Per pubblicare articoli su riviste predatorie – vale a dire quelle pubblicazioni che millantano standard scientifici senza rispettarli – professori e ricercatori italiani hanno speso oltre 2.5 milioni di dollari. È un dato che certamente fa riflettere quello che emerge in uno studio condotto da Mauro Sylos Labini, del dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, da Manuel Bagues, dell’Università di Warwick in Inghilterra, e da Natalia Zinovyeva, dell’Università di Aalto in Finlandia. Lo studio rivela come la scienza sia ammaliata da un notorietà che poco ha a che fare con l’autorevolezza.
I settori più colpiti
L’indagine è stata compiuta confrontando i curricula di 46mila ricercatori e professori, che hanno partecipato alla prima edizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale del 2012-13, una procedura che serve per partecipare ai concorsi per diventare professore nelle università italiane. La ricerca ha mostrato che, a livello complessivo, oltre il 5% di questi partecipanti ha pubblicato su riviste cosiddette “predatorie”, vale a dire con poca affidabilità. I settori scientifici maggiormente interessati sono economia aziendale, organizzazione e finanza aziendale. Per l’aspetto economico, lo spreco di risorse sembra essere maggiore in medicina, dove alcuni ricercatori hanno pagato fino a 2.500 dollari per pubblicare un singolo articolo.
Cifre esorbitanti
Pubblicare su questo tipo di riviste comporta un notevole esborso economico. «Una stima prudente basata sulla nostra indagine suggerisce che, per pubblicare circa 6000 articoli, i ricercatori del campione hanno speso più di due milioni e mezzo di dollari, con una media 440 dollari ad articolo – dice Mauro Sylos Labini –. Parte di questa cifra esce direttamente dalle tasche dei ricercatori, ma parte proviene anche da fondi di ricerca pubblici». Si tratterebbe di una stima per difetto, che non tiene conto delle spese sostenute dai ricercatori per prendere parte alle conferenze a margine delle pubblicazioni. L’aspetto economico è solo la punta dell’iceberg: «Il fatto che molti ricercatori e professori pubblichino articoli su queste riviste e le inseriscano nei loro curricula dimostra che ci sono enormi problemi nella valutazione della ricerca» conclude Labini.
ndr