Le foreste di Gura Ferda, nella regione sudoccidentale dell’Etiopia, sono uno dei luoghi ancora inesplorati dell’Africa e potrebbero riservare delle sorprese per quanto riguarda la scoperta di nuove specie. Per questa ragione, la PAMS Foundation, il Natural History Museum di Londra e l’Ethiopian Biodiversity Institute di Addis Abeba hanno avviato una spedizione in quest’area remota che rivistanatura.com segue passo passo, raccontando il primo sguardo in assoluto sulla biodiversità di queste foreste. Otto mesi fa, la spedizione di PAMS Foundation, Natural History Museum of London, Ethiopian Biodiversity Institute usciva dalla foresta di Gura Ferda, dopo 20 giorni della prima esplorazione biologica mai fatta in quelle foreste. Un tempo ancora non sufficiente per analizzare tutti i dati che sono stati raccolti in quelle settimane, ma sufficiente per lasciarci dare un “primo sguardo” a una foresta che, finora, era stata descritta solo grazie a immagini aeree e dati satellitari. La prima sensazione che Michele Menegon di PAMS Foundation ha avuto è stato stupore: «Mi sono trovato in una foresta assolutamente integra, del tutto naturale. La sua struttura varia – in parte su crinali, in parte su altopiani – e intervallata da vaste zone paludose era ovunque quella di una foresta intoccata da lunghissimo tempo: nelle zone pianeggianti, infatti, la frequenza degli alberi emergenti e la chiusura della chioma impediva la crescita di un sottobosco fitto e intricato. Era come camminare fra grandi colonne. Questo è uno dei segni di prolungata mancanza di disturbo».

- Hai visitato molte foreste dell’Africa orientale, dal Congo al Mozambico. Cosa ti ha colpito di Gura Ferda rispetto alle altre?
«Quello che più mi ha colpito è stata la totale assenza di segni di presenza dell’uomo. Mi ha stupito perché l’Etiopia è il secondo paese più popoloso d’Africa e, negli ultimi decenni, ha perso gran parte delle foreste proprio per la necessità di creare nuovi spazi agricoli per una popolazione crescente; e il terreno più adatto a fare agricoltura lì è proprio quello degli altipiani, esattamente il tipo di altipiani dove si sviluppa Gura Feda».
- Come spieghi, allora, la mancanza di tracce umane?
«In realtà questa parte di Etiopia al confine con il Sud Sudan è quella meno densamente popolata, per cui gli habitat hanno potuto resistere più a lungo. Quando parliamo di foreste inesplorate, intendiamo dal punto di vista biologico, cioè mai, finora, teatro di investigazioni scientifiche. Foreste in cui non si sa che specie vivono e che, dal momento che generalmente si tratta di foreste montane rimaste a lungo isolate, contengono potenzialmente specie nuove per la scienza. Ciò nonostante, seppur inesplorate agli occhi dei ricercatori, raramente lo sono agli occhi degli abitanti locali. Purtroppo molto spesso ci imbattiamo in segni di bracconaggio, come trappole di vario genere usate per antilopi, scimmie, giant pouched rat, scoiattoli. Vicino alle tracce degli animali, poi non è raro vedere sentieri umani aperti nella vegetazione con il machete o le profonde buche utilizzate per il pit sawing, una tecnica particolare per tagliare i tronchi abbattuti. È raro trovare foreste davvero intoccate; l’area di Gura Ferda, però, è stata disabitata per lungo tempo e gli abitanti attuali sono immigrati recenti, che non hanno quindi la cultura della foresta. Ha avuto tutto il tempo di recuperare la sua “naturalità”. Vedremo cosa succederà quando l’attuale popolazione aumenterà di numero e avrà bisogno di più risorse…».
- Questa esplorazione biologica è stata la prima in assoluto in quella zona. Cosa cercavate?
«Conoscevamo Gura Ferda solo da foto aeree e satellitari. Essendo rimasta isolata per molto tempo, volevamo sapere se questo isolamento avesse generato in questa foresta una fauna peculiare, diversa da quella vaste foreste dell’ovest dell’Etiopia. Per capirlo abbiamo cercato in particolare rettili, anfibi e mammiferi. Abbiamo trovato una componente faunistica simile agli altri frammenti di foresta della parte occidentale dell’acrocoro etiope, la parte occidentale del grande massiccio etiope separato dal Rift, il contesto forestale è il più integro che abbiamo mai visto. Abbiamo visto colobi bianchi e neri, Blue monkey il tragelafo striato, piccoli carnivori come genette e manguste e dalle comunità locali abbiamo avuto notizia di elefanti e leoni ma che comunque non si avventurano nella parte più fitta della foresta. Abbiamo trovato diversi anfibi che appartengono a gruppi che conosciamo ma che dobbiamo ancora identificare con sicurezza. In generale ho trovato la foresta forse meno ricca di quanto mi aspettassi e sperassi. L’Etiopia possiede foreste molto speciali, ricche di una fauna che non esiste da alcuna altra parte del mondo. Gura Ferda, per il momento, non è parsa altrettanto ricca ,ma c’è da dire che ne abbiamo esplorato solo una piccolissima parte. Esplorare una foresta intonsa significa aprirsi la via con il machete e orientarsi con il solo riferimento del GPS; in altre parole significa muoversi molto lentamente e riuscire a coprire superfici ridotte. Per farti un esempio: all’interno della foresta ci sono grandi zone umide senza alberi, un tipo di habitat che ci interessava moltissimo campionare. Avevamo la posizione GPS di queste aree che erano a 6 km dal nostro campo. Ma fra noi e loro c’erano paludi invalicabili e profonde valli, che ci hanno respinto più volte. Ci abbiamo messo 2 giorni a raggiungerle».
- Immagino che come ogni naturalista anche tu abbia qualche preferenza. C’era qualcosa in particolare che sognavi di vedere?
«Quella parte di Etipioa è territorio della Bitis parviocula, una grossa vipera di foresta. Le vipere sono la mia passione, sono bellissime, e questa in particolare è massiccia e può avere dei colori incredibili. Purtroppo non l’ho vista, ma solo un paio di gironi dopo la nostra partenza le comunità locali ci hanno segnalato un avvistamento… peccato, sarà per la prossima volta».
- È ancora preliminare perché le indagini genetiche sono ancora in corso, ma credi ci siamo specie nuove fra quelle che avete trovato?
«Potrebbe esserci un camaleonte e due specie di rane arboricole, ma non abbiamo ancora ultima parola. In generale gli anfibi dell’Etiopia occidentale sono molto poco conosciuti e potenzialmente ognuno potrebbe essere nuovo».
- Quali sono le ricadute previste dalla spedizione e credi che i dati che avete raccolto rappresentino un contributo concreto al raggiungimento degli obiettivi?
«Le ricadute sono di due tipi: una puramente scientifica e una di conservazione. Oggi stiamo rapidamente – e spesso per il beneficio di pochi – perdendo parti consistenti del nostro patrimonio naturale, per cui la conoscenza scientifica di ciò che ancora esiste e non conosciamo è fondamentale. Tutto ciò che c’è là fuori costituisce il nostro patrimonio, le risorse alla base della nostra società. Le informazioni scientifiche, inoltre, sono la base su cui pianificare azioni che garantiscano la sopravvivenza della foresta a lungo termine. Informazioni che, una volta elaborate, diventeranno conservazione».
- Viviamo in tempi in cui il semplice contatto con la Natura è un’esperienza sempre più rara. Cosa si prova a entrare in un’immensa foresta inesplorata?
«Privilegio. Il nostro mondo è diventato piccolo e addomesticato. Ci muoviamo sui sentieri e strade che ci siamo costruiti. Abbiamo tenuto fuori gran parte della bellezza del mondo e qui c’è ancora tanta. Una bellezza fatta di apparizioni inaspettate, di una componente di pericolo, una ricchezza biologica immensa. Tutte cose che rendono la vita interessante. Quando entro in una foresta ho la sensazione di riappropriarmi della mia reale dimensione di organismo fra gli organismi, e, al di là della conoscenza di cui dispongo come essere umano, mi dà un particolare piacere l’idea che in questi posti sia ancora possibile perdersi e diventare, come altri, preda. Mi riporta alle nostre reali dimensioni. È molto sano».
- Questa prima esplorazione è stata solo l’inizio di un progetto molto più vasto. Quali saranno i prossimi passi?
«Sicuramente il documentario che il gruppo di HomeBrew, la troupe sudafricana che ci ha accompagnato, sta ultimando. Poi certamente la pubblicazione dei risultati scientifici. Ma, molto importante, stiamo già discutendo con le autorità etiopi per valutare quali azioni di conservazione poter programmare».
- Sarà di nuovo Gura Ferda la tua prossima avventura?
«Vorrei tornare nei luoghi in cui, ultimamente, ho solo iniziato a “grattare la superficie” per raccogliere un buon numero di informazioni. Questi luoghi sono le foreste del massiccio di Kabobo, dove siamo stati nel 2017 e Gura Ferda. Fra i due… mi piacerebbe tornare a Kabobo: è un luogo vasto sconosciuto e con potenzialità enormi sia dal punto di vista scientifico, sia di conservazione, ma soprattutto con un continuum di biodiversità di oltre 2000 metri: dalle sponde del lago alle cime dove ci sono foreste, praterie e paludi in uno dei paesi ancora meno conosciuti, la Repubblica Democratica del Congo. Vedremo…».
Luca Serafini