Gazzettino Italiano Patagónico

Luigi Sica

 

«Un’arma non produce alcuna sicurezza. Credetemi». Riflettevamo sulle parole di Luca Di Bartolomei, figlio di Agostino, indimenticato capitano di Roma, Milan e Salernitana, che si tolse la vita il 30 maggio di 24 anni fa sparandosi al petto con una pistola Smith&Wesson calibro 38. Una riflessione che riporta alla memoria una di quelle storie che non vorremmo mai raccontare: perché sono storie di paura e violenza, e non di quella paura e violenza che puoi vedere al cinema o in tv. Sono storie che commuovono e indignano l’opinione pubblica. E che, obtorto collo, non dobbiamo mai dimenticare per evitare di cadere in meccanismi simili. E ci rivolgiamo (soprattutto) ai più giovani. Sono passati oltre undici anni da quel 16 gennaio 2007, giorno in cui fu ucciso il “piccolo Maradona” Luigi Sica. Luigi aveva sedici anni, con le sue passioni infrante dall’assurda moda, purtroppo ancora diffusa tra i giovani, di girare armati per le strade di Napoli. Luigi ha da poco concluso un allenamento su un campetto di Secondigliano: coltiva il sogno di diventare come Fabio Cannavaro, fresco vincitore del pallone d’oro e capitano della nazionale laureatasi pochi mesi prima Campione del Mondo e dovrà tenere un provino a Parma per la squadra ducale. Una sera come tante: dopo l’allenamento, Luigi incontra gli amici in via Santa Teresa degli Scalzi, punto di ritrovo dei giovani del rione Sanità. Poco distante si è radunato un altro gruppetto di ragazzi. Tra questi, uno di nome Ciro. Scoppia una lite. Ciro riceve un ceffone e si allontana in compagnia di un suo amico quattordicenne, Mariano, minacciando Luigi con poche, inequivocabili parole: «Ti uccido.» Ed è proprio Mariano ad offrire a Ciro un coltello a serramanico con il quale si consuma il delitto. Tornato sul posto, Ciro uccide Luigi con tre coltellate. Successivamente, il killer viene condannato a 15 anni di carcere, il suo complice a 10. Abbiamo incontrato la mamma di Luigi, Anna, una donna prosciugata dal dolore ancora percettibile, che consuma la vita solo per amore dei tre figli che le sono rimasti. Accetta di ricordare, ma non crede che le parole servano a fermare la violenza. «Vivo soffrendo, nel suo ricordo. Non è facile tirare avanti, combattiamo giorno per giorno. Luigi era la mia gioia, come lo sono gli altri miei figli: amava il calcio, era una promessa del pallone. Quando lo hanno ammazzato era un ragazzo felice, sarebbe dovuto partire per Parma, dove doveva fare un provino. Sognava di diventare un grande calciatore. E invece. A me sono rimaste la sua divisa e le sue scarpette. Le guardo, le odoro per risentire il suo profumo. Le rimetto a posto. E poi ricomincio daccapo. Vivo nel ricordo. E sopravvivo solo grazie ai figli che mi sono rimasti.». Ricordare Luigi, e con lui altri innocenti colpiti dal crimine, significa creare le condizioni perché non si piangano nuove vittime. Investire sui bambini e sui giovani è per questo fondamentale: sottrae manovalanza alle organizzazioni malavitose, soprattutto nei quartieri a rischio di reclutamento mafioso; crea luoghi e strutture animate dallo spirito di socialità, dalla voglia di stare assieme, senza contrapporsi in clan e gruppetti rivali. Undici anni fa in via SantaTeresa degli Scalzi sono mancati questo spirito e questa voglia. E la violenza ha sottratto alla città uno dei suoi giovani. Un pezzo di futuro.

Andrea Fiorentino

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