LUCA STEINMANN
Quando all’imbrunire si entra nella valle che ospita la città di Maaloula la fioca luce del sole calante rende difficile distinguere le case dalle montagne che le sovrastano. Le abitazioni che compongono questa antica cittadina cristiana, infatti, assumono la stessa tonalità rosea-marrone delle rocce a strapiombo, dello stesso colore è anche la nuova statua della Madonna che dal fondovalle guarda verso sud, in direzione di Damasco. Quella vecchia è stata divelta dai ribelli che nel 2013 conquistarono la città. Quando poi nel 2015 l’esercito siriano ha ripreso il controllo della valle i suoi soldati hanno immediatamente iniziato a ristrutturare i simboli distrutti durante il periodo d’occupazione per testimoniare come con il loro ritorno stesse riaffiorando anche la tutela per le minoranze religiose.
Una delle più antiche comunità cristiane
Maaloula è una delle più antiche comunità cristiane della storia. Insieme alla vicina città di Sednayah è una delle roccaforti cristiane della Siria dove si parla ancora l’aramaico, la lingua già utilizzata ai tempi di Gesù Cristo che solo in queste profonde valli è stata tramandata attraverso i secoli. I suoi monasteri, ospitati nelle gallerie naturali dentro la roccia, sono tutt’ora meta di pellegrinaggi religiosi provenienti da tutto il mondo. Quanto i ribelli scesero dalle montagne e presero il controllo della città iniziarono a distruggere i simboli della cristianità. Per i cristiani della Siria come di tutto il mondo, infatti, non dovevano rimanere riferimenti architettonici, naturali e spirituali. Oggi camminando per Maaloula i danni lasciati dall’occupazione sono ancora ben tangibili nelle case, nelle chiese e nelle persone. Il portone d’ingresso di una chiesa, un tempo ornato di decorazioni in stile bizantino, è stato abbattuto. Al suo interno molte statue sono state distrutte o decapitate. Molti quadri un tempo appesi alle pareti sono stati staccati, buttati a terra e pestati dagli stivali degli occupanti.
Cancellare la storia
Un destino analogo a quello di Maaloula è toccato a Palmira, l’antica cittadella romana dispersa nel deserto siriano, 200 chilometri più a nord. Le sue imponenti colonne millenarie, i suoi enormi anfiteatri, gli archi e le muraglie sono stati in gran parte distrutti durante il periodo di occupazione dell’Isis, terminato nella tarda primavera del 2017. Ciò che è rimasto in piedi è stato imbrattato da scritte e graffiti inneggianti al califfato e alla morte degli infedeli, oppure è stato macchiato dal sangue dei soldati nemici che su di esso venivano impiccati e crocifissi. Ciò che non è stato distrutto è stato appositamente rovinato, offeso, di modo che non torni più ad essere come prima.
Tanto l’Isis quanto i ribelli di Maaloula hanno adottato la stessa apparentemente folle strategia, che in realtà mira ad obiettivi ben definiti. «Perché prendersela gratuitamente con così tanta bellezza?», mi sono chiesto ogni volta che ho visitato queste città. Dal punto di vista politico, infatti, le distruzioni hanno arrecato solo danni al fronte di rivoluzione contro Assad. Se durante le prime fasi del conflitto tanto l’Isis quanto i ribelli avrebbe potuto dipingersi come dei combattenti per la libertà in lotta contro la dittatura siriana, distruggendo Maaloula e Palmira si sono fatti identificare dal mondo con un volto diverso, quello dei nemici della civiltà.
Senza più riferimenti
Una spiegazione interessante mi è stata fornita da Maria Saadeh, noto architetto siriano: «I terroristi hanno cercato di cancellare ogni elemento storico e architettonico che ricordasse ai siriani di avere un passato comune, di essere discendenti di una storia, di una tradizione e di valori che ci sono stati donati dai nostri padri e che per millenni ci hanno permesso di vivere in pace». La distruzione della Siria e lo sradicamento dei suoi abitanti sarebbe dunque servito per fare tabula rasa e creare dal nulla una nuova società senza storia né radici su cui sarebbe dovuto sorgere il califfato o comunque una nuova società in cui la convivenza religiosa non avrebbe trovato spazio.
Questa interpretazione è coerente con le parole del sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi quando, proclamando la nascita del sedicente Stato islamico, disse: «Accorrete perché la Siria non è dei siriani e l’Iraq non è degli iracheni. Lo Stato e la terra sono per tutti i musulmani». Il leader dell’Isis si rivolge soprattutto alle nuove generazioni di musulmani occidentali e occidentalizzati ai quali offre una visione: non il ritorno alle proprie origini per riscoprire un’identità che l’Occidente ha loro negato, bensì la convergenza verso un mondo moderno e globale fuori da ogni limite geografico e temporale, senza origini, senza radici, senza antenati, senza responsabilità, senza patria e senza confini (non a caso i militanti dell’Isis non riconoscono il concetto europeo di Stato-nazione e hanno cancellato appositamente le frontiere tra la Siria e l’Iraq).
Questa tesi trova conferma nelle analisi di Olivier Roy, secondo cuil’obiettivo ideologico dei terroristi è quello di creare un uomo nuovo islamico attraverso la privazione ai siriani di ogni legame con il proprio passato e con le proprie radici e staccandoli da ogni appartenenza nazionale, tribale, razziale, etnica, affettiva e famigliare. In sintesi, pensando globalmente, vogliono creare un musulmano globale che rifiuti ogni forma di radicamento e di accettazione degli insegnamenti dei propri padri.
L’uomo nuovo senza più radici
Questa idea di uomo nuovo senza radici è la stessa che ha animato alcune derive ideologiche del ‘900 occidentale. Il rifiuto degli insegnamenti delle generazioni precedenti per la creazione ex novo di una nuova società è stata l’idea che ha animato tanto i Khmer Rossi in Cambogia, quanto la Banda Baader-Meinhof in Germania e ampie fette dei movimenti di protesta del Sessantotto in tutto l’occidente. Si tratta di una visione del mondo che con il suo rifiuto dei limiti posti dalle radici, dalle tradizioni e dai confini ben si presta per affermarsi, in diverse forme e in diversi contesti, nel mondo globalizzato.
Anche quando l’Isis verrà definitivamente sconfitto, anche quando i ribelli verranno cacciati, anche quando la guerra in Siria terminerà, rimarranno le contraddizioni di un mondo moderno che purtroppo sta mostrando di non avere sempre gli anticorpi contro queste forme di terrorismo. A pagarne le spese non saranno soltanto oggi i siriani e domani qualche altro popolo, bensì tutti noi.
In uno stretto e tortuoso vicolo di Maaloula che dal centro conduce verso la montagna c’è la casa di Dan. Meno di 30 anni, nativo di questa città, per difendere la sua famiglia dall’arrivo dei ribelli ha imbracciato le armi e ha vinto la battaglia. Oggi Maaloula è libera e i cristiani possono tornare a vivere liberamente. Durante i combattimenti Dan ha perso entrambe le gambe e oggi passa le sue giornate sdraiato su un letto nel salotto di casa sua, circondato dai suoi cari. La sua vita non è però mai ferma. E’ infatti l’animatore di un’associazione che si occupa di dare assistenza e futuro ai tanti, troppi, mutilati di questa guerra. Loro, le prime vittime di una guerra che stanno combattendo perché questa non arrivi fino a noi.