stagione, quando, ormai vecchio, mise mano alla Pietà oggi a Firenze e poi alla Pietà Rondanini conservata a Milano. Nel prossimo autunno i tre calchi in gesso delle Pietà originali saranno esposti a Milano nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale in un nuovo allestimento appositamente progettato. E’ stato pubblicato un catalogo da Silvana Editoriale con saggi e schede dei curatori Barbara Jatta (direttore dei Musei Vaticani), Sergio Risaliti (direttore del Museo Novecento Firenze), Claudio Salsi (direttore dell’Area Soprintendenza Castello, Musei Archeologici e Musei Storici), Timothy Verdon (direttore del Museo dell’Opera del Duomo a Firenze) e di altri studiosi.
Museo dell’Opera del Duomo di Firenze
24 Febbraio 2022 al 3 Ottobre 2022
Le tre Pietà di Michelangelo. Non vi si pensa quanto sangue costa
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.45
Le Foto Allestimento della mostra credit © Ela Bialkowska, OKNOstudio