Gazzettino Italiano Patagónico

Dario Argento – The Exihibit

in mostra al Museo Nazionale del Cinema di Torino 

Giovanni Cardone 

Fino al 16 Gennaio 2023 si potrà ammirare presso il Museo Nazionale del Cinema – Mole Antonelliana  di Torino la mostra Dario Argento – The Exihibit , a cura di Domenico De Gaetano e Marcello Garofalo. Per la prima volta un progetto espositivo compone un completo e articolato discorso visivo sull’immaginario che il regista romano ha portato sullo schermo nel corso del proprio cinquantennale viaggio nei perturbanti territori dell’incubo. La mostra Dario Argento – The Exhibit è stata realizzata con il patrocinio del MiC -Ministero della Cultura. L’ esposizione propone un percorso cronologico attraverso tutta la produzione di Dario Argento, dagli esordi de L’uccello dalle piume di cristallo del 1970 al suo ultimo lavoro Occhiali neri del 2022, recentemente presentato al Festival del Cinema di Berlino tutta la carriera del regista e sceneggiatore Dario Argento costruita sul confine tra cinema di genere e d’autore. A partire da una sintesi visiva delle tematiche da lui predilette, la mostra propone per ciascun titolo della vasta filmografia del regista curiosità, citazioni, fotografie, sequenze filmiche, bozzetti, manifesti, costumi, creature meccanizzate e colonne sonore. Un excursus lungo tutti i vari linguaggi che concorrono alla definizione dell’estetica che lo ha reso celebre e apprezzato in tutto il mondo. Tra le collezioni esposte anche opere di maison di alta moda che per Argento hanno realizzato costumi e gioielli, e le creazioni di maestri italiani degli effetti speciali. Le proiezioni presentano photogallery, sequenze e montaggi tratti dalle sue opere, documentazione sugli effetti speciali e sulla musica nei suoi film. Le fotografie sul set rivelano l’artificio e la potenza della messa in scena. I video restituiscono il rapporto di Argento con la musica e l’arte evidenziando anche i tributi rivolti a registi da lui molto amati, come Lang e Hitchcock, così come i frequenti riferimenti a quadri, fumetti, opere letterarie e oggetti di design. Sulla rampa espositiva della Mole il visitatore troverà un’imponente messe di memorabilia argentiani: 44 oggetti di scena, 12 preziosi manifesti e locandine originali del Museo Nazionale del Cinema, bozzetti scenografici, creature meccaniche, fotografie inedite e molto altro. Particolarmente significativi e di forte impatto sono i dieci costumi di alcuni dei suoi film, tra cui quello ricreato appositamente da Giorgio Armani, che aveva firmato gli abiti di Jennifer Connelly sul set di Phenomena (1985), mentre oltre 60 pannelli ricostruiscono il percorso biografico e artistico di Argento, raccolgono le sue testimonianze e quelle di celebri personalità del cinema e della cultura. I pezzi esposti provengono dalle collezioni del Museo Nazionale del Cinema, del CSC – Centro Sperimentale di Cinematografia (Archivio fotografico della Cineteca Nazionale e Scuola Nazionale di Cinema) e di numerosi collezionisti privati, con importanti contributi da parte di professionisti del cinema quali Sergio Stivaletti, effettista di molti film di Argento da Phenomena del 1985 in poi, Luigi Cozzi, stretto collaboratore di Argento fin dagli esordi, Franco Bellomo, Stefano Oggiano, Gabriele Farina, Roberto Attanasio e Carlo Rambaldi, uno dei più importanti artisti degli effetti speciali a livello mondiale. Come afferma Enzo Chigo, Presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino : “Dario Argento è uno dei Maestri del cinema italiano più conosciuti e apprezzati a livello internazionale. Dal suo esordio dietro la macchina da presa con L’uccello dalle piume di cristallo all’ultimo film Occhiali neri, ha spaziato tra giallo, thriller e horror, creando e imponendo a generazioni di spettatori il suo personalissimo immaginario, frutto di un talento figurativo fuori dal comune. Un regista ma anche un artista. Infatti, il suo cinema visionario dialoga costantemente con le altre arti, creando universi visivi seducenti e messe in scena sontuose attraverso un uso vitale e libero della macchina da presa.

Ogni film è una riflessione sulla natura dell’immagine e sulla sua percezione, facendo tesoro delle esperienze del precinema e degli studi a cavallo tra ottica e psicanalisi. Nelle ambientazioni spettrali dei suoi film ha restituito di Torino un’immagine inedita e perturbante che arricchisce di fascino e mistero il nostro sguardo verso la città.” Mentre Domenico De Gaetano Direttore del Museo Nazionale del Cinema e co- curatore della mostra spiega : “Il percorso della mostra propone un approccio ‘altro’ all’opera di Dario Argento, considerandolo soprattutto un regista profondamente innamorato delle possibilità del mezzo filmico che attraverso una poetica del delirio visivo ha saputo diventare uno dei grandi creatori di immagini del nostro tempo, demiurgo di un mondo i cui tratti sospesi tra l’onirico e il fantastico, tra l’astrazione e la tentazione del sublime – sono sfaccettati, molteplici e complessi, sempre posti oltre il confine della visione.”   Mentre Marcello Garofalo, critico cinematografico co-curatore della mostra, ribadisce che “Argento costruisce la sua modernità nel paradosso di uno sguardo che spesso collide tra quello del protagonista della storia e quello dello spettatore, abbagliati entrambi da una ‘messa in scena’ che del gioco non ha nulla, se non la derisione per una ingannevolezza dello sguardo, incapace di guardare l’essenziale e raggirato dal grande ‘trucco’ del cinema, l’apparire quando si crede di vivere, il sognare (o precipitare nell’incubo) quando si crede di essere vigili e di poter dominare la realtà. Tutti i protagonisti del cinema di Argento hanno in comune il fatto di assomigliarci, perché possiedono, prima ancora di una psicologia e di un comportamento, la tendenza a vedere sempre troppo o troppo poco, a essere vittime di abbagli e di visioni, fino a non distinguere più ciò che è vero da ciò che è falso. In tutta la sua opera il sogno diviene spazio, quasi come una rete invisibile e l’onirico si insinua nella realtà, non perché in contrapposizione, ma in quanto terribilmente somigliante a essa. Emblematiche le parole che in Inferno, Argento affida, quasi fossimo in un film di Godard, alla contessa Elise De Longvalle Adler (Daria Nicolodi): ‘È pittura, non sangue'” Infine Dario Argento afferma : “Sono davvero felice che il Museo Nazionale del Cinema di Torino mi abbia comunicato che uno dei loro eventi previsti per l’inizio del prossimo anno sia una grande mostra dedicata al mio cinema: nel corso della mia carriera, iniziata nell’ormai lontano 1970, ho avuto modo di ricevere diversi apprezzamenti in tutto il mondo, specialmente in Francia, in America, in Giappone; in Italia di recente mi hanno consegnato il David di Donatello alla carriera, ma questo omaggio che il Museo del Cinema di Torino mi dedicherà, mi entusiasma in particolar modo, non solo perché si svolgerà in una città da me molto amata, dove ho avuto modo di girare diversi film e in una sede prestigiosa quale è il Museo del Cinema, ma perché, grazie al lavoro accuratissimo che gli organizzatori e i curatori dell’evento stanno svolgendo – ho avuto modo di visionare in anteprima diversi bellissimi “layout” dell’allestimento – avrò la possibilità di far conoscere anche ai più giovani l’intero mio percorso cinematografico, accompagnandoli all’interno del mio ‘cinema idealista’, fatto di incubi, sogni e visioni, ove la grigia realtà non è mai arrivata e mai ci arriverà. In un film che ho realizzato nel 1993, Trauma, mentre scorrono i titoli di coda l’obiettivo si sposta, continuando a raccontare possibili inizi di altre vicende. Questo perché mi piace credere che i miei film possano conquistare un grande spazio nella memoria dei miei spettatori, diventando anche dopo la visione un tutt’uno con la loro vita. Credo che questa mostra possa rendere ancora più realizzabile, luminoso e concreto questo mio desiderio”. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Dario Argento apro il mio saggio dicendo :  Prima di analizzare i luoghi e gli spazi del cinema di Dario Argento è necessario descrivere brevemente quelle che sono le connotazioni psicologiche più rilevanti dei personaggi dei suoi film, poiché è proprio dalle singole caratteristiche dei soggetti scelti dal regista che si procede, di volta in volta, ad una rappresentazione dello spazio e degli elementi architettonici in esso contenuti. Andrea Bellavita dichiara a questo proposito: Tra le forme “classiche” di messa in scena dei processi mentali, quello maggiormente praticato dal regista è la rappresentazione di un soggetto psicologicamente disturbato, in cui la patologia mentale consente uno sguardo ed un’esplorazione sull’inconscio del personaggio .

Solitamente Dario Argento mette in scena il disagio psichico di un individuo che durante l’infanzia ha subito un forte trauma, spesso di natura sessuale. Un esempio di questo trauma lo troviamo soprattutto in due film della triade animalesca: L’uccello dalle piume di cristallo e Quattro mosche di velluto grigio. Nel primo film l’assassina Monica Ranieri è stata violentata durante l’infanzia, e il quadro, di cui riporto di seguito un’immagine, evoca il trauma vissuto dalla donna, diventando così il luogo di innesco del rimosso. In Quattro mosche di velluto grigio Nina Fabiani, la moglie del protagonista Tobias, è una maniaca omicida che odia gli uomini, poiché li identifica tutti col padre che desiderava un maschio e ha poi punito la sua femminilità facendola rinchiudere in un manicomio, che metonimicamente rappresenta l’istituzione patriarcale, oltre che il luogo dove la donna maturerà il suo istinto omicida. Questo vulnus rimane sopito per anni, per poi riemergere violentemente in occasione di un evento particolare che lo innesca, provocando successivamente una serie di azioni e reazioni che si ripercuotono sui personaggi, vittime scelte dal maniaco, attraverso svariate forme di perversione. In questo senso il cinema di Dario Argento mette al centro temi legati alla dimensione esistenziale dell’uomo, precisamente alla devianza e alla patologia. Un esempio ce lo offre Profondo rosso con il complesso edipico non risolto di Carlo, il figlio dell’assassina, che, nel tentativo di proteggere la madre, è disposto a passare come responsabile degli omicidi commessi, facendosi persino ammazzare. Abbiamo in questo senso un’attenzione particolare alla sfera dell’inconscio; la razionalità viene costantemente messa in discussione e a predominare sono lo smarrimento e la paranoia. Tutti i personaggi del cinema di Argento sono quindi soggetti tormentati, a volte allucinati dal loro stesso trauma, che si trascinano nella realtà senza veramente prendervi parte; vivono tutti indistintamente una condizione di alienazione, solitudine ed emarginazione. L’architettura in tal senso riflette il sentire e l’agire del protagonista, e specie per i primi film, appare squadrata e geometrica, con i palazzi delle metropoli dalle forme rigide e spigolose. Questi sono elementi che rinviano direttamente all’espressionismo tedesco, da cui Dario Argento prende ispirazione per numerosi suoi set. Queste istanze legate alla dimensione interiore si possono estendere non necessariamente e solo all’assassino ma a tutti i protagonisti che vengono rappresentati nei suoi film. Pensiamo per un attimo alla scena di Profondo rosso dove vediamo il Blue Bar di Torino. Chiaramente ispirato, come del resto dichiarerà più volte lo stesso regista, a Nighthawks di Edward Hopper, il Blue Bar si configura come un luogo-contenitore di individui soli, immobili e silenziosi, che stazionano sulle loro sedie vivendo in completo isolamento quella che dovrebbe invece essere una serata in compagnia in un locale, solitamente connotata dalla convivialità e dallo scambio comunicativo. Si tratta inoltre di un luogo inventato, costruito appositamente da Dario Argento sotto i portici della piazza torinese. Come sottolinea Alessandro Bergogno: E proprio su quella piazza c’è anche il bar notturno dove Carlo suona il piano. Molto particolare, composto quasi da una unica vetrata e illuminato a giorno a contrastare l’ambientazione notturna della piazza. Il Bar non esiste e non è mai esistito, lo fece costruire apposta Dario Argento per il film. Ma così come Hitchcock per la sua casa sulla collinetta dietro il Motel Bates si ispirò ad Hopper, così Argento in questo caso fece ricostruire il bar incastrato sotto i portici torinesi ricreando esplicitamente struttura e luci di un altro ancor più famoso quadro dell’artista americano: “Nighthawks” (I nottambuli), del 1942. Il nome inventato per il film fu “Blue bar”, indicando con la parola “blue” sia il colore evocativo della notte sia il significato musicale (i due protagonisti sono musicisti) del termine “Blues”, che allude ad un particolare sentimento di tristezza e malinconia. Pensiamo che ad Hopper sarebbe piaciuto. Gli assassini dei film di Dario Argento sono quindi esseri asociali, psicologicamente disturbati, che si sono trascinati negli anni un trauma avvenuto perlopiù durante l’infanzia. Nel momento in cui riemerge questo terribile passato, l’omicida viene investito da una carica distruttiva che scatenerà su diversi personaggi del film. Gli omicidi vengono perpetrati secondo una logica che riproduce in chiave pervertita le stesse dinamiche legate al mondo dei giochi dei bambini. Infatti, come afferma Roberto Pugliese: Bambole impiccate, disegni infantili che riproducono orrori primari, pupazzi ghignanti e semoventi, tenebrosi «tra-la-la» di bambini sfilano in un’ultima, riassuntiva parodia dello psycho-killer movie . Luoghi, architettura, geografia dello spazio: sono questi gli elementi determinanti in relazione al protagonista, che si muove in ambienti caratterizzati soprattutto da una dimensione socialmente condivisa, pubblici e visibili. Ad esempio il colpevole di Profondo rosso, che nella scena iniziale partecipa al seminario di parapsicologia, oppure le streghe di Suspiria, che, nel ruolo di insegnanti, si muovono nell’accademia di danza; ancora, in Opera, il commissario Santini si occupa della indagini all’interno del teatro, anche se in realtà è un omicida efferato e perverso; infine il Dottor Casoni de Il gatto a nove code lavora in un luogo pubblico, l’Istituto Terzi. Tuttavia l’assassino talvolta si muove anche in luoghi per così dire invisibili, lontani dalla società e dalla visibilità. Solitamente si tratta di camere scure, buie, in cui la macchina da presa si muove in soggettiva: primi piani sulla mani, normalmente guantate, dell’assassino (sempre del regista) e su oggetti macabri che verranno utilizzati come strumenti di tortura per gli omicidi, o addirittura per scatenare la perversione (la cassettina di Profondo rosso che riproduce una filastrocca infantile, indispensabile all’assassino per riattivare il trauma del passato). Quindi si delinea una contrapposizione tra luogo pubblico e luogo privato, impenetrabile e oscuro, accessibile unicamente all’assassino. Vedremo nel corso dell’analisi come queste due dimensioni vengano rappresentate nei vari film e come la struttura architettonica diventi espressione tangibile dell’animo malato del protagonista. Quattro mosche di velluto grigio, Profondo rosso, Opera. Sono questi i tre film di Dario Argento che giocano sulla dialettica tra scena e platea, illusione e realtà, facendo del teatro il luogo par excellence della finzione, la quale si declina in varie forme a seconda del film in questione. In Quattro mosche di velluto grigio e Profondo rosso la scena del teatro appare all’inizio del film seppure con connotazioni simboliche diverse. In Opera invece lo stesso luogo avrà un ruolo di protagonista assoluto per quasi tutta la durata del film. Profondo rosso. Siamo all’inizio del film, la scena è ripresa in soggettiva e replica lo sguardo dell’assassino che entra a teatro per assistere a un congresso di parapsicologia. Il suo ingresso in platea è segnalato dallo spostamento delle tende, il quale ha un preciso valore simbolico, quello di segnalare una modifica di visione, di separare cioè il mondo razionale da quello irrazionale, legato all’inconscio. Un particolare da tenere in considerazione è dato dall’uso del colore: quando l’omicida entra in platea il colore predominante è il rosso, che ha una precisa funzione narrativa, cioè quella di rimandare al sangue, che evoca a sua volta una scena primaria, quella dell’omicidio perpetrato dalla madre di Carlo sul marito, molti anni prima. Come già accennato in precedenza, il tema del seminario è quello della telepatia. La scena è occupata da tre relatori: la medium Helga Ullmann, il professor Bardi e il professor Giordani, che spiega l’argomento del convegno introducendo la medium ai partecipanti seduti in platea, tra cui si trova anche l’omicida. Durante il congresso Helga, che è dotata di una eccezionale capacità telepatica, comincia a sentirsi a disagio, è visibilmente scossa e perturbata: essendo entrata in contatto con la mente dell’assassino, ne intercetta i pensieri, che sono di morte e perversione. Helga punta il dito accusatore in mezzo alla platea, ed evocando il delitto commesso in passato dall’omicida, ne premonisce anche quelli futuri (“tu, hai già ucciso, e sento che ucciderai ancora”); a questo punto l’assassino si alza dalla sala e si allontana rapidamente dal pubblico, dirigendosi verso il gabinetto dove si guarderà allo specchio, senza potersi riflettere e senza dare quindi allo spettatore la possibilità di cogliere la sua vera identità. Il fatto che Helga abbia smascherato la vera natura del colpevole proprio durante il seminario fa sì che il teatro diventi il luogo elettivo per la riattivazione del trauma infantile dell’omicida, lo spazio che consente al rimosso di tornare alla luce. Ancora, il luogo simbolico dove riemerge la memoria di un passato orribile che si ritiene erroneamente sepolto o superato ma che invece si ripresenta in tutta la sua carica devastante e distruttiva, spingendo l’assassino a uccidere ancora.

La macchina da presa torna in teatro una volta terminato il congresso; le luci sono quasi spente, rimangono solo Helga e Giordani, che si allontanano dalla platea e con tono sommesso ma preoccupato continuano a parlare della strana esperienza vissuta dalla medium durante il seminario. Helga esprime le sue perplessità sulla vicenda, dicendo che vorrà mettere per iscritto quello che ha visto, specialmente ora che sa chi è l’assassino. Mentre i due parlano lei si blocca e comincia a guardarsi intorno: l’assassino li sta spiando da dietro una colonna e la donna ne ha avvertito nuovamente la presenza. La scena si conclude con una musica infantile e inquietante di sottofondo. Laddove in Profondo rosso il teatro è il luogo dove il trauma viene riattivato grazie ad un’intercettazione mentale, in Quattro mosche di velluto grigio il teatro assume una significazione diversa rispetto al film precedentemente analizzato. Innanzitutto, riportando le parole di Mauro D’Avino e Lorenzo Rumori, ecco come appare questo luogo: Tipica location dalla doppia natura: il teatro dove avviene il presunto delitto attorno al quale ruota tutto il film è, per quanto riguarda palco e loggioni, a Spoleto , ma al suo esterno è il Conservatorio Statale di Musica “G. Verdi” di piazza Bodoni a Torino, che con la sua facciata, in stile neobarocco ottocentesco, dà una forte connotazione all’intera piazza . Ancora una volta siamo all’inizio del film. Roberto Tobias è un giovane batterista che sta facendo le prove con la sua band; mentre suona si accorge di essere spiato da un individuo che porta i baffi e gli occhiali da sole. Una sera decide di inseguire il suo persecutore e di affrontarlo. Arrivano in un vecchio teatro, il cui accesso è reso più difficile dalla presenza di tre tende che rallentano l’ingresso del protagonista. La scena e la platea sono vuote, qua e là ci sono coriandoli e stelle filanti, quello che resta di una festa di carnevale appena trascorsa. Tobias afferra lo sconosciuto mentre sta salendo sul palcoscenico, gli chiede perché continua a seguirlo e gli intima di smetterla. I due hanno una colluttazione e l’inseguitore finisce accoltellato. In realtà egli è stato pagato dall’omicida per fingere un omicidio che possa incastrare il protagonista, il quale verrà fotografato nell’atto dell’accoltellamento da un macabro pupazzo meccanico dietro il quale si cela il vero volto del colpevole, posizionato in una delle logge del teatro dismesso. Abbiamo visto come fra gli elementi che possono sollecitare l’emotività dello spettatore nel cinema figuri lo sguardo, che, a seconda di come viene inquadrato, determina la partecipazione affettiva dello spettatore. Riprese ravvicinate sull’occhio del colpevole, soggettive che replicano il modo di vedere dell’omicida o del testimone oculare: sono queste le principali soluzioni stilistiche che mettono il protagonista e lo spettatore sullo stesso piano di condivisione emotiva. In Quattro mosche di velluto grigio, come in molti altri film del regista romano, lo sguardo è ingannevole: lo spettatore crede che il protagonista sia l’accoltellatore, mentre il dettaglio rivelatore del coltello impugnato dall’uomo con i baffi e gli occhiali da sole spiega come egli abbia simulato la ferita per poter incastrare Tobias. Nel film il teatro diventa luogo di rappresentazione scenica. Lo spettacolo che va in scena è quello del (finto) omicidio, che avviene nella scale tra palcoscenico e platea, quasi che le scale (elemento cardine del cinema argentiano) segnassero il passaggio tra la finzione (scena) e la realtà (platea). Interessante è l’inquadratura in cui il protagonista guarda il coltello con aria incredula, dettaglio che rimanda al Macbeth di Shakespeare , che verrà poi ripreso in Opera. Nel momento dell’accoltellamento in una delle logge si accendono le luci, che andranno a illuminare la scena della colluttazione e consentiranno al fantoccio/assassino di fotografare il momento dell’omicidio. Le stesse fotografie saranno successivamente adoperate dall’omicida per ricattare il protagonista, il quale si ritroverà perseguitato per tutta la durata del film, fino alla rivelazione dell’identità dell’assassino. Quindi è come se la scena dell’omicidio fosse stata creata apposta per l’assassino, il quale assurge qui a ruolo di unico spettatore. L’esibizione dell’omicidio diventa occasione di intrattenimento e va a soddisfare da un lato il bisogno voyeuristico del killer e dall’altro la sua sete di vendetta, che prenderà forma attraverso il ricatto. Orrore e spettacolo si fondono e confondono, l’occhio che guarda è quello dell’assassino ma anche il nostro, così che finiamo inevitabilmente per identificarci con lui.

La scena è resa ancora più macabra e inverosimile dalla presenza di coriandoli e stelle filanti, che amplificano l’effetto di spettacolarità della scena. Un dettaglio da evidenziare riguarda l’abbigliamento del pupazzo meccanico, vestito in maniera elegante (papillon e guanti bianchi), come chi va a teatro. Qui, la fotografia ha una doppia valenza: serve al ricatto, appunto, ma anche alla ripresa della scena clou di uno spettacolo spogliato di tutte le sue caratteristiche di atrocità e dramma e ridotto alla sua componente di finzione. Il protagonista è travolto da questa situazione, perché si trova nei panni di un attore/omicida, una parte che non ha scelto ma che gli è stata drammaticamente imposta. I riflettori sono puntati tutti su di lui nel momento di massima suspense: egli si gira sconvolto verso la loggia per cercare di capire chi lo stia fotografando, ma è troppo tardi: lo spettacolo è finito, le luci si spengono. In Opera il teatro ha un’assoluta preminenza visiva, in quanto le scene più importanti si svolgono proprio in questo luogo. Nell’incipit per esempio vediamo l’allestimento scenico del Macbeth di Verdi (con un carrello in soggettiva che arretra, soluzione di stile che rimanda direttamente al cinema kubrickiano), più avanti invece assistiamo prima ad una scena in cui il custode del teatro viene ucciso dietro le quinte, poi ad una dove l’omicida si impossessa del vestito di Lady Macbeth custodito in una teca, seviziandolo come se questo fosse una parte del corpo della protagonista, la giovanissima soprano Betty. Infine il teatro torna ancora una volta nella sequenza in cui l’assassino verrà smascherato da un volo di corvi introdotto in platea dalla regia. Questi corvi, avendo assistito ai diversi omicidi perpetrati dal killer, riconoscono in sala il loro persecutore e lo attaccano, strappandogli un occhio e rivelando a tutti la sua identità. Si potrebbe dire che il film coincide con una rappresentazione nella rappresentazione, per diversi motivi. Innanzitutto gli snodi narrativi principali avvengono a partire dalla messinscena del Macbeth di William Shakespeare nella versione operistica di Giuseppe Verdi, che è appunto un’opera teatrale, notoriamente maledetta, in cui la protagonista darà al marito il coraggio di assassinare il re per consentire la propria rapida ascesa al trono. Vedendo la scena, il killer acquisisce indirettamente la forza per compiere le sue gesta omicide. Inoltre il film è basato su una logica di spettacolarizzazione in chiave voyeuristica dei vari delitti a cui la protagonista sarà obbligata ad assistere dopo la sua esibizione sul palco. Famosa al riguardo la scena dell’omicidio di Stefano (il fidanzato di Betty), che la ragazza è costretta a vedere: l’assassino infatti le ha applicato degli spilloni sotto le palpebre che le impediscono di chiudere gli occhi (un chiaro rimando ad Arancia Meccanica). Volendo fare un’analogia con Profondo rosso, anche in Opera il teatro si configura come la cornice occasionale del trauma scatenante: questa volta però l’omicida (celato nei panni del commissario di polizia Alan Santini) non è un bambino psicologicamente disturbato, ma un adulto che aveva avuto nel passato recente una relazione malata, basata su un rapporto di sesso e sadismo con la madre della protagonista del film (e del Macbeth). Assistendo allo spettacolo teatrale egli rivede in Betty sua madre; sarà probabilmente questa associazione mentale che riattiverà nell’assassino un istinto omicida apparentemente sepolto, che lo porterà a scatenare sulla ragazza il suo perverso metodo punitivo, costringendola a diventare una voyeuse di tutti i suoi crimini. Torna dunque il motivo dello sguardo, che si declina stavolta in termini di shock visivo: Betty infatti viene legata e obbligata, da una fila di aghi posizionati sotto agli occhi, a vedere e quindi partecipare inerme all’esecuzione dei delitti. Diversamente dagli altri film di Argento in cui il testimone oculare viene ingannato o confuso da dettagli che avrebbe dovuto vedere fin da subito poiché vengono inquadrati ma subito dimenticati, in Opera succede l’opposto: alla protagonista non viene concesso nessun tipo di esitazione dello sguardo in quanto, pur non vedendo in faccia l’assassino, è costretta a vedere le atrocità che egli compie. Questo tipo di inquadrature avrebbe una doppia valenza: da un lato è presente un aspetto voyeuristico, dall’altro emerge una dimensione pervertita di sessualità. Seguendo questo ragionamento leggiamo le parole Paolo Russo: In chiave psicanalitica freudiana, insomma, il rapporto spettatoriale verrebbe definito sia in termini di voyeurismo sadico che di feticismo scopofilico grazie al quale lo spettatore maschio riesce a controllare, a dominare la paura della castrazione rappresentata dalla donna: nel caso specifico dello slasher, l’uso di armi da taglio assume allora una doppia valenza, sia per la simbologia fallica e la capacità di penetrazione nel corpo della vittima, sia per la evidente minaccia castrante che esse rappresentano .  In conclusione, possiamo dire che il teatro in Opera diventa non solo il luogo dove i meccanismi di rimozione del trauma si inceppano determinando la riemersione di un ricordo terribile – il colpevole infatti, vedendo Betty e dunque, di rimando, la madre pervertita sente il desiderio di vendicarsi – ma anche una sorta di palazzo di giustizia, un luogo all’interno del quale il colpevole verrà identificato, condannato e punito per tutti i suoi delitti. Rapporto di specularità nel segno del teatro, perché in qualche modo anche nel Macbeth i meccanismi di rimozione del delitto non funzionano bene; come alla fine Lady Macbeth è costretta a fronteggiare le proprie colpe anche qui il colpevole viene punito dai corvi. Il corvo ha un significato particolare, come ci spiega Ottavio Bosco in un articolo pubblicato a ottobre 2015: poiché il corvo si ciba anche di cadaveri di animali e di uomini, spesse volte cavando gli occhi dalle orbite è stato associato alla morte e al male . È interessante notare inoltre come in Opera il ruolo di preminenza dello sguardo sia assegnato ad un animale anziché all’assassino o al testimone. Numerosi sono infatti i primi piani sui globi oculari dei corvi, che grazie alla loro memoria riescono ad identificare e punire il colpevole seduto in sala strappandogli un occhio. Viene così assegnato a questo animale un ruolo di giudice, caratteristica che sconfina dal mondo animale a quello umano. Una scena analoga a quella appena descritta avviene nell’Uccello dalle piume di cristallo, in cui sarà proprio il gracchiare di un uccello rarissimo, intercettato durante una telefonata fatta dall’assassino a Sam Dalmas, che consentirà alla polizia l’individuazione della casa del killer, situata in prossimità dello zoo dove viveva questo animale. L’idea di spazio come entità geografica viene pertanto erosa e riconfigurata. Il luogo va letto e interpretato come uno strumento in grado di produrre un’esperienza e dunque una significazione, diventando così un’estensione dello stato d’animo del protagonista o una rappresentazione fisica, ma in termini architettonici, dell’angoscia o del Male. Questo è possibile in quanto il cinema, come ben sottolinea Andrea Minuz, ha la capacità di inventare luoghi e spazi:  Ciò è evidente, ad esempio, nei mondi artificiali del genere fantasy ma vale tuttavia anche per città, strade, paesaggi naturali, che sono sempre assemblati dal linguaggio cinematografico in una forma altra rispetto all’esistente . I luoghi del cinema di Argento sono come prima cosa frammentati, privi di centro. Numerosi sono gli esempi, come vedremo in specie per i primi film, in cui lo spettatore avverte una sensazione di disorientamento spaziale. Un  argomento che ho preso in considerazione sarà inoltre quello legato al tema del doppio, inteso come il moltiplicarsi di una stessa realtà. In tal senso vedremo come nei luoghi argentiani si produca, attraverso diverse soluzioni di stile, una dicotomia basata principalmente sulla distinzione tra bene e male, razionale e irrazionale. Questo tema comincerà a svilupparsi a partire dalla seconda stagione cinematografica di Argento, quando lo spazio inizia ad assumere connotazioni più psicologiche. Il luogo per antonomasia dove si produce questa mescolanza tra apparenza e realtà è la casa, che rappresenta dunque l’ambiente più importante e ricorrente nella produzione cinematografica di Argento. Vedremo come questo spazio della quotidianità domestica diventa, per citare le parole di Marc Augé, un non-luogo dove il senso di sicurezza che dovrebbe offrire cede il passo a una violenza che diventa endemica e devastante. Questa, dunque, è anche una tesi che nasce nel segno del giallo, del thriller, e dell’horror, tre generi che si fondono e confondono lungo tutta la cinematografia argentiana. Definito più volte dalla critica italiana ed estera come il Maestro dell’horror, Dario Argento ha la capacità di farci entrare nel terrore senza la necessità di ricorrere all’uso smodato di effetti speciali o alla tentazione di ripiegare nella soluzione stilistica, facile quanto banale, di scene splatter, che pur presenti in tutta la sua filmografia, non sono determinanti nel suscitare la suspense dello spettatore. L’inquietudine e la sorpresa, nei suoi film, vengono prodotte attraverso il ricorso a un repertorio iconico fatto di inquadrature estreme, eccessivamente ravvicinate o volutamente distorte, che combinate alla musica (o alla sua assenza) e ad un’intensità espressiva del colore fanno nascere in modo del tutto naturale un senso di angoscia e pericolo imminenti. La mostra è accompagnata da un catalogo riccamente illustrato, pubblicato da Silvana Editoriale, contenente una intervista esclusiva a Dario Argento realizzata dai curatori che ripercorre tutte le tappe della sua carriera. Molti i materiali inediti, tra cui i saggi di Mick Garris, Domenico De Gaetano, Marcello Garofalo, Stefano Della Casa, Piera Detassis, Roberto Pugliese, Alan Jones, Domenico Monetti e le testimonianze di Stefania Casini, Franco Bellomo, Luigi Cozzi, Claudio Simonetti, Sergio Stivaletti, Luciano Tovoli, Antonello Geleng, Pupi Oggiano. Completano il volume i fotogrammi tematici di Grazia Paganelli, Matteo Pollone, Fabio Pezzetti Tonion, una dettagliata biografia e le schede di tutti i suoi film.

Biografia  di Dario Argento  

Nasce a Roma il 7 settembre del 1940, figlio del produttore cinematografico Salvatore Argento e di Elda Luxardo. Nel 1969 Argento crea con il padre la società di produzione S.E.D.A. SPETTACOLI e debutta alla regia con L’uccello dalle piume di cristallo, film che contiene diversi elementi che svilupperà nelle opere successive e che contribuiranno a delineare il suo stile. Dirige nel 1971 Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, giallo-horror nel quale sperimenta tecniche innovative di ripresa. Nel 1975 esce Profondo rosso, punto d’arrivo di un complesso percorso di sperimentazione. Debutta nell’horror con Suspiria e negli anni ’80 alterna horror e thriller: Inferno, Tenebre, Phenomena e Opera. Seguono Trauma, La sindrome di Stendhal e il remake de Il Fantasma dell’Opera. Dopo i thriller Non ho sonno e Il Cartaio, nel 2007 dirige La terza madre, capitolo finale della Trilogia delle Tre Madri. Nel 2012 presenta Dracula 3D al Festival di Cannes. L’11 febbraio 2022 ha presentato il suo 24esimo film, Occhiali neri, al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nella sezione Special Gala. Argento ha ricevuto il Premio Speciale alla carriera ai David di Donatello (2019) e il Premio Bianchi alla carriera alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2020).

Museo Nazionale del Cinema – Mole Antonelliana Torino

Dario Argento – The Exhibit

dal 6 Aprile 2022 al 16 Gennaio 2023

Lunedì  dalle ore 9.00 alle ore 16.00

Mercoledì , Giovedì  e Domenica dalle ore 9.00 alle ore 20.00

Venerdì e Sabato dalle ore 9.00 alle ore 21.00

Martedì Chiuso

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📍Buenos Aires 326- Neuquén 📍Alem 853 – Cipolletti 🕢 Horario de atención en Cipo: Lunes a Viernes de 10 a 13 y de 16:30 hasta que no haya más pan! 🕢Horario de atención en Neuquén: Lunes a Viernes de 10 a 14 y de 16 hasta que no haya más pan! Sábados de 10 a 13 únicamente (en los dos locales)

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