“Signorì, una storia quasi d’amore” di Giulia Conte
di Tonino Scala
“Signorì – Una storia quasi d’amore” è il primo libro dell’attrice, drammaturga, regista Giulia Conte. Edito dalla casa editrice napoletana Edizioni Mea è un gran bel libro. È un viaggio dell’anima che ho visto venire al mondo, un’opera che vede la sua nascita grazie ad un testo teatrale che scopro per caso durante le prove di uno spettacolo. Giulia, Giusy e Giuliana ne parlavano, nei loro occhi lucidi vedevo voglia di vita.
“Perchè non scrivi un libro”, le dissi. Il giorno dopo arrivò il primo capitolo. Commovente. Poi il secondo, il terzo ed ecco a voi “Signorì ” un testo che mescola il soliloquio allucinato all’intimismo asciutto ed essenziale che ricorda piccoli tratti di una vita immensa pur se breve. Una scrittura semplice e profonda, bucolica e urbana, melanconica, amara, ricca di ricordi, odori di mandarini bruciati, una bici, una panchina, un inno alla vita.
A volte basta un fiore. Un semplice e banale fiore tra i capelli per comprendere l’animo di una signorì. Un fiore, un semplice fiore a rendere esile e delicato un corpo robusto, ma fragile. Poi una panchina, un parco, un gesto abitudinario, un incontro, forse immaginario, forse no, chi lo sa, con un altro animo, sensibile come il suo. Di una sensibilità complicata in un mondo dove è tutto complicato tranne la vita. L’ordinarietà di una vita semplice, nella sua complessità.
In questo scritto, dove il “quasi” che sembra una riduzione quantitativa del significato, in realtà lo amplifica in questo stil novo 3.0 dolce e melanconico, dove la semplicità ha il colore delle pagine di un libro ingiallito dal tempo che passa, ma che resta, non si dimentica facilmente. Resta impresso, indelebile oserei dire, nella sensibilità di animi che ancora si emozionano davanti ai silenzi, ai discorsi muti dei parchi urbani. Un silenzio assordante che rievoca discorsi adolescenziali fatti di fotoromanzi, poste del cuore che arrivano alla parte più profonda suscitando moti dell’animo fermati da un pallone che rotola su un selciato fatto di terra battuta arsa dal sole che trafigge le foglie degli alberi.
Grand Hotel, Lancio, Elvis Presley, Bobby Solo, Little Tony. Le domeniche pomeriggio di un tempo passato che torna in un presente tra un palloncino a forma di cuore, simbolo di passioni mai avute. La diversità nel non seguire il corso, il gregge e trovare un rifugio romantico in una panchina isolata. Lo sguardo perso nel vuoto e nei libri, domande di vita alle quali non si riesce a dare risposte, che si cercano in testi ingialliti dal tempo che fugge in un domani senza certezze.
Signorì è un viaggio, un rimembrar ancora un tempo di una vita mortale, quando beltà splendea negli occhi “poco” ridenti e fuggitivi di una vita che torna con l’odore delle bucce dei mandarini bruciati nel camino dell’animo: e così sia! “Signorì”, come dice il titolo, è “una storia quasi d’amore” dove il mare di Nicotera si incontra con quello di Stabiae, dove la solitudine è nello stesso tempo ricchezza e povertà, dove l’amore si identifica con la nobiltà d’animo di una persona speciale che vive in un mondo suo, in bicicletta, che con la sua gentilezza, la sua ingenuità assurge ad una concezione di Amore come sorgente di perfezione morale e di elevazione a Dio.
“Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà”, un mangiadischi, un pacco dal quale estrarre un 45 giri di Luigi Tenco, il cantautore crepuscolare delle piccole cose.
“Avevo nel cuore il sentore dell’amore, lo percepivo negli altri, ma non l’ho mai sfiorato signorì. Non mi sono manco mai permessa di pensarlo o di cercarlo. Sarebbe stato come comprare un paio di scarpe a una persona nata senza gambe… Però l’ho sognato, questo sì. L’ho sognato per tutta la vita, sì signorì! Potete pure pensare che non tengo tutte le rotelle a posto, ma io mi sono accontentata di immaginarlo e di sognarlo.”
In queste parole una struggente, malinconica, sconsolata rassegnazione e una sferzante, quasi nevrastenica, ansia di sovversione e rinnovamento. Un testo romantico, struggente dove il tempo si sciupa in un’immobilità ottusa e consapevole, in una vita che scorre atta ad ingoiare l’aria. Poi la fabbrica di biciclette, le piccole mani che intrecciano cestini, la preoccupazione di una madre: una donna deve trovare marito, il retaggio di un tempo passato, ma presente.
“Piccerè, davanti all’amore non possiamo niente” dove l’amore si identifica con un nome: Antonio.
Non mi resta che augurarvi buona lettura.