Gazzettino Italiano Patagónico

La Prima Antologica di Lawrence Carroll 

al Museo Madre di Napoli 

Giovanni Cardone

Fino al 5 Settembre si potrà ammirare al Museo Madre di Napoli la mostra antologica dedicata a Lawrence Carroll  a cura di Gianfranco Maraniello.  La mostra è stata realizzata in collaborazione con Lucy Jones Carroll per l’Archivio Lawrence Carroll. Il Madre di Napoli vuole celebrare l’artista vissuto tra gli Stati Uniti e l’Italia con la prima mostra antologica dalla sua scomparsa: Ottanta opere che raccontano la storia, la ricerca e le inquietudini di un interprete cosmopolita della ricerca pittorica. A tre anni dalla sua scomparsa il Madre di Napoli dedica la prima grande retrospettiva museale a Lawrence Carroll.  La mostra indaga sulla storia e la figura di questo protagonista della scena artistica nordamericana e internazionale, non assimilabile alla storia delle avanguardie e neoavanguardie.  Come affermano Angela Tecce Presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee e Kathryn Weir la Direttrice Artistica del Museo Madre di Napoli : “Siamo orgogliose di presentare al Madre questo omaggio a Lawrence Carroll, artista vissuto tra gli Stati Uniti e l’Italia questo progetto espositivo che si inserisce nella tradizione delle grandi mostre che il museo ha dedicato ai protagonisti della ricerca artistica contemporanea. La pittura, la scultura, le installazioni e le foto di Carroll sono testimonianze di una profonda riflessione interiore e della sua costante indagine sull’esistenza e sulla necessità che l’umanità ha dell’arte. Le sue opere dai colori sommessi, stratificati e dalle forme essenziali inglobano memorie del vissuto e tracce del reale, trasfigurandoli in un linguaggio rigoroso ed evocativo.”  Mentre Gianfranco Maraniello dice : “Lawrence Carroll ha un ruolo eminente nella storia dell’arte americana per avere mostrato orizzonti e aperture oltre l’impasse dei dogmatismi teorici che avevano sostenuto gli impianti di modernismo e postmodernismo fino alla metà degli anni Ottanta. Realizzare oggi una mostra di Lawrence Carroll significa restare fedeli alla sua inquietudine, corrispondere alla vitalità di opere che continuano a cercare il loro luogo dove vivere interrogando le incessanti possibilità della pittura.” La mostra presenta 80 opere dell’artista realizzate nel corso di oltre trent’anni di carriera dal 1985 al 2019, allestite in un percorso che  come nel sentire dello stesso Carroll  privilegia le relazioni delle opere con lo spazio e con i sentimenti rispetto alla paralizzante classificazione cronologica o tematica. Carroll considerava infatti i suoi lavori presenze fisiche che abitano gli spazi e che incontrano l’osservatore, entrandoci in dialogo. Ogni sua realizzazione mantiene per questo la stessa imperfezione dell’essere umano e, usando le sue stesse parole, un necessario “ancoraggio al mondo”. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle avanguardie e neo- avanguardie e sulla figura di Lawrence Carroll apro il mio saggio dicendo : L’avanguardia sembra essere intorno a noi. Continuamente nella quotidianità ricorrono espressioni come “strumento all’avanguardia”, “tecnologia all’avanguardia”, “pura avanguardia”, usati per identificare qualcosa di innovativo, in grado di rompere con la tradizione e di anticipare idee e metodologie che avranno uno sviluppo futuro. Ma cosa si vuole veramente rappresentare con queste formule? Quanto di esse oggi fa riferimento al significato originario del termine “avanguardia” e quanto invece si collega a un concetto ormai inflazionato e persino quasi stereotipato di uno dei fenomeni più importanti della cultura moderna? Ci si è mai fermati a considerare l’eventualità che in realtà si tratti solamente di un’entità astratta? Il concetto di avanguardia è emerso come fenomeno nuovo che diversifica il XX secolo dagli altri periodi della storia e della cultura. I primi trent’anni del Novecento hanno visto la nascita dei movimenti artistici definiti “avanguardie storiche”, ovvero gruppi di artisti e letterati che hanno elaborato una poetica comune del loro operare artistico.

Dato il carattere progressivo e spesso provocatorio delle opere prodotte da queste correnti, il termine “avanguardia” ha rappresentato nel sentire comune un qualcosa di ardito, rivoluzionario e innovativo dal punto di vista dello stile e della tecnica, che rompeva gli schemi della tradizione consolidata e dell’accademismo. La nozione di avanguardia si è sviluppata a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, grazie ad un gruppo di utopisti vicini al teorico politico francese Claude-Henri de Saint-Simon , che la identificarono come una proiezione ideale sul piano artistico degli obiettivi dell’umanità.  Dalla Francia l’espressione si diffuse ben presto in tutto il panorama culturale europeo: le idee dei cosiddetti “movimenti d’avanguardia” divennero uno degli emblemi più significativi dell’estetica della modernità. Storicamente vi è stata una netta prevalenza nell’utilizzo di questo termine nel campo delle arti visive e della letteratura: sono numerosi infatti i riferimenti che accompagnano il ricorrere a questa espressione nella critica scritta e orale, rinviando al significato simbolico dell’immagine in esso contenuta. “Avanguardia” è tuttora utilizzato come parola-contenitore per una serie di fattori quali innovazione, esplorazione, estremizzazione degli atteggiamenti, rottura, antagonismo, rifiuto e anticipazione dei gusti e delle conoscenze, tutte caratteristiche sviluppatesi nel corso del Novecento ma derivanti in realtà da tendenze politico-culturali ottocentesche. La diffusione del concetto fu così ampia che apparve subito chiaro come esso potesse perdere la propria portata iniziale, acquisendo invece numerose implicazioni critiche. Attualmente va riconosciuto che il suo utilizzo è abusato da critici, giornalisti e soprattutto artisti, con il conseguente rischio di tramutarlo sempre più un concetto astratto e inflazionato. Parlando di avanguardia si intende in genere un movimento artistico o letterario che nasce dall’attività di un gruppo di persone e che ricerca in modo programmatico (ovvero tramite manifesti, dichiarazioni teoriche, riviste, conferenze o iniziative anche clamorose e provocatorie) nuove forme espressive, in contrasto con i modelli estetici tradizionalmente riconosciuti. Più comunemente con questa definizione si fa riferimento ai movimenti artistici e letterari di fine Ottocento e inizio Novecento che, dopo la crisi del Romanticismo, rinnovarono il panorama culturale dell’epoca, ponendo al centro della propria attività la sperimentazione, con lo scopo di staccarsi dalla tradizione accademica, considerata ormai anacronistica e obsoleta. Nel XX secolo vi è stato un vivace susseguirsi di fenomeni artistici, differenti ma pur sempre correlati fra loro, che proponevano nuove forme espressive in sintonia con il continuo e soprattutto rapido mutare dei tempi. Le varie avanguardie hanno ognuna riletto a proprio modo, con varie accentuazioni e livelli di priorità, le funzioni, i compiti e le strategie di una pratica artistica innovativa ed oppositiva. Come ricorda Mario De Micheli, «i movimenti avanguardistici rappresentano nella cultura contemporanea un taglio drammatico, una rottura che segna il destino di tutta la civiltà artistico-letteraria del Novecento» . La nozione di avanguardia sottintende una visione progressista della storia, dell’umanità e della stessa arte, che si evolverà in rotture successive tramite scontri e rivoluzioni. Gli autori di questa generazione volevano cambiare il presente e le loro battaglie culturali diedero una nuova impronta a tutta l’arte e letteratura del secolo. Con le avanguardie vennero messi in discussione non solo il valore, ma addirittura il concetto stesso di arte: quest’ultima deve sì riuscire a sconvolgere e a scuotere gli animi con le proprie opere, ma la funzione dell’artista e del letterato diventerà anche quella di sapersi costruire una vita “esteticamente soddisfacente”, dominata dall’arte nella sua totalità. Per realizzare ciò le avanguardie storiche fecero dello sperimentalismo il loro orientamento metodologico: esse erano composte da gruppi eterogenei di persone a volte anche in aperta polemica tra loro, ma dal confronto e dal contrasto si poteva generare una notevole spinta creativa. Vi potevano essere divergenze anche all’interno degli stessi movimenti celebre è ad esempio la querelle tra Breton e Dalí per motivi economici, ma gli autori sceglievano di operare in gruppo per abbattere ogni barriera esistente fra le varie forme d’arte. Ecco quindi che dopo anni di chiusura dell’arte e della letteratura in un mondo autonomo e quasi impenetrabile come reazione al rifiuto borghese verso ciò che non veniva considerato utile, l’avanguardia puntava a smitizzare la sacralità delle arti, cercando di porle in diretto contatto con la realtà. Essa divenne un fattore unitario e globale: vennero definiti autori d’avanguardia tutti quegli artisti, scrittori, compositori, pensatori il cui lavoro non solo si poneva in opposizione ai comuni canali di commercializzazione culturale, ma che spesso conteneva anche uno spessore sociale o politico. Il loro atteggiamento estremista e provocatorio rigettava la tradizione e tutto ciò che la rappresentava: si iniziarono a mettere in discussione i modelli accademici, rifiutando i canoni e i generi convenzionali, e prefiggendosi invece di ricercare nuove vie espressive e nuovi soggetti estetici. L’avanguardia mise in discussione l’estetica fin dal suo esordio: la sua sarà un’estetica del disturbo, che sollecita lo stimolo interpretativo e che vede frammentato il proprio fascino in favore di un sconvolgimento del pubblico. Vengono rovesciate le aspettative del gusto borghese, si sconvolge lo spettatore e ci si concentra particolarmente sia sul momento della ricezione dell’opera che sul messaggio che questa intende veicolare. I movimenti d’avanguardia diventano espressione della crisi della società borghese, i cui valori sono ormai intaccati nella loro storica assolutezza e le cui certezze progressiste sono messe continuamente in discussione. Le avanguardie hanno sempre puntato al rinnovamento del linguaggio artistico e letterario, promuovendo una trasformazione radicale dei principi etici e conoscitivi accettati e difesi da quella che era considerata la cultura ufficiale detentrice dei valori “sani”. “Épater le bourgeois” diventa la regola: gli autori d’avanguardia vogliono scardinare i codici culturali correnti, il gusto ormai consolidato e i mezzi espressivi abituali, per favorire piuttosto un’evoluzione sul piano formale e su quello ideologico, puntando a un cambiamento globale di forma e tecnica. Al concetto di avanguardia è spesso associata una simbologia particolare: oltre alla volontà di innovazione, esso implica anche l’idea di lotta, di combattimento, di rivoluzione, ma soprattutto di azione collettiva, perpetrata da un gruppo che si scontra con il pensiero convenzionale. L’avanguardia è sempre ideologica in modo dichiarato, perché opera sulla materia secondo una visione della realtà e delle cose che viene fornita a priori come guida e metodologia da seguire. La sua natura è estetico-politica, rifiuta di essere collocata in un ambito separato e specializzato dell’arte, preferendo la realtà nel suo insieme e operando attivamente per trasformarla. Le avanguardie agiscono dal “particolare” al “generale”: sembrano interessarsi esclusivamente a una parte, ma in verità la utilizzano come chiave per la ristrutturazione del tutto. Con l’avanguardia l’antiestetico assume una funzione anticipatrice nei confronti del moderno nella sua totalità; essa rappresenta la volontà di estetizzare globalmente la realtà, trasformandola in opera d’arte (o in antiarte) totale, imprimendo un improvviso e radicale cambio di direzione in campo estetico e sociale. Per gli artisti e i letterati diventa necessario fornire una nuova visione della realtà, fondare una nuova epistemologia e creare un programma totalizzante che unisca sperimentazione artistica e critica ideologica della società borghese, estremismo formale e coscienza politica, affinché la pratica artistica assuma allo stesso tempo un profondo significato sociale, culturale e politico. Volendo effettuare una ricostruzione semantica del concetto di avanguardia, si può notare come il termine derivi dal linguaggio militare dal francese avantgarde, “prima della guardia”, usato in origine per rappresentare la parte di esercito composta dai soldati più coraggiosi, che procedevano in posizione avanzata rispetto al resto delle truppe, per aprire loro un varco tra i nemici nel campo di battaglia. Hans Magnus Enzensberger nel suo saggio “Le aporie dell’avanguardia”  del 1962 fa un ampio approfondimento etimologico, trattando l’ambiguità semantica e metaforica del concetto di avanguardia, i suoi condizionamenti storici e sociali e le vane pretese ideologiche che lui stesso definisce “aporie” ovvero contraddizioni, contrasti la cui qualità dialettica è ancora incerta. Enzensberger fa riferimento alla definizione data dal dizionario tedesco Brockhaus nella sua quattordicesima edizione del 1894, nel quale l’avanguardia è identificata come termine militare che rimanda a Enzensberger è probabilmente uno dei primi teorici dell’avanguardia in grado di dimostrare le numerose relazioni che questa stabilisce con il tempo, lo spazio, l’ideologia, la tradizione e soprattutto il futuro.

Egli insiste sulla metaforicità del termine in quanto generato da una diade, una composizione di concetti: la particella avant che nell’espressione tecnica militare è presa nel senso spaziale, ritrova nella metafora il suo senso iniziale temporale e vi aggiunge dei significati socioeconomici. Inoltre dato che il territorio su cui agisce l’avanguardia è la storia, si può facilmente notare come le arti rapidamente “avanzino” e come esse siano “costantemente avanti”. É evidente come lo sviluppo della coscienza storica preluda al processo di museificazione e conservazione della memoria, ma anche a una compulsione al superamento; così facendo si impone all’artista la necessità di essere sempre “avanti con i tempi”, per non rischiare di perdersi nella storia. Il capitalismo imperante sfrutta quella tendenza, traducendo la volontà anticipatrice in speculazione economica sulla novità artistica. La prima aporia dell’avanguardia sorge però proprio nell’obbligo di essere avanti: nonostante sia possibile definire con precisione quali siano le retroguardie artistiche o letterarie, non è invece possibile individuare unanimemente che cosa sia l’avanguardia. «L’unica cosa che possiamo definire con precisione è chi era avanti, però non chi è avanti. L’avanti dell’avanguardia porta in sé una contraddizione: si può constatarlo solo a posteriori».Il primo dei due termini che compongono il vocabolo segnala quindi un’imperfezione nella posizione critica, rendendo difficile la comprensione del fenomeno. Gli attributi sociali dell’avanguardia risultano legati alla natura del secondo elemento che compone il sostantivo. Per Enzensberger la “guardia” individua una collettività anticipatrice del singolo, in cui ognuno è partecipe del processo storico mantenendo però individualità e responsabilità; è un gruppo che trova la sua ragione di essere non nella produzione ma nel conflitto e nella militanza, orientati essenzialmente verso una retroguardia, costituente lo strato conservatore che frena l’avanzata verso il progresso. Enzensberger non vuole salvaguardare l’uso indiscriminato e spesso improprio della definizione, utilizzata da «chiunque metta nero su bianco o dia il colore a una tela». Attraverso un paragone quasi obbligato, l’autore dichiara efficace l’azione dell’avanguardia storica, uscita non sconfitta dal confronto con una società ormai ostile verso l’arte moderna, in un contesto generale di violente condizioni storiche. La neoavanguardia che verrà in seguito e che avrà la base nell’avanguardia storica  invece invertirà la tendenza, poiché «il suo movimento è regressione» e la via di fuga prefigurata dal sostegno delle dottrine e dei gruppi diventerà «un anacronismo» quello che verrà visto come il suo fallimento risiederà semplicemente nello scollamento del materiale espressivo dal sistema socio-produttivo. L’analisi di Enzensberger è quindi nel complesso negativa e sovverte completamente la stessa raison d’être dell’avanguardia. Seguendo la sua argomentazione, va riconosciuto che aporeticamente l’avanguardia non è né rivoluzionaria, né innovativa, né sperimentale. Essa non può rivendicare alcuna leadership estetica, politica o sociale, in sostanza si tratta di un “bluff permanente”. «L’avanguardia si è trasformata nel suo contrario, cioè è diventata un anacronismo». Tornando all’origine del termine “avanguardia”, si può notare come questo passi dal linguaggio strategico-militare a quello politico intorno al 1830, iniziando a rappresentare il nuovo compito assegnato agli intellettuali, prevalentemente di sinistra, come guide morali nelle battaglie politiche del liberalismo imperante. Gli artisti e i letterati dovevano poter anticipare le azioni e gli atteggiamenti culturali, riuscendo a prefigurarsi il futuro; avrebbero potuto beneficiare dell’unione con le forze politiche, in grado di intuire come sarebbero andate le cose, facendo sì che l’arte riuscisse ad amplificare un’idea di futuro elaborata in precedenza da altri. Cronologicamente è difficile ritrovare termini e concetti di tale contenuto anteriori al Preromanticismo, considerato come un’epoca di crisi, transizione e fermento che precede il dissolvimento della tradizione del classico moderno. È la prima volta che viene utilizzata una simile espressione e infatti SaintSimon è tra i primi a definire il rapporto tra gli artisti e l’idea di progresso che caratterizza l’avanguardia. Era convinto di poter generare un impulso grazie al quale «l’egoismo, frutto bastardo della civiltà, sarà vinto lasciando libero lo spirito creativo di solidarietà».

Le sue idee verranno riprese da altri movimenti utopistici, in particolare da quelli che seguiranno il socialista utopista Fourier. Nel corso dei suoi ultimi anni egli volse il proprio interesse verso gli aspetti spirituali e religiosi dell’uomo e della società; riteneva che gli artisti, da lui definiti “sacerdoti di nuovo tipo” fossero idonei a far progredire l’umanità, riuscendo ad agire sugli aspetti più profondi. Mentre nel corso dei primi anni, quando era ancora presente una forte influenza meccanicistica, Saint-Simon limitava il compito dell’artista alla pura divulgazione delle idee introdotte dagli scienziati, nelle “Opinions” egli poneva gli artisti al vertice di una piramide sociale elitaria composta anche da scienziati e artigiani industriali, in quanto la potenza delle arti era più rapida e immediata. Tuttavia l’egoismo tanto osteggiato avrà poi il sopravvento e la progettualità utopica e il rinnovamento culturale si scontreranno presto con la necessità della borghesia di avere una legittimazione culturale; la spinta anarchica di alcuni pensatori dell’epoca come Fourier le alienarono i favori della borghesia capitalista, che anzi ne approfittò per spingere la cosiddetta avanguardia ai margini del proprio modello di società, in ragione di una potenziale forza disgregatrice. Le avanguardie storiche tentarono di estremizzare la critica della dipendenza dell’arte dal mondo borghese; quello che scoprirono a partire dalla propria rivoluzione artistica, e a cui finirono inevitabilmente per adeguarsi, fu che il mondo borghese non aveva alcun problema ad accettare le loro idee rivoluzionarie, purché rimanessero confinate in ambito artistico e fossero quindi “monetizzabili” e commercializzabili nel mercato dell’arte. Dal Lago e Giordano affermano: «L’arte è pura merce e, come ogni altra merce, il suo valore non dipende da presunte qualità intrinseche, ma dal fatto di essere venduta con una promozione e confezione adeguate» La reazione dei movimenti storici d’avanguardia contrastava in modo deciso i gusti dominanti della massa, proponendo dei nuovi valori che si distaccavano da quelli della collettività. Per scongiurare la mercificazione della produzione culturale, le avanguardie proclamarono la rottura di ogni canale comunicativo, ma neppure dichiarare la presunta “morte dell’arte” servì a evitare che le loro forme di contestazione venissero neutralizzate e assorbite dal mercato. Sull’arte d’avanguardia ma soprattutto sulla massificazione e sulla cosiddetta arte “di massa” vi è un testo interessante del filosofo statunitense Noël Carroll: in “A Philosophy of Mass Art” del 1998 egli difende la validità estetica di quella che definisce “arte di massa”, descrivendo le varie posizioni filosofiche sulla cultura di massa, fino ad allora negata sulla base del principio che il gusto artistico appartenesse esclusivamente a un’élite in grado di apprezzare il bello come tale. Questa concezione secondo Carroll risale a Kant e a un’errata interpretazione della sua “Critica del Giudizio”; Kant non poteva possedere una teoria sull’arte di massa, anzi secondo Carroll non possedeva affatto una teoria sull’arte. Attraverso l’evoluzione della filosofia nell’arte tra il XIX e XX secolo, parti della teoria kantiana, specialmente quelle sull’analisi del bello, sono state riprese in numerose concezioni sulla natura dell’arte. Per Carroll molta della resistenza filosofica nei confronti dell’arte di massa è il risultato di un’errata applicazione dei termini della teoria kantiana della libertà della bellezza all’arte di massa; questo è il motivo per il quale vari autori vedono l’arte di massa essenzialmente come una forma di arte deviata, degradante, un sorta di “ersatz” culturale. Molti teorici pensano che un’opera d’arte possa portare lo spettatore in uno stato della mente disinteressato, trasformando quindi la concezione kantiana del disinteresse nell’idea che un’opera sia autonoma, svincolata da scopi cognitivi o utilitaristici. Quest’interpretazione è supportata anche dall’enfasi che la teoria di Kant pone nella natura dell’oggetto sottoposto a giudizio estetico, nella sua finalità “purposiveness without purpose”: l’idea che l’arte sia senza scopo e quindi autonoma deriva da un fraintendimento della nozione di “purposiveness” da parte dei teorici dell’arte. Carroll rifiuta l’idea che si possa parlare di autonomia dell’arte e di “art for art’s sake”, essendo piuttosto convinto che un’opera sia inevitabilmente legata al contesto etico e politico del suo periodo storico. Partendo dal principio di accessibilità al grande pubblico, egli considera l’arte di massa definita “mass art” o anche “mass entertainment” la forma più pervasiva di esperienza estetica per la maggior parte degli individui; è praticamente impossibile trovare qualcuno che non sia stato esposto all’arte di massa almeno una volta nella vita. Con tale definizione l’autore fa riferimento a un’arte al servizio della società di massa, prodotta e distribuita tramite tecnologie della moderna industrializzazione. Una caratteristica fondamentale dell’arte di massa è la sua accessibilità a un grande numero di persone, data la necessità di raggiungere il maggior quantitativo di pubblico possibile; nata sulla base del capitalismo e dell’urbanizzazione, si evolve da forme di arte pre-esistenti, utilizzando tecnologie di informazione di massa per la sua affermazione. Alla contrapposizione tra arte “buona” e arte “cattiva” o tra arte “alta” e arte “bassa” Carroll preferisce la distinzione tra arte di massa e arte d’avanguardia, che non deve assolutamente coincidere con un giudizio di gusto. Prendendo in esame considerazioni e testi di differenti autori, egli prova a dimostrare come l’arte di massa non debba essere considerata necessariamente inferiore; spesso i teorici chiamati a confrontarsi con l’arte di massa hanno infatti adottato un atteggiamento ostile nei suoi confronti, sostenendo che essa non possa essere considerata una forma d’arte genuina e bollandola piuttosto come “pseudo-arte” o semplice “kitsch”. Secondo la ricostruzione di Carroll, Dwight MacDonald avanza un “massification argument” per il quale l’arte di massa necessariamente gravita attorno ai livelli di gusto più bassi; Greenberg invece fa valere un “passivity argument”, secondo il quale l’arte di massa non può essere considerata arte genuina perché pensata per un pubblico passivo. Il “formula argument” che Carroll attribuisce a R. G. Collingwood sostiene che l’arte di massa non può essere intesa come vera arte perché naturalmente scontata; Adorno e Horkheimer invece incentrerebbero il loro discorso su quello che può essere chiamato “freedom argument”, basato sulla concezione che l’arte di massa minacci la libera attività della nostra immaginazione, indebolendo la nostra autonomia estetica, politica e morale. Per MacDonald la caratteristica fondamentale della cultura di massa è il fatto che essa sia prodotta esclusivamente e direttamente per il consumo da parte del pubblico; è definita impersonale se confrontata con la grande capacità di espressione dell’arte di livello superiore, la cosiddetta “high art”. L’arte di massa è variamente creata dalle industrie interessate al profitto nei paesi capitalisti o realizzata per controllare le persone nei paesi a regime totalitario in entrambi i casi i suoi consumatori assumono un atteggiamento passivo, subiscono un livellamento e perdono non solo la propria identità di esseri umani, ma anche la capacità di esprimersi perché non si sentono né individui singoli né parte di una comunità. Per molto tempo l’arte d’avanguardia è stata vista come l’arte impegnata, aulica, che doveva perseguire la sua missione di rinnovamento senza cadere in “contaminazioni” materiali; è stata contrapposta spesso all’arte di massa, soprattutto in virtù della sua presunta estraneità alla istanze del mercato, di cui invece quest’ultima sembra esserne preda. Vi è l’impressione che l’avanguardia oggigiorno abbia perso molto del suo portato originale diventando sempre più di frequente vittima della mercificazione e delle leggi del mercato le azioni degli artisti, che dovevano servire a desacralizzare l’opera d’arte, si sono progressivamente trasformate in una pratica frequente e diffusa dell’arte, ma senza una vera e proprio volontà di rottura, puntando piuttosto al riconoscimento commerciale. Come sostiene Cometti, l’arte rimane un affare sociale, che soccombe al mercato e alle sue leggi, nell’illusione, o forse nella falsa coscienza, di uno status autonomo. In questo contesto  si inserisce la figura di Lawrence Carroll, la sua  vita è stata ricca di epifanie, tra cui una delle più importanti può essere così riassunta per arrivare alla tela bianca bisogna prima perderla. Per molti artisti la tela grezza è una superficie da violare al fine di trovare un corpo all’immagine o alla materia, ma per altri il bianco-non-bianco del tessuto vergine parla più di qualsiasi segno che possa esservi apposto. La gradazione del bianco, il nitore, l’imperfezione nel filato del materiale, il vuoto e la sua maestosità espressiva, chiedono di essere sfidati anche da chi si sente pago di loro. Lawrence Carroll amava i materiali, specie quelli umili, che considerava pregni di “meaning”, significato; la sua ricerca ha tenuto conto sia dell’espressione intrinseca al fare, lo svolgersi delle azioni nello studio, sia di una necessità sentimentale ed estetizzante che in quelle azioni riversava intimità, memoria e luminosità accoglienti, dolorose, amorose, malinconiche. Una tela ripiegata su se stessa e accantonata in un angolo della stanza o una fotocopia macchiata accidentalmente di pittura, suggerivano a Carroll qualcosa di compiuto, come se gli strumenti del fare fossero già grevi di una poesia che non poteva essere ignora. Nato in Australia da una famiglia industriosa e creativa nella manutenzione degli elementi domestici, ancora bambino l’artista emigra con i genitori e i fratelli in California. A casa Carroll non si butta nulla, si aggiusta, e si costruiscono intere parti di edificio con le proprie mani; è tutto un via vai di toppe, rammendi, lavori di falegnameria e inaspettate soluzioni. Negli anni Settanta studia all’Art Center College of Design di Los Angeles e successivamente insegna presso altri college di area californiana; in questo periodo, a causa delle condizioni economiche precarie, dipinge recuperando tele e telai dagli scarti altrui, assemblando queste rimanenze in una maniera inedita, basata sulle storie dei materiali e tesa alla rottura della supposta bidimensionalità del dipinto. Si trasferisce a New York dove, intorno alla metà degli anni Ottanta, lavora come illustratore per il New York Times, il Village Voice e altri periodici; visita costantemente musei e gallerie; comprende che, più che in una strada, può trovare la propria voce a un bivio, quello che divide gli autori del minimalismo quali Donald Judd o Carl Andre dagli autori del primo e tardo espressionismo astratto, da Willem de Kooning a Jasper Johns. Per Carroll il dipinto è un oggetto che esige di essere osservato da ogni lato, non solo frontalmente; come nel minimalismo, l’opera d’arte chiede un coinvolgimento spaziale dello spettatore. Tuttavia, al pari che nell’espressionismo astratto, il dipinto è umano, estremamente fatto a mano, non è un progetto bensì un processo; è una stratificazione di ripensamenti che Carroll non cela ma evidenzia tagliando e poi assemblando nuovamente i propri supporti o creando superfici materiche attraverso il rapido graffettare una tela o una carta sull’altra. Per diventare pittore, Carroll capisce che deve sacrificare il disegnatore. Un’altra fondamentale epifania occorre un giorno nello studio dell’artista: egli attacca le fotocopie delle proprie illustrazioni su una tela e le copre di un bianco simile a quello del tessuto originario, effettuando una cancellazione. Carroll scopre che si può tornare al bianco: esso non è solo origine e nettezza, può bensì essere anche esito e materia. In decenni di pittura i giorni di rivelazione rilucono di una particolare felicità, Lawrence Carroll li ricordava tutti e non ne era mai sazio; continuò a inseguire e a bearsi di nuove scoperte fino all’ultima ora, integrandole anche nei lavori più tardi. C’era stato un giorno in cui aveva capito che la cera poteva accentuare la metafora organica sulla superficie del dipinto e un altro giorno in cui aveva applicato pittura sul pavimento sporco e vi aveva posizionato sopra un cencio imbrattato, inaugurando così l’uso del suolo. Una sera notò una piccola lampada che illuminava una porzione di quadro e da lì incorporò lampadine accese o fulminate come parti della composizione; un’altra sera gettò un viticcio d’edera su un’opera, e poi una scala, un fiore, una tela piegata. Tutto quello che la vita, o la vita nello studio, avvicinava al dipinto, trovava a proprio tempo spazio nel dipinto stesso. Più che una ricerca, quella di Lawrence Carroll è stata un lento succedersi di prime volte, perseguite ma inimmaginabili, giunte grazie alla vita. Alla fine degli anni Ottanta la ricerca di Lawrence Carroll può dirsi matura e la sua fortuna comincia a costruirsi grazie anche all’interesse nutrito nei suoi confronti da curatori di grande pregio intellettuale, tra cui Tricia Collins e Richard Milazzo, Harald Szeemann, Jan Hoet, Denys Zacharopoulos, nonché collezionisti illuminati quali i coniugi Panza di Biumo. Nel 1953 Robert Rauschenberg espone i White Paintings, tele montate su telaio e dipinte tramite rullo con uno strato di umile pittura bianca, quella usata per i lavori domestici. I dipinti, come sottolineò John Cage, erano privi di soggetto, tecnica, messaggio, intenzione, autorialità; riflettevano le caratteristiche cromatiche, spaziali, luminose della stanza che li ospitava.  Un processo di estro – versione, quello di Rauschenberg, che Carroll nelle proprie opere trasforma in introversione: il bianco riflettente diviene bianco assorbente. Assorbendo la gestualità dell’artista che cuce e ricuce brandelli di tela, taglia e cauterizza telai, imprigiona fiori e spande amidi, sporca il colore, lo bagna e lo ghiaccia, la pittura diviene un lunghissimo taccuino.

Nel quotidiano Lawrence Carroll rigirava di continuo taccuini stropicciati, brandelli di giornale, parole che ritagliava qua e là, appunti presi su supporti di fortuna. La cronaca, i fatti, le storie che avvenivano fuori e dentro lo studio, lavorate nel pensiero e schiarite dalla luce, diventavano le stratificazioni di materia sui quadri di Carroll. A conclusione di un processo pittorico intenso quanto una vita, il dipinto si compiva là dove per altri sarebbe solo iniziato, nell’imperfetta e umile poesia del materiale. Carroll si è inserito facilmente nel sistema dell’arte veneziano, essendo noto al sistema dell’arte italiano in quanto uno degli artisti amati dal collezionista Panza di Biumo. Durante la sua permanenza in Italia ha partecipato a molte personali e collettive, rilevante è la sua partecipazione alla 55° Biennale d’Arte di Venezia come artista del primo Padiglione della Santa Sede, occupandosi del nucleo tematico della Nuova Umanità o Ri-Creazione per la sua capacità di dar nuova vita ai materiali di recupero. La ricerca artistica di Carroll ha avuto una lenta gestazione, oltre alla figura di Morandi, molti strumenti espressivi derivano da altri artisti della sua generazione. Il colore bianco che egli utilizza, ha molte più affinità con Rauschenberg o con gli Achrome di Piero Manzoni, che rispetto ad una geometria purista, “Per questo il bianco di Carroll è un biancastro, sporcato da polvere e legni, ferri, latta”. Non si tratta di pittura monocroma, il bianco lascia trasparire i vari materiali che compongono l’opera, oggetti che non sono utilizzati nell’ottica di un ready made, essi fanno parte dell’opera ed hanno un ruolo nella sua composizione e, soprattutto, la collegano a ciò che è quotidiano. Le forme inoltre, non sono prestabilite e assemblate, l’artista le inventa e si munisce di tutto il necessario per crearle. Lawrence Carroll è un artista di fama internazionale, australiano d’origine, il suo mercato si sviluppa tra America Centrale ed Europa, principalmente Inghilterra ed Italia. Può vantare di opere d’arte che fanno parte di collezioni private alquanto prestigiose. Un esempio è l’interesse che il collezionista Giuseppe Panza di Biumo ha mostrato verso la sua arte a partire dal 1991. Entrato a far parte della sua collezione, le opere di Carroll sono esposte in importanti mostre, “Omaggio a Giuseppe Panza di Biumo: la passione della collezione” del dicembre 2014- gennaio 2015 all’Accademia di San Luca, è una di queste, nella quale l’artista appare accanto a Richard Nonas e Joseph Kosuth. Nei suoi quadri Carroll ha continuato a interrogare gli strumenti dell’arte, tagliando e ricombinando porzioni di tela dove le cuciture sembrano disegni o ferite, innestando oggetti organici o inorganici fiori, foglie, guanti, scarpe, la polvere del suo studio dando luogo a sorprendenti volumetrie, attuando una costante ridefinizione della pittura. Attraverso le sue opere l’artista propone un’incessante interrogazione su quale sia la sua posizione nei confronti della realtà, della sua solitudine di fronte al mondo, del mondo da lui creato. Tra i suoi lavori più recenti si annovera una serie di fotografie esposte precedentemente soltanto in occasione di una mostra presso la Fondazione Rolla (Svizzera), oltre ad alcuni disegni inediti (black drawings). Infine come disse lo stesso Lawrence Carroll :  “Nella mia pittura le forme sono sempre mutevoli, la loro stessa collocazione nello spazio cambia, questa inquietudine di pensiero e di spirito è ciò che in un certo senso rende ‘vive’ le mie opere e le tiene in movimento.”

Museo Madre di Napoli

Lawrence Carroll

dal 25 Marzo 2022 al 5 Settembre 2022

dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle 19.30

Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00

Martedì Chiuso

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📍Buenos Aires 326- Neuquén 📍Alem 853 – Cipolletti 🕢 Horario de atención en Cipo: Lunes a Viernes de 10 a 13 y de 16:30 hasta que no haya más pan! 🕢Horario de atención en Neuquén: Lunes a Viernes de 10 a 14 y de 16 hasta que no haya más pan! Sábados de 10 a 13 únicamente (en los dos locales)

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