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La sovra-pesca porta i mari al collasso: cosa possiamo fare?

 

Il nostro pianeta è un pianeta d’acqua. Gli oceani occupano il 71% della superficie terrestre, sono fonte di ossigeno, assorbono anidride carbonica e ospitano circa l’80% di tutte le forme di vita sulla Terra. Si potrebbe pensare che siano una fonte inesauribile di cibo, eppure i sistemi di pesca moderni e l’aumento esponenziale della popolazione mondiale non favoriscono gli oceani, anzi, hanno ripercussioni profonde sugli organismi, uomo compreso.

Imparare dalla storia

Tra le lezioni universitarie tenute dal Professore ed esperto di ecologia e biologia marina Giuseppe Notarbartolo di Sciara, ce n’è una in particolare che invita gli studenti a riflettere sulla scarsa capacità di autocontrollo della nostra specie. Il navigatore ed esploratore Giovanni Caboto, spiega il docente, riferì che lungo le coste dell’Isola di Terranova la quantità di merluzzo era talmente elevata che si poteva camminare su di esso. La pesca si fece così intensa che, generazione dopo generazione, la specie subì un crollo e fu dichiarata commercialmente estinta negli anni 70. Non solo il merluzzo era giunto al tracollo, ma lo era anche l’economia che su di esso si basava. Episodi come questo non sembrano essere stati un input per gestire con più saggezza le risorse ittiche. Un caso simile è quello del tonno rosso, o tonno pinna azzurra (Thunnus thynnus) del Mediterraneo, ambito dai ristoranti giapponesi per preparare sushi e sashimi. Come riportato dal Worldwatch Institute, la sovrapesca e la pesca illegale stanno portando la popolazione e l’industria del tonno rosso al collasso.

Oceani e metodi di pesca

La crescita demografica comporta l’aumento della domanda di prodotti ittici. Riprendendo una citazione di Wolfran Heise: «È impossibile produrre pesce su scala industriale in modo eco-sostenibile». Secondo fonti FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) la quantità di pesce che ogni hanno viene pescata ammonta tra 90 e 100 milioni di tonnellate e il 70% delle specie ittiche negli oceani è sfruttato o esaurito. La produttività degli oceani continua a calare e i danni causati dai metodi di pesca intensiva mettono a rischio l’ecosistema. La pesca moderna si avvale di tecniche sempre più sofisticate volte a massimizzare il profitto, che fanno uso di reti a circuizione, reti da posta, palangari e reti a strascico. La pesca a strascico di fondo è estremamente dannosa per l’ecosistema marino perché distrugge il fondale, lasciando dietro di sé zone deserte prive di fauna e flora. Non scordiamoci delle reti da pesca fantasma abbandonate nei mari che vagano silenziose continuando a catturare pesci e altri organismi.

Impatto sull’eco-sistema marino

Tra gli effetti collaterali della pesca intensiva vi sono il bycatch, o cattura accidentale, e lo scarto di pesca. Per bycatch si intende la pesca non intenzionale di specie che vengono catturate durante le operazioni di pesca. L’organizzazione Oceana stima che il bycatch annuo costituisca il 40% delle catture mondiali. Tra le vittime troviamo organismi marini carismatici quali balene, delfini, foche, tartarughe e squali, che rimangono intrappolati nelle reti. Secondo la FAO 100 grammi di pescato corrispondono a 500 grammi di catture accidentali che vanno ad alimentare lo scarto di pesca. L’organizzazione va più nel dettaglio sostenendo che per soli 100 grammi di gamberetti, 2 chili di creature marine sono pescate e scartate. Il sovra-sfruttamento delle specie ittiche ha pesanti ripercussioni sulla rete trofica. È causa di modificazioni alle comunità ittiche con riduzione delle popolazioni di predatori apicali ed eccessiva proliferazione di specie sempre più piccole. Questo fenomeno, denominato dai ricercatori della University of British Columbia “fishing down marine food webs”, porta al collasso dell’equilibrio tra le specie e al degrado ambientale.

Pescare per nutrire i pesci

Secondo uno studio di John Bostock dell’Università di Stirling metà dell’offerta mondiale ittica per il consumo umano proviene dall’acquacoltura. In un primo momento potrebbe sembrare che l’allevamento di pesci sia una soluzione alla riduzione della produttività degli oceani, tuttavia il suo impatto pare ancora più devastante della pesca in mare. Basti pensare alla distruzione delle zone costiere per far spazio agli allevamenti e alla quantità di rifiuti prodotti da ambienti gremiti di pesci; vengono rilasciati coloranti, antibiotici e feci. L’insorgenza di malattie in ambienti sovraffollati è maggiore e l’evasione di un individuo malato dall’allevamento può comportare il contagio di individui sani presenti in aree limitrofe. Il documentario Al Capolinea (The End of the Line) di Rupert Murray ci spiega che per nutrire i pesci d’allevamento è necessario pescare pesci selvatici, che saranno trasformati in mangime. La Food and Water Watch afferma che per produrre 100 grammi di pesce allevato sono necessari fino a 600 grammi di pesce selvatico.

Eutrofizzazione e pesci per il bestiame

La salute degli oceani è ulteriormente compromessa dagli allevamenti di bestiame terrestri e dalla coltivazione di colture foraggere. Sono infatti causa del rilascio nei mari di acque di scolo, letame, fertilizzanti chimici e pesticidi. I ricercatori Peter Castro e Michael Huber sostengono che tali sostanze costituiscano la principale fonte antropica di azoto (N) e fosforo (P) che è all’origine dei fenomeni di eutrofizzazione, ovvero eccessiva crescita algale. A causa dell’elevato tasso di decomposizione delle alghe, i livelli di ossigeno crollano, rendendo aree di mare incapaci di supportare la vita. Si formano così le dead zones o zone morte che, secondo il VIMS (Virginia Institute of Marine Science), hanno raggiunto il numero di 405 lungo le acque costiere a livello globale, coprendo un’area di 95.000 chilometri quadrati. La direttrice amministrativa di Sea Shepherd, Susan Hartland, sostiene che gli animali d’allevamento terrestri sono responsabili del consumo di enormi quantità di prodotti ittici. La farina e l’olio di pesce sono alcuni dei prodotti comunemente noti in inglese come forage fish, o pesce foraggio, che derivano dal pesce e vengono inseriti nella dieta di mucche, maiali e polli. Da quanto riportato da Daniel Pauly, responsabile scientifico del progetto Sea Around Us, il 36% del pescato totale sarebbe destinato a sfamare il bestiame. Pare quindi evidente: peschiamo pesce per nutrire il bestiame che sfama l’uomo.

Possiamo invertire questo trend?

È evidente che i dati correnti sulla pesca non sono confortanti e, apparentemente, potrebbe sembrare che non ci siano soluzioni immediate a un problema così complesso. Tuttavia, come afferma Daniel Pauly «Dobbiamo insistere verso il cambiamento». Il biologo marino sottolinea l’urgenza di un movimento dal basso verso l’alto in cui i cittadini siano consapevoli delle conseguenze delle proprie scelte alimentari. Un consumo saggio delle specie ittiche, continua Pauly, non è sufficiente a fare la differenza nei nostri mari, al fine di combattere la pesca intensiva, ma reputa che possa comunque essere un primo passo verso il miglioramento. Inoltre, è fondamentale che il mondo scientifico sia parte integrante di questo movimento, per fornire al cittadino dati reali su cui basarsi per prendere le proprie decisioni. Allo stato attuale, non possiamo più pensare che nutrirci di pesce proveniente dall’industria ittica sia ambientalmente sostenibile. La soluzione più efficace per invertire il trend risiede nel cambiamento delle abitudini alimentari che ci hanno portato a questo punto e richiede la massima rapidità e impegno da parte nostra.

Ylenia Vimercati

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