in mostra all’ all’Auditorium Parco della Musica di Roma
Giovanni Cardone
Fino al 29 Giugno 2022 si potrà ammirare all’Auditorium Parco della Musica di Roma la mostra Vittorio Gassman. Il Centenario a cura di Alessandro Nicosia, Diletta d’Andrea Gassmann e Alessandro Gassmann. La mostra è organizzata da C. O. R. Creare Organizzare Realizzare e promossa da Eredi Gassman e Fondazione Musica per Roma, con Roma Capitale, Regione Lazio, Comune di Genova e Palazzo Ducale, sostenuta da Luce Cinecittà, Centro Sperimentale di Cinematografia, con il patrocinio di RAI e la collaborazione di Zètema Progetto Cultura e Terna. Si ringrazia l’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, la SIAE Società Italiana degli Autori e degli Editori il catalogo della mostra Skira Editore lo sponsor Tecnico BIG Broker Insurance Group – Ciaccio Arte. Celebrare il centenario di Vittorio Gassman attraverso una grande mostra, la prima che a lui sia mai stata dedicata, significa rendere omaggio a un protagonista dello spettacolo e della cultura, un gigante del Novecento profondamente radicato nell’immaginario collettivo, uno dei personaggi italiani più amati dal pubblico. Campione di talento, versatilità, perfezionismo maniacale e carisma, Vittorio Gassman è stato attore, regista, scrittore, maestro, innovatore dotato di una cultura smisurata, eccellente tanto sul versante drammatico quanto nella commedia. La sua è stata una carriera eclettica in grado di spaziare tra cinema, teatro, tv, poesia. Rendendo possibile il miracolo di cui sono capaci solo i grandi: coniugare la cultura alta con lo spettacolo popolare. Come afferma Roberto Gualtieri Sindaco di Roma: “ Portamento elegante e austero, fascino magnetico, voce altisonante e inconfondibile: Vittorio Gassman è stato tra i maggiori protagonisti del teatro e del cinema italiano e internazionale del Novecento profondamente radicato nel nostro ricordo collettivo come campione di talento artistico, perfezionismo, versatilità e carisma. Romano di adozione, al punto tale da conquistarsi una doppia targa stradale nelle vie della capitale, ha vissuto la sua vita da vero protagonista della scena. Sono particolarmente felice di celebrare “questo” anniversario, il centenario della sua nascita, con una grande mostra monografica, la prima che gli sia mai stata dedicata, per ricordare a Roma il percorso umano e artistico di un uomo di cultura e di spettacolo, attraverso materiali privati e inediti, immagini, e oggetti personali che ne raccontano in modo dettagliato la vita, le scelte artistiche, le vittorie, ma anche i dubbi amletici e i tarli dell’anima. Per questo, come Sindaco della Capitale, voglio ringraziare Diletta d’Andrea, Alessandro Gassmann e Alessandro Nicosia, curatori della mostra. Così riscopriremo il suo tratto istrionico, che gli permise di interpretare ruoli molto diversi: dal seducente e pericoloso villain di Riso amaro, opera maestra del neorealismo, oppure dei film diretti da Dino Risi, con cui strinse un sodalizio artistico e umano che ha fatto nascere alcuni tra i grandi capolavori del cinema italiano, come Il mattatore, Il sorpasso, I mostri, Il tigre, oppure Profumo di donna; a Peppe er Pantera de I soliti ignoti di Mario Monicelli; al protagonista uomo comune de La Grande guerra, dello stesso regista; ai personaggi più maturi che gli avrebbe regalato Ettore Scola, suo complice in tutto l’itinerario della sua maturità, da C’eravamo tanto amati a La famiglia. Vittorio Gassman, artista poliedrico, è stato non solo un attore ma anche un regista, uno scrittore, un doppiatore, un conduttore televisivo, un atleta, un innovatore, un maestro di recitazione e di teatro, la sua grande passione. Dal 1979 al 1991 diresse personalmente una scuola di recitazione, la Bottega Teatrale, in cui si formarono tanti giovani interpreti. Chiuderà la carriera là dove l’aveva cominciata, sul palcoscenico, tra l’intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile lettura della Divina Commedia e l’imponente allestimento all’aperto di Ulisse e la balena bianca, una sorta di testamento artistico ed esistenziale. E ancora una volta, con questa mostra che verrà ospitata negli spazi espositivi dell’Auditorium Ennio Morricone di Roma, come un dio greco quale era, Vittorio Gassman ruberà tutta la scena.” Oltre mille metri quadri espositivi per raccontare l’attore, il regista, lo scrittore, il maestro. Attraverso materiali privati inediti e testimonianze professionali, immagini e materiali audiovisivi di prima mano, curiosità e oggetti personali, la mostra ripercorre l’intera parabola umana e artistica di Gassman che per tutta la vita inseguì l’eccellenza in tutti i campi, compreso lo sport. E racconta nei dettagli la sua carriera, la famiglia, le donne, i figli, le utopie, i premi, i trionfi e le criticità, mai nascoste ma vissute dall’attore come tappe, sia pure dolorose, del proprio percorso. Il pubblico, che ha amato tanto il protagonista de I Soliti ignoti quanto l’impareggiabile interprete di Shakespeare, incontrerà il “Mattatore” negli anni gloriosi dell’Accademia d’Arte Drammatica, ripercorrerà i suoi inizi nei teatri milanesi, il lavoro prestigioso nella compagnia di Luchino Visconti. E il successo ottenuto nel cinema quando, insieme con Alberto Sordi, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi tra gli anni Sessanta e Ottanta sarebbe stato uno degli attori più popolari e più amati, un “colonnello della risata” capace di assicurare i massimi incassi nell’epoca d’oro in cui la commedia teneva in piedi l’industria. La mostra è il racconto di questo grande artista che parte dai momenti più importanti della sua vita privata – attraverso foto inedite e numerosissimi oggetti e prosegue con il teatro dove vengono presentate diverse importanti pièce a fare da guida nella sua immensa attività teatrale. Tra i tanti materiali di scena, primo fra tutti il grande cavallo di legno di Mario Ceroli realizzato per il memorabile Riccardo III di Luca Ronconi. Sorprenderà rivedere dal vivo la mitica auto Lancia Aurelia B24S del Sorpasso, e sentire il suo inconfondibile clacson risuonare con le immagini che scorreranno dietro, facendo rivivere i momenti più significativi del film di Dino Risi che quest’anno compie sessanta anni: culmine della sezione dedicata al cinema, dove il visitatore – attraverso le immagini e tanti oggetti – può ripercorrere le tappe più significative di una carriera lunga 130 film che lo vedono protagonista E ancora: la Tv, con gli spettacoli televisivi che sono rimasti nella storia, e la sezione dedicata alla sua passione per la poesia che non smette mai di celebrare in teatro e in tv e la letteratura, culminata nell’autobiografia Un grande avvenire dietro le spalle. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Vittorio Gassman apro il mio saggio dicendo: Vittorio Gassman conosceva bene le origini della parola attore, e nel contempo è necessario per comprendere fino in fondo la sfumatura, il significato che essa comporta, influisce sul contesto culturale, storico e politico di un’epoca. Il termine generico che dipinge l’attore, inteso sia nella commedia, komoidos, che nella tragedia, tragidos, nella sua origine greca è hypocrites ovvero: colui che risponde ed interpreta. Il verbo da cui ha origine è krino che tradotto significa distinguere-giudicare-decidere. La parola attore, appare già nel 161 a.C. nel prologo del Phormio terenziano; tuttavia va riportata un’affermazione di Cicerone in cui specifica che la definizione più confacente al ruolo di questo genere di figura è l’Orator. Quest’idea è confermata anche nel secondo trattato dell’arte della tecnica oratoria ed in particolare modo viene esplicato nel testo De Oratore. Cicerone assume il titolo di inventore del mito dell’espressività dell’attore legata alla capacità degli occhi di comunicare. Il primo significato di actor risulta quindi come colui che agisce o colui che compie un’azione. Le rappresentazioni teatrali anticamente avevano uno scopo religioso e politico dove era possibile dare una certa rilevanza alla vita pubblica dei capi dello stato senza trascurare il popolo e usare allo stesso tempo la macchina teatrale come mezzo di propagazione di ideali, di preghiere, di miti e racconti con una funzione didascalica era un sistema pratico di sensibilizzazione della civiltà ai valori della cultura e della società dal punto di vista etico ed estetico. Attorno al XIII secolo c’è un cambiamento nella forma mentis della società, infatti se inizialmente essere un attore vuol dire avere una buona considerazione da parte del popolo e del pubblico, con il Medioevo questa rispettabilità viene a mancare. La figura dell’attore svanisce rimanendo una semplice citazione all’interno di testi e codici miniati diventando una testimonianza storico culturale, infatti, l’unico aspetto che la società Medievale mantiene in vita, nei confronti del teatro, è legato al mimo. La Chiesa inizialmente critica questo genere di espressione artistica perché diventa l’emblema del peccato e causa di perdizione, sebbene, in un secondo momento decida di usare questo metodo di comunicazione, la recitazione, come strumento di propagazione di massa per convertire gli animi dei fedeli. In Francia, il termine per definire colui che recita un’azione drammatica, ha la caratteristica di essere dualistico poiché si esprime tramite il binomio commedien-acteur. L’ipotesi del perché di quest’ambivalenza è collegata, nella tradizione, alla figura di Moliere e al suo lavoro sia di attore che di autore della Commedie-Francaise. Il termine physique du rôle, ad esempio, serve a descrive il ruolo, emploi, che più si addice ad un dato attore in base alla parte che deve rappresentare, viene anche riassunto con la definizione di principio di tipizzazione in cui un teatrante è libero di scegliere o accettare quelle parti che meglio si adattano alla sua personalità e alla sua prestanza fisica. Nel Settecento uno dei problemi più comuni del linguaggio teatrale è generato dalla difficoltà di esprimere con la giusta empatia l’impeto delle emozioni e degli stati d’animo tipici del Romanticismo, bastì pensare che in quegli anni nasce la poetica del Sublime, in Francia, Inghilterra e Germina. La recitazione subisce un cambiamento, si fa più articolata ed introspettiva, prevalgono gli sfoghi e gli ardori dettati dal turbinio delle emozioni, e, come diretta conseguenze, anche la qualità delle rappresentazioni scenografiche e della costumista subiscono delle variazioni di forma e di stile, ricorda, per l’appunto, Francois-Joseph Talma. Nell’Ottocento, invece, gli attori incarnano il personaggio cercando di personificare se stessi ed il proprio io sul palco in modo da poter ottenere una maggior veridicità nella messa in scena. Questa tendenza trova conferma in una lettera che Eleonora Duse indirizza al marchese d’Arcais, in cui descrive il suo rapporto nei confronti dei personaggi che si trova ad impersonare. Si comprende come Eleonora Duse in questo caso sia per compassione che per affetto, si identifichi nelle donne che rappresenta come se le vicissitudini che segnano le sue protagoniste siano state anche i suoi dolori e i suoi problemi. L’attore, quindi, tende ad immedesimarsi fino a confondersi con il personaggio che deve portare sulle scene. Jouvet per riuscire ad eliminare il dualismo del termine attore cerca di porre una “sfumatura lessicale” grazie alla quale la parola acteur indichi colui che ha sia la capacità che l’abilità di personificare solo alcune parti che si dimostrano confacenti alla psicologia dell’attore in quanto tale e allo stesso tempo, la figura del commedien viene abilitata per interpretare ogni ruolo senza eccezioni. Per questo motivo il commedien può immedesimarsi in ogni personaggio che appare nella scena . In Inghilterra il termine actor compare già nell’Amleto di William Shakespeare, Polonio parla ad Amleto e dice: “The actors are more hither, my lord” . Nella lingua inglese i vocaboli utilizzati sono: actor e player. Il sostantivo del verbo to play, nonché sinonimo di actor, indica, alla prima voce, il verbo giocare e di conseguenza player sta a specificare il fare di colui che gioca e allo stesso tempo suona e si muove. Nel vocabolario tedesco, invece, il sostantivo che indica la parola attore è schauspieler, il prefisso del termine è schauen che tradotto vuol dire guardare, pertanto in tedesco l’attore è inteso come colui che viene guardato. E’ interessante sottolineare anche la composizione della parola teatro, in tedesco: schauspielhaus che tradotto in lingua italiana è dato dalla somma delle parole guardare, gioco e casa. Se le rappresentazioni teatrali anticamente avevano uno scopo religioso e politico dove era possibile dare una certa rilevanza alla vita pubblica dei capi dello stato senza mai trascurare il popolo e allo stesso tempo usare la macchina teatrale come mezzo di comunicazione nell’Ottocento e poi nel Novecento il ruolo dell’attore cambia. L’evoluzione storica porta con sé nuovi ideali e nuove forme di moralità di cui i teatri si fanno portavoce in una nuova visione del mondo. Superato lo sfarzo barocco con i suoi giochi di luci e di illusioni ottiche in cui la vita è descritta come una favola dorata, si passa ad una rappresentazione del dato reale come esso si mostra nella quotidianità. La vita che viene descritta è quella di tutti i giorni dal punto di vista di ricchi, poveri o borghesi. Questo è il periodo del Naturalismo di Emile Zolà e del Verismo di Giovanni Verga .
Il naturalismo teatrale vede l’attore non come un artista, ma come un artigiano. Andrè Antoine , dopo aver contribuito alla creazione del Theatre Libre , spiega in una lettera per l’attore Le Bargy, come deve essere concepita l’evoluzione e la pratica della recita: l’interpretazione che egli si appresta a compiere deve essere come il lavoro che mette in atto un buon artigiano. Per Andrè Antonie l’unica forma di interpretazione che un attore può dare ad un testo scritto è basata sulla percezione che l’uomo ha della realtà. La recitazione per Stanislavskij consiste nel montaggio psicologico, ricorda una sequenza filmica, in cui l’agire fisico, i movimenti e le espressioni sono proprie dell’attore in quanto ri-vive e ri-nasce. L’attore inizia a muoversi e a comportarsi come se fosse protagonista all’interno di un’altra realtà, di un’altra quotidianità che è diversa da quella che invece vive e percepisce lo spettatore dalla platea. In questa situazione l’attore rinascendo e conformandosi in una realtà che è altra dalla vita di tutti i giorni, si fa creatore di un nuovo personaggio, assumendo il ruolo dell’artista e non più del semplice artigiano che si immedesima e impara le battute come un burattino. Stanislavskij elabora una critica nei confronti della recitazione di routine in cui non vengono plasmati i personaggi secondo il sentire personale di un attore, ma ci si limita ad eseguire delle tecniche prestabilite, dei clichè. Egli sottolinea che l’abilità di chi recita sta nella sua capacità empatica di entrare nel ruolo che viene descritto nel copione. Bisogna riconoscere il vero che viene proposto nella scena oltre ad avere una fervida immaginazione da parte di chi interpreta. Al teatrante è richiesta anche molta attenzione e una buona capacità di osservazione in cui l’elemento base è la memoria emotiva; essa è evocabile grazie all’uso dei cinque sensi. Nel libro Il lavoro dell’attore sul personaggio, Kostantin Stanislaskij usa un linguaggio tecnico e cerca di dare una definizione psicoanalitica dell’arte della recitazione specificando come il personaggio per essere creato debba seguire quattro fasi: conoscenza, reviviscenza, personificazione e forza comunicativa . Jacques Copeau , analogamente a Stanislavskij lavora per riuscire a svecchiare la tecnica di recitazione tradizionale tipica del Conservatoire proponendo un ideale di attore inteso come uomo-personaggio il cui corpo in movimento, all’interno di uno spazio circoscritto, diventi il cuore della rappresentazione teatrale. Per Copeau il dramma è il farsi di un’azione di cui l’interprete deve conoscere ogni singolo movimento, come un artigiano conosce ogni dettaglio della tecnica che usa per svolgere al meglio il proprio mestiere. A questo scopo Copeau nel 1913 inaugura il teatro Vieux Colombiers, con annessa una scuola di recitazione, l’École du Vieux Colombier, in cui ipotizza una formazione totale che oltre ad includere lo studio della cultura generale, propone l’approfondimento di varie discipline come la musica, la ginnastica, il mimo e l’uso di maschere. Due figure rilevanti all’interno di questo contesto storico sono Adolphe Appia e Gordon Craig. Dal punto di vista di Adolphe Appia l’attore posto nel centro della scena segue l’essenza della musica che domina e plasma lo spazio grazie ai movimenti e alla dinamicità del corpo dell’interprete. Appia assiste alla rivoluzione operata da Richard Wagner nei confronti della configurazione interna dell’edificio teatrale dove l’orchestra non è più posta in bella vista, ma seminascosta sotto il palcoscenico e la sala non è più illuminata durante la rappresentazione, ma è lasciata al buio in modo tale che lo spettatore non abbia fonti di distrazione e si ritrovi completamente immerso nella scena che gli si pone davanti. Appia, tuttavia, pur conscio di questa evoluzione, sente che la rivoluzione dell’edificio teatrale non è del tutto completa poiché nota una forte discrepanza tra la scenografia bidimensionale, con i fondali dipinti in prospettiva, e la fisicità tridimensionale dell’attore che recita sul palcoscenico. Tenendo conto dell’evoluzione della tecnologia e dell’impianto illuminotecnico presente anche nei teatri, Appia intuisce che tramite l’uso della corrente elettrica si può creare un gioco di luce ed ombra atto a coinvolgere maggiormente il pubblico all’interno della messa in scena. Le scenografie che decide di elaborare sono semplici e basate su pochi elementi che richiamano la tridimensionalità e la profondità del palco dove protagonista è la luce usata per evocare emozioni e atmosfere coinvolgenti.




Appia, non dimentico di Wagner, ripropone all’interno del dramma l’uso del suono e della musica, oltre che dell’energia elettrica. La musicalità deve scandire il tempo della scena creando il ritmo che in parallelo alla gestualità dell’attore permette di dare vita allo spettacolo. La musica si trasforma in una sorta di principio ordinatore e si crea un binomio tra espressione e significato, tra dramma musicale e dramma di parole. In quest’ambiente la figura dell’interprete assurge ad una funzione mediatica, tra l’opera nella sua temporalità e spazialità, in cui si ritrova subordinato a queste due facoltà. Adolphe Appia parla della gestualità di colui che recita e lo esplica dicendo: “I gesti e i movimenti non hanno senso che quando sono sostenuti dal contenuto di un testo, sia come la semplice constatazione di una situazione materiale, sia come il risultato significativo dell’intima sofferenza del personaggio” . La messa in scena si basa sulla musica, scrive Adolphe Appia: “La nostra vita interiore dà dunque alla musica la forma cui la musica esprime questa vita. Ogni contraddizione cessa nell’istante in cui la forma e l’oggetto dell’espressione sono identici” . E’ basilare che drammaturgo e musico si pongano uno davanti all’altro per discutere sulla creazione di un nuovo linguaggio. Il dramma permette alla musica di prendere vita e viceversa, l’uno non esiste senza l’altro. Nella pantomima il problema del rapporto tra queste due arti è meno evidente per il fatto che l’attore nel palco non parla e la narrazione è scandita dal pentagramma musicale e dall’orchestra, un po’ come accade nel cinema muto delle origini in cui nella sequenza filmica la voce dei protagonisti è data dalle note di un pianoforte capace di suscitare ilarità o suspance in base alla situazione rappresentata . Gordon Craig, sulla scia di quanto detto fino ad ora, si focalizza sulla danza all’interno dello spettacolo. Inizialmente si ispira allo stile della danzatrice Isadora Duncan , ipotizzando un teatro di movimento. Per Gordon Craig quello che fino a poco prima era descritto come apparato scenico, attore e dramma devono evolversi e trasformarsi in scena, azione e voce. La scenografia perde di valore e non deve più essere dettagliata perché andrebbe a distrarre lo spettatore dal movimento delle comparse sul palco. I protagonisti si trasformano in super marionette che scandiscono, prive di soggetto e personalità, l’azione nella scena . Nel 1930 Bertold Brecht parla della teatralità come il sinonimo della comunicazione ed in particolare modo si concentra nella rappresentazione dei segni non nell’espressione delle emozioni. Colui che recita deve riuscire ad osservare il personaggio che interpreta come se fosse esterno a se stesso, come se ne fosse estraniato, riuscendo a ricreare diverse prospettive e punti di vista che in genere vengono analizzati singolarmente. Bertoldo Brecht elabora un Breviario di estetica teatrale che pone come appendice all’interno del testo: Scritti Teatrali. In questo breviario, Brecht, critica la scena naturalista e la falsa mimesi creata dalla situazione sociale. Similmente Antoine Artaud concepisce l’idea della messa in scena non come una realtà utopica, visionaria o irreale, ma come un’altra sfaccettatura della visione della quotidianità. Parla di azioni presenti che si trovano ad essere tangenti le une con le altre, di conseguenza i gesti, concreti o simbolici, sono visti allo stesso modo come atti attivi e palpabili. Va sottolineato che, secondo Antoine Artaud, la società attuale vive una forma implicita di demoralizzazione poiché la cultura non è mai stata in grado di coincidere con il tempo presente della vita e della quotidianità. L’erudizione non è riuscita a salvare nessuno spirito dall’ansia della ricerca di una qualità di vita migliore. Nel Novecento, si assiste ad una frattura che abbraccia i vari campi dell’esperienza e dell’essere; confusione legata alle parole, alle idee ed ai segni, dove secondo l’autore diventa necessaria la ricerca di una nuova forma di conoscenza che deve farsi portavoce di una protesta in cui l’azione pratica riesca a trasformarsi in noi e diventi un nuovo modo di vivere. Artaud elabora, nel 1930, una proposta per il teatro soprannominandolo il Teatro della crudeltà : “Per questo propongo un teatro della crudeltà intesa la terribile e necessaria che le cose possono esercitare su di noi, noi non siamo liberi e il cielo può sempre cadere sulla mostra testa” . Con il termine “crudeltà” l’autore intende la fatica ed i sacrifici che sono necessari per la buona riuscita dello spettacolo. Il problema va cercato nell’eccessivo valore che viene attribuito al testo scritto, che vincola la messa in scena e lo svolgersi della narrazione. Artaud pone l’ipotesi di riuscire a mettere sullo stesso livello le molteplici forme di linguaggio riuscendo a creare un minimo comune denominatore tra gestualità, movimenti, illuminotecnica e comunicazione verbale; tanto che sarà grazie alle sue teorie che in un secondo momento Jerzy Grotowski darà vita al Living Theatre. Nel testo scritto da Artaud, Il teatro e il suo doppio, vengono affrontati nel dettaglio due momenti importanti legati alla sua produzione artistica e alla sua ideologia; da un lato viene riportato il manifesto del Teatro Alfred Jarry con annesso il programma della stagione teatrale del 1926; e dall’altro il manifesto del Teatro della Crudeltà. All’interno del volume sono citati anche i manifesti che ripropongono le influenze che hanno segnato la formazione dell’autore. Artaud si appassiona al genere teatrale esotico come quello cambogiano ed in particolare modo balinese. Di queste forme espressive primitive dette anche delle prime origini ciò che lo affascina maggiormente è la semplicità dei gesti: danza, canto e pantomima fanno sì che la rappresentazione appaia pura e non vincolata dalla parola. I balinesi sono artefici di un linguaggio non verbale in cui ogni posizione mimica è applicabile ad una diversa circostanza che si presenta nella vita. Un altro autore che ha contribuito in modo rilevante alla trasformazione dello spettacolo teatrale è Jerzy Grotowski:“Il teatro non può esistere senza un rapporto diretto e papabile, una comunione di vita fra l’attore e lo spettatore” . Il suo ideale per la formazione di un vero attore è generato dall’intento di giungere alla possibilità di esprimere totalmente il proprio sé interiore senza aver alcun timore di esibire la sensibilità e l’intimità offerte dalla personalità. Come Antoine Artaud anche Jerzy Grotowski, descrive il diverso approccio che la cultura orientale ha nei confronti del teatro, tuttavia, se per Artaud l’Oriente è capace di esprimere un’espressività vera in cui vi è la capacità di descrivere tramite la gestualità emozioni e sentimenti coniugando anche vocalizzi, grida colori in cui le forme riescono ad impossessarsi della scena; l’Occidente, invece, si trova prigioniero della parola ed in particolare modo del testo scritto. Nel Novecento si assiste allo smantellamento della scena all’italiana e alla creazione di nuove soluzioni spaziali e architettoniche confacenti alle esigenze dello spettacolo. Un ruolo di spicco viene assunto dalla regia, la quale racchiude in se l’intera organizzazione e responsabilità dell’esito della rappresentazione. Il protagonismo dell’attore cessa di essere dominante nei confronti della scena poiché viene riutilizzata la maschera, grazie alla quale si ha la possibilità di alterare le sembianze dell’uomo eliminando l’espressività del volto. L’attore assume il ruolo di manichino. Vi è un rifiuto della visione antropocentrica dell’essere umano con la conseguente ricerca di una nuova forma di espressione capace di svincolarsi dal rapporto che sussiste tra linguaggio e quotidianità. Gli autori nel Novecento hanno come obiettivo quello di riuscire a rappresentare la realtà spaziale eliminando l’utilizzo della scena pittorica bidimensionale. Per poter dare vita a nuovi effetti di dinamismo devono servirsi dell’uso del colore e delle rifrazioni della luce, l’illuminotecnica assume così un ruolo di primaria importanza poiché possiede la capacità di rendere determinate cose visibili e di mettere in risalto anche ciò che fino a prima era ritenuto invisibile o di secondaria importanza. Luce e colore uniti alla musica permettono di rendere solido quell’aspetto del teatro che fino a prima era ritenuto immateriale. Il binomio musica-colore è studiato da Achille Ricciardi, promotore del Teatro del Colore, in cui i giochi cromatici permettono alle emozioni di prendere vita ed avere una voce. Analogamente Anton Giulio Bragaglia ipotizza la teoria della luce psicologica dove all’interno di un ambiente le trasfigurazioni sceniche vengono rese attraverso le sfumature e l’intensità luminosa. Questa teoria viene enunciata nel manifesto del 1919: Sinopsie e trasposizioni visive della musica. Achille Ricciardi e Anton Giulio Bragaglia aderiscono all’avanguardia futurista nata nel primo dopoguerra in parallelo al Costruttivismo e all’Espressionismo. Il Futurismo sorge nel 1909 come critica alla cultura ufficiale, alla vita teatrale italiana ed in particolare modo come avversione al teatro di prosa diviso tra riproduzione fotografica e veridicità storica. Filippo Tommaso Marinetti per contrastare la prosa del tempo, pubblica nel 1913 il manifesto del Teatro del Varietà in cui ogni tradizionale tecnica prospettica, unità di tempo, di luogo e di spazio viene abolita.
Con questa nuova espressione teatrale il pubblico viene coinvolto nella scena, gli spettatori agiscono ed interagiscono con gli attori introducendo gli happenings e respingendo ogni residuo barocco legato al quadro scenico e all’azione sul palco. Un successivo manifesto viene reso noto nel 1915, il Teatro sintetico futurista, in cui ciò che conta è evidenziare la realtà che circonda ogni uomo. Le premesse per poterlo mettere in atto sono due: “Porre sulla scena tutte le scoperte per quanto inverosimili, bizzarre antiteatrali che la nostra genialità va facendo nel subcosciente, nelle forze mal definite, nell’astrazione pura, nel record e nella psicofollia” e “sinfonizzare la sensibilità del pubblico, esplorandone, risvegliandone con ogni mezzo le propaggini più pigre; eliminare il preconcetto della ribalta lanciando delle reti di sensazioni tra palcoscenico e pubblico, l’azione scenica invaderà platea e spettacolo” . Nel teatro del XX secolo si ravvisa una continua ricerca di modelli espressivi innovativi in particolare modo si focalizza l’attenzione su nuova figura all’interno del teatro: il regista, che prima affianca e poi supera di importanza le classiche componenti di autore e attore. Negli anni ’60 e ’70 si cerca di liberare l’attore dalle regole della cultura in cui si trova a vivere per permettergli di entrare in contatto con quel lato della personalità che invece risponde alla sua natura istintiva. Il teatro si avvicina per questo motivo alle discipline orientali come lo yoga, le arti marziale e le diverse forme di meditazione. Questo genere di influenza si riscontra nell’Odin Teatret di Eugenio Barba, nel Teatro povero di Jerzy Grotowskij e nel teatro fisico del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Similmente in Italia si ravvisa un cambiamento grazie al lavoro di Eduardo De Filippo, di Dario Fo, di Carmelo Bene e di Leo De Berardinis, ma anche grazie all’impegno di registi come Giorgio Strehler e Luchino Visconti. In Germania è interessante l’apporto di Botho Strauss e Rainer Werner Fassbinder mentre in Francia va citato l’operato di Louis Jouvet. All’inizio del XX secolo il teatro si identifica con il genere borghese e solo grazie all’influenza di Brecht si assiste ad un evoluzione che ha permesso di trasformare le scene teatrali in scene per uno spettacolo popolare. Un altro mutamento che si osserva in questo secolo riguarda il ruolo di alcune menti dello spettacolo; ad esempio con Luigi Pirandello, Eugenè Ionesco, Samuel Beckett e Robbie Gennet si parla di regno dell’autore, mentre con Kostantin Stanislavskij, Vsevolod Mejerchol’d, Erwin Piscator e Bertold Brecht si parla di dominio del regista. Allo stesso modo grazie all’influenza di Antoine Artaud, Jerzy Grotowski e all’ happening americano il regista viene a sua volta detronizzato in favore degli attori quali artefici dello spettacolo. Coloro che recitano parlano mediante il linguaggio del corpo, unico capace di salvarsi all’alienazione imposta agli individui per mano della società. Vittorio Gassman nel 1981 pubblica un’autobiografia intitolata Un grande avvenire dietro alle spalle. Gassman alle origini della sua carriera vuole diventare uno scrittore, al liceo spicca per l’abilità di compositore di versi oltre ad essere predisposto alle materie umanistiche. Per quanto riguarda la sua infanzia, l’attore, racconta spesso delle giornate passate con gli amici nella via per giocare al “circuito”, a pallacanestro e per scrivere poesie, fondano, infatti, un piccolo gruppo poetico, e in quegli anni spensierati gli viene dato il soprannome “dell’artista”. La parola è, per lui, il cuore pulsante della vita infatti oltre alla sua biografia, bisogna citare un altro testo ovvero il romanzo Memorie del sottoscala dove un personaggio inventato rispecchia molto l’autore sia nella descrizione fisica che psicologica. Già dal titolo si vede un chiaro riferimento ad uno dei libri di letteratura che ha accompagnato Vittorio nel corso della sua vita, tanto importante che ha meritato una rappresentazione teatrale nel suo spettacolo DKBC che altro non è che il testo di Fedor Dostoevskij Memorie del sottosuolo. Nel libro Memorie del sottoscala , Gassman mette in luce le paure, i dubbi e le incertezze che affliggo l’animo di un essere umano e parla del difficile rapporto che un padre ha nei confronti dei figli, in relazione alla paura della morte. Un grande avvenire dietro le spalle aiuta l’autore a non sprofondare fino in fondo nella depressione che lo affligge periodicamente e che lo costringe a letto per giornate intere, anzi ripercorrendo le tappe della sua vita, scrivere della sua malattia è un incentivo per poter reagire al male che lo costringe alla passività diventando così una nuova forma di terapia.
Il romanzo inizia con i ricordi di quando l’autore è bambino, l’epilogo del testo lo descrive come un uomo apatico che guarda alla vita da lontano, come uno spettatore quando si siede davanti ad un film. Vittorio nello scrivere il libro si è sentito protagonista di una storia che osserva da un punto di vista esterno i fatti, sebbene il libro è composto a tratti in prima persona e a tratti in terza. Inizialmente l’autore si confronta con la sorella Mary, la quale a sua detta, riesce a svolgere una vita autentica. Mary ha una grande forza di volontà e una volta che ha preso una decisione riesce a portarla avanti con sicurezza a differenza del fratello che si descrive come un ragazzo sempre in balia di situazioni ed eventi esterni che creano le circostanze in cui si trova a vivere e che non è stato lui a decidere. Il primo personaggio che si incontra nel racconto di Gassman è il padre Enrico. Enrico Gassman viene descritto come un “gigante buono”, un uomo molto alto e muscoloso con la voce profonda, un carattere che alternava attimi di collera a momenti di grande amore e tenerezza, un lavoratore instancabile e un amante dello sport. Era molto rigido nell’educazione dei figli e teneva di gran conto la puntualità sia per gli impegni che per l’orario stabilito per i pasti. Gassman ricorda la passione della madre a teatro tanto è vero che nelle domeniche in cui la famiglia era ancora riunita la madre e la sorella Mary andavano a teatro mentre Vittorio e Enrico si dedicavano a delle gite fuori porta o allo sport, in particolare modo alla pallacanestro. Il padre di Vittorio ha sempre spronato il figlio per dare il meglio ed essere il numero uno, doveva distinguersi sia nelle competizioni sportive che nella vita. Non a caso Gassman entrerà nella squadra di pallacanestro per partecipare alle nazionali e anche quando giocherà a tennis si distinguerà subito per essere il migliore in campo. Analogamente questa predisposizione all’agonismo si denota anche nel palcoscenico e a teatro infatti cerca sempre di dare il massimo con assidua dedizione, impegno, serietà e puntualità. Il giorno del provino presso l’Accademia d’Arte Drammatica porta un testo che ha imparato grazie al docente Vladimiro Cajoli al liceo per una recita scolastica radiofonica L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Non è convinto della resa della sua interpretazione e a causa della sua alta statura sul palco alcuni professori membri della commissione e più nello specifico Silvio D’Amico, Orazio Costa, Nera Carini, Wanda Capodoglio e Mario Pelosini muovono un’obiezione ad ammetterlo ai corsi poiché pensano a: “Come potrà mai fare l’attore, quello spilungone, accanto a prime donne come l’Adani, la Pagnani, la Merlini?. Dubbio legittimo la scena di allora era dominata da illustri signore di bassa statura” . Entra all’Accademia è grazie all’aiuto e all’insistenza di uno dei suoi futuri docenti; Guido Salvini. L’Accademia d’Arte Drammatica viene fondata a Roma nel 1924, inizialmente l’edificio è collegato all’Accademia di Santa Cecilia. L’obiettivo primario di questa nuova scuola di recitazione drammatica è di poter insegnare al maggiore numero di allievi possibile non solo originari della città romana ma anche provenienti da altri paesi dell’Italia, grazie a questo proposito viene aggiunto il vocabolo “nazionale” al nome della scuola e l’insegnamento è rivolto a tutto il popolo italiano per rinnovare la scena teatrale italiana. Il regolamento prevede che agli allievi dotati di maggiore talento e di minore indipendenza economica venga assegnata una borsa di studio con un compenso di quattrocento lire mensili, ne vengono offerte ventiquattro da parte dello Stato ed infatti Gassman quando viene ammesso ai corsi ottiene una di queste borse grazie alla quale riesce a contribuire alle spese di famiglia dato che la madre lavora a tempo pieno per mantenere i due figli dopo essere rimasta vedova. Gassman ricorda i due anni passati all’Accademia come l’avventura in un’isola felice che è durata per l’arco di tempo di un giorno. Qui in Accademia incontra degli amici che lo accompagneranno per il resto della sua vita, insieme fonderanno il “Gruppo”. Il club era formato da Luigi Squarzina, Luciano Salce, Adolfo Cieli, Carlo Mazzarela, Nino Dal Fabbro, Vittorio Caprioli, Alberto D’Arversa, Umberto Magaloli e Neri Mazzotti. Ogni sera dopo le lezioni si ritrovano a casa dell’uno o dell’altro per discutere delle cose imparate, delle migliorie che possono essere fatte, di testi scritti o romanzi letti, mettono le basi per la loro cultura drammatica e teatrale.
Nessuno di questi giovani uomini è attratto dalla politica o dalla situazione sociale di quegli anni, anzi ne sono completamente estranei, l’unica remora che aleggia nell’aria è data dalla possibilità di essere reclutati per il periodo di leva nell’esercito durante il fascismo. Paure che si consolidano nel 1943 quando il “Gruppo” è costretto a dividersi per svolgere il servizio militare. A questo proposito Vittorio ricorda i primi incontri con la futura moglie Nora Ricci che lo prende in giro per via della sua voce troppo nasale. Nora Ricci gli diceva poi:“Lungo come sei devi curare il gesto, sembra che le mani ti diano d’impiccio” . Gassman per poter modificare la sua voce si concentra sulla respirazione addominale, applicando una rigida disciplina riesce a controllare l’emissione del fiato e a cambiare l’inflessione, il tono e la scansione delle parole, riesce a modificare la sua dizione. Nell’agosto del 1943 Vittorio, prematuro rispetto ai suoi compagni dell’Accademia, decide di interrompere gli studi per seguire la compagnia di Alda Borelli a Milano nello spettacolo La nemica di Niccodemi, l’opportunità di prendervi parte è nata dal fatto che il giovane primo attore Giovanni Agus litiga con la protagonista e a causa di alcune divergenze si allontana dalla compagnia. Gassman riporta questo episodio all’interno della sua autobiografia. Un’altra figura di spicco per la sua prima formazione sulle scene di teatro è quella di Elsa Merlini e successivamente quella di Laura Adani con la quale lavora per due anni all’interno della compagnia teatrale composta anche da Ernesto Calindri e Tino Carraro. Per l’attore sono anni molto formativi, quasi come una palestra in cui impratichirsi per migliorare se stesso. In questi due anni Vittorio si concentra molto sul suo modo di scandire le parole, inoltre trae beneficio dal fatto di poter lavorare per un lungo periodo di tempo con le stesse persone. La compagnia a Milano diventa famosa e per questo gli attori sono costretti a lavorare con un ritmo frenetico a più spettacoli, mettono in scena una commedia a settimana ed iniziano a calarsi nei panni di personaggi precostituiti ad esempio Gassman interpreta spesso la parte del ragazzo innamorato o dell’atleta sportivo, Calindri inscena l’uomo in carriera dedito al suo lavoro, molto serio e solitamente ricco, mentre Carraro è il principe romantico o marito in difficoltà. Un trucco che questi attori utilizzano è dato dall’improvvisazione cercando di coinvolgere il pubblico come un membro dello staff che ha la possibilità di spiare il dietro le quinte. Con il periodo della carriera milanese dell’attore coincide anche il suo primo matrimonio con la giovane Nora Ricci da cui nasce la figlia Paola. I ricordi di Paola Gassman nei confronti del padre sono raccolti in un suo libro Una grande famiglia dietro le spalle. Il matrimonio tuttavia ha breve durata e nel momento in cui Gassman si trova in America per lavoro incontra Shelly Winters. La diva di Hollywood gli viene presentata inizialmente in Italia al Teatro Valle, successivamente, a Hollywood Drive inizia la loro relazione amorosa che culmina con un’unione matrimoniale e con la nascita della sua seconda figlia Vittoria, il 14 marzo 1954. Dei primi anni in America Gassman ha ricordi dissonanti perché non conoscendo bene la lingua inizialmente si trova confinato in un angolo senza poter interagire con nessuno o quasi. Grazie a Shellly Winters viene scritturato come attore per alcuni film minori che non si riveleranno un successo. Inizialmente, Vittorio, viene doppiato, per lui recitare in una lingua diversa dalla sua è una pratica mentale più che fisica e questo sforzo nello sdoppiarsi in due fa in modo che anche la sua interpretazione risenta poichè, come esso stesso afferma, recitare in inglese gli causa un senso di spaesamento come se fosse un altro se stesso che parla e si muove. Purtroppo anche questo secondo matrimonio ha vita breve e culmina anch’esso in una rottura e il ritorno in Italia dell’attore. Un momento importante nell’autobiografia dell’attore è generato dalla collaborazione con Mario Monicelli ed in n particolare modo con il film I soliti ignoti. Mario Monicelli con l’aiuto dei truccatori decide di modificare i lineamenti di Gassman abbassandogli la fronte grazie all’uso di un parrucchino rasato, cercando di far sembrare le sue orecchie a sventola e imbottendo il naso con tamponi di cotone e protesi di gomma per renderlo maggiormente prominente e adunco.
In questo modo prende vita il personaggio di Peppè, volto “popolaresco” di un pugile rintontito al quale Vittorio aggiunge una lieve balbuzie della voce come ritocco e sfumatura personale che calzano a pennello con l’immagine che Monicelli vuole dare al suo personaggio. Grazie a questa abilità nel travestimento e alla facilità delle metamorfosi psicologiche Gassman ottiene il suo primo successo degno di nota tramite il mezzo cinematografico. L’attore descrive Monicelli come un maestro e un amico, come un direttore a tratti severi che non si è mai perso in discorsi superficiali o inutili, per il regista infatti è necessario eliminare le inquadrature in primo piano e le scene di maggiore importanza devono essere riprese solo una volta senza basarsi sulla sicurezza generata dalle prove, largo spazio viene concesso all’improvvisazione. Ne I soliti ignoti Monicelli si impegna molto nello spiegare il ritmo che la narrazione deve assumere in rapporto alla gestualità fisica del corpo, insegna a Vittorio che il tempo della ripresa cinematografica è leggermente più lento rispetto al tempo che si impiega in un’azione teatrale o quotidiana perché il pubblico che dal cinema vede la scena deve riuscire ad avere un momento di silenzio per poter leggere l’immagine niente nella rappresentazione filmica viene lasciato al caso e tutto deve seguire una tempistica e un rigore che permetta una comprensione immediata delle azioni e degli atteggiamenti senza il bisogno di una voce narrante che spieghi la scena. Il film deve catturare lo sguardo dello spettatore e deve trasportarlo e guidarlo all’interno della narrazione. Nel 1960 Vittorio, con l’aiuto di Giovanni Erba, mette in atto un progetto a cui medita da tempo, già all’inizio degli anni dell’Accademia. Ipotizza la nascita di un teatro che sia popolare e accessibile a tutti i cittadini italiani, simile al teatro popolare francese per aspetto ma non per interessi politici, in Francia, infatti, si è creato un teatro di protesta che differisce dall’idea dell’attore. Il Teatro che lui immagina deve si mettono in scena i grandi classici della storia del teatro e le opere degli autori contemporanei. Questa novità teatrale, stando all’idea del progetto iniziale, avrebbe reso buoni guadagni per la compagnia grazie alla politica del basso costo del biglietto. L’ultimo capitolo è dedicato all’incontro con la terza moglie Diletta D’Andrea, la quale lo ha seguito e aiutato nei momenti più difficili della sua malattia. La qualità che Vittorio sottolinea nei suoi riguardi è quella di essere molto paziente con lui e di sapersi prendere cura della sua particolare ed esuberante personalità. L’importanza di essere un buon padre e l’amore che predispone verso i figli concorrono costanti per tutta la vita dell’attore ed, infatti, cerca di coinvolgerli o di aiutarli ad esordire nella vita e nell’ambiente teatrale, Paola attualmente è un attrice di teatro di successo, ha iniziato a recitare nella compagnia del Teatro Libero e mano a mano si è affermata sulle scene. Alessandro debutta giovane insieme al padre prima nel film Di padre in figlio e poi compare nello spettacolo teatrale: Camper: farsa epica in nove tempi e dieci round. Vittoria non ha volto seguire la carriera di attrice, come i genitori prima di lei, ma ha scelto di studiare per diventare medico, ed infine Jacopo ha deciso di dedicarsi alla regia, uno dei primi lavori è stato il documentario La voce a te dovuta dedicato alla morte del padre avvenuta il 30 giugno del 2000. Per comprendere la poliedrica essenza di Vittorio Gassman è necessario menzionare, come accennato ad inizio paragrafo, il romanzo: Memorie del sottoscala. La storia racconta le vicissitudini di un uomo di mezz’età di nome Vincenzo. Il romanzo è scritto in terza persona ma in alcuni punti è il protagonista che interviene con affermazioni ed esclamazioni dirette, al tempo presente, sulle vicissitudini che gli accadono. Vincenzo è un uomo affetto da nevrosi che descrive come: “Il topo nel petto. Ogni mattina. La lotta per non affrontare la giornata, e un crampo somatizzato entro lo sterno ”. In questo Manifesto, che a tratti appare surrealistico, trapela la concezione che Gassman ha nei confronti del teatro. Lui si è spesso definito come un uomo “malato della vita” e della recitazione, che intende come una forma di sdoppiamento di se stessi e della propria interiorità. In questo suo scritto che è allo stesso tempo poesia, sfogo e dichiarazione, declama le doti del teatro e richiama a lui persone affette dallo stesso male. In Gassman tutto ruota intorno alle parole, le usa come un pittore utilizza dei colori per dipingere i suoi quadri, tutto si trasforma in recita, improvvisazione e immedesimazione.
Vittorio da una personale definizione della parola attore in cui, per l’appunto, lo definisce come un uomo “malato di schizofrenia” a causa della frattura interiore che divide il suo animo di essere umano con un proprio vissuto e l’uomo della messa in scena di un personaggio inventato sulla carta. Per Gassman un attore è tale se è capace di sottostare a certi schemi, riti e simbologie che lo impongono a mettersi nei panni di un altro essere umano, sperando che, tramite questo mestiere di incarnazione, questi possa catturare l’interesse del pubblico. L’attore, diventando un mezzo per uno scopo più grande rispetto alla semplice rappresentazione, riesce a comunicare infiniti messaggi. Gassman riesce a sdoppiare il suo animo generando figure e volti desunti dalla storia del teatro, creando in loro una solidità degna di un essere umano realmente esistito, con un passato dal quale attingere come eco di ricordi e di emozioni. La mostra e divisa in quattro sezioni: Si parte dalle tappe più significative della sua vita privata le mogli, i figli. Tante le foto intime fornite dai familiari, o le lettere d’amore scritte a mano a Diletta d’Andrea, come la richiesta di matrimonio. Si racconta anche la passione per lo sport: Gassman arrivò a giocare nella Nazionale di basket, ma poi lasciò tutto per studiare all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico. Un quaderno con foto e articoli raccolti dalla madre racconta tutta la sua carriera sportiva. Ad aprire il percorso del teatro c’è il suo baule di scena da cui escono metaforicamente una quantità di materiali ricchissimi e vari, parrucche, cappelli, costumi, tra cui quello di Otello e di Macbeth. Si rivivono momenti di grande recitazione grazie a preziosi filmati: vediamo Gassman recitare Amleto e Otello, ma accanto a questo la sua testimonianza di cosa vuol dire interpretare i personaggi di Shakespeare. E poi documenti, foto, registrazioni di ogni tipo, e oggetti di culto. Preziose sono le foto di scena realizzate da Diletta d’Andrea che per essere vicino a Vittorio nelle lunghe tournée, ricoprì diversi ruoli, tra cui quello di fotografa di scena: di questo straordinario repertorio, in parte inedito, spicca il materiale di uno degli ultimi spettacoli degli anni 1990, l’Ulisse e la balena bianca di cui si possono vedere i disegni dell’impianto scenico di Renzo Piano. Tra gli importanti spettacoli raccontati spicca Camper, con Alessandro Gassmann al fianco spesso del padre che lo volle nella sua “Bottega”, la scuola che aveva aperto nel 1977 tra le curiosità allo spettacolo partecipò anche Jacopo Gassmann bambino o anche lo spettacolo Sette giorni all’asta che segnò l’apertura del Teatro Tenda di Piazza Mancini, dove Vittorio recitò in una maratona teatrale di sette giorni. Un infinito e sterminato repertorio teatrale e cinematografico quello di Gassman e per raccontarlo la mostra si focalizza su quindici spettacoli teatrali e quindici film, scelti tra i tanti per restituire l’ecclettismo del grande artista. Il racconto della sua prolifica carriera cinematografica passa attraverso i tre grandi registi con cui ha lavorato maggiormente: Scola, Monicelli e Risi, ma è documentata anche la parentesi di Hollywood dove in un filmato vediamo Vittorio definire i film americani come ‘vaccate’. Si va poi dagli oggetti più pop e divertenti come i costumi di L’armata Brancaleone, o quelli di Il deserto dei tartari e Guerra e pace, alle foto e i fotogrammi numerosissimi e alle interviste particolari come quella di Carlo Mazzarella a Gassman e Sordi sul set in trincea de La grande guerra. A chiudere la sezione dedicata al cinema la mitica Aurelia del Sorpasso, di cui sente il clacson risuonare e, nelle immagini che scorrono dietro, il volto inconfondibile di Vittorio. Segue la sezione dedicata alla televisione con una proiezione dove vengono mostrate le sue “ospitate”, da Studio Uno con Mina nel 1965, dove cantano insieme L’uomo per me, o la Canzonissima, dove lui è ospite con la madre per recitare insieme i passi della Divina Commedia fu proprio lei a portarlo alla decisione di fare l’attore perché da piccolo era chiuso e introverso. Imperdibile Vittorio che prende in giro se stesso nel programma Tunnel leggendo l’elenco del telefono e un menu come se stesse leggendo la Divina Commedia. Infine, la parte dedicata alla poesia dove si potrà ascoltare Gassman mentre recita alcuni tra i suoi componimenti preferiti e una sezione speciale a parte che mostra una serie di disegni su Vittorio fatti dal pubblico e postati su Instagram. La mostra si chiude narrativamente con il documentario Sono Gassman. Vittorio re della commedia di Fabrizio Corallo che racchiude l’universo Gassman.
La mostra “Vittorio Gassman . Il Centenario” è ricca di foto, oggetti, costumi, copioni, video, filmati, bozzetti, documenti e tanti materiali provenienti dall’Archivio Storico Luce e dal Centro Sperimentale di Cinematografia che sostengono il progetto, con la collaborazione di Rai, Zètema e Terna e la partecipazione di tutti i familiari di Gassman. L’esposizione è arricchita da numerosi prestiti istituzionali e privati dell’Accademia Silvio d’Amico e dell’Archivio Centrale dello Stato. Dopo Roma sarà ospitata a Genova, città natale di Gassman, nella prestigiosa sede di Palazzo Ducale. Successivamente si sta lavorando con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – Direzione per la promozione della cultura e della lingua italiana per portare la mostra, grazie ad Ambasciate e Istituti di Cultura nelle città dove Vittorio Gassman aveva trionfato nella sua straordinaria carriera (Buenos Aires, New York, Parigi tra le tante). La mostra è supportata da un importante catalogo per i tipi di Skira con scritti di Alessandro Gassmann, Diletta d’Andrea Gassmann, Sandro Veronesi, Maurizio de Giovanni, Erri De Luca, Renzo Piano, Rodolfo Di Giammarco, Pino Strabioli e Renato Minore.
Auditorium Parco della Musica di Roma
Vittorio Gassman. Il Centenario
dal 9 Aprile 2022 al 29 Giugno 2022
dal Lunedì al Sabato dalle ore 11.00 alle ore 20.00
Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00