Gazzettino Italiano Patagónico

I piccioni non sono tutti uguali, ovvero l’importanza del singolo

Domanda filosofico-esistenziale del figlio tredicenne: «Papà, secondo te, nella mia vita ho mai incontrato due volte lo stesso piccione? ».

Reprimendo con un leggero colpo di tosse il primo spontaneo scoppio di risa e superando l’immediato retro-pensiero che sorge subito dopo («Ma questo non ha niente di meglio a cui pensare?»), se ci soffermiamo qualche istante in più a riflettere sull’originale domanda del ragazzino ecco che presto ne cogliamo la profondità ed anche la struggente attualità. Dietro al tentativo di distinguere tra due piccioni, in apparenza tutti uguali nella loro sobria livrea grigia, vi è il tema dell’individuo, della differenza tra personalità ed individualità, della necessità di riconoscere un genere certo (soprattutto oggi, quando si parla di transgender, Lfbt, ecc.) , ma anche un singolo soggetto, con la sua storia unica.

E poi c’è il tema dell’incontro, anche casuale, ma che comunque può contribuire ogni volta allo sviluppo della nostra personalità, dove il diverso in questo caso è indicazione di riconoscimento. Il piccione che stava osservando mio figlio aveva un occhio leso, che lo rendeva brutto ma anche immediatamente riconoscibile dagli altri uccelli del piccolo stormo che becchettava in piazza del Duomo a Pavia.

I piccioni non sono tutti uguali, ovvero l’importanza del singolo

La differenza che rende riconoscibili

Non a caso gli etologi individuano piccole ferite, menomazioni o segni che consentano il riconoscimento dei singoli individui tra popolazioni di animali dove, ai nostri occhi estranei, tutti i soggetti sono uguali. Ecco allora la forma e i segni delle pinne in delfini ed altri cetacei, i disegni alla base del becco nei cigni, le pieghe facciali nei gorilla, i bordi delle orecchi e la forma della proboscide negli elefanti, lo sviluppo e la forma delle corna nei cervi e in molti ungulati, le macchie o le strisce del mantello in leopardi, ghepardi, tigri ma anche nelle zebre e nelle giraffe. Quando poi tali segni naturali sono difficili da individuare si ricorre ad anelli, targhette, placche alari, radiocollari o addirittura a microchip e trasmettitori satellitariinstallati in vari modi più o meno creativi, con la presunzione di non fare male od infastidire l’animale. E poi sistemi ancora più sofisticati, come lo studio dei sonogrammi di canti e richiami, negli uccelli ma anche in animali dove il suono non è percepibile dall’orecchio umano, come nei pipistrelli, dove l’occhio attento del ricercatore esperto, con l’indispensabile aiuto del computer e di altri strumenti speciali (es. il bat-detector), può riconoscere addirittura “la voce” del singolo individuo.

L’importanza del singolo per capire il gruppo

Perché se è vero che apprezziamo e comprendiamo meglio il comportamento animale attraverso lo studio delle loro popolazioni, ovvero osservando un numero sufficiente di individui, è nell’incontro con il singolo soggetto, riconosciuto e riconoscibile, che sviluppiamo empatia e di conseguenza coinvolgimento. Non a caso a quasi tutti gli animali che vengono osservati per un tempo sufficientemente lungo viene prima o poi dato un nome, come del resto sapeva bene quel furbone di Walt Disney, quando prima dei suoi famosi cartoni animati propinava dei documentari smaccatamente antropocentrici ma con un animale, opportunamente battezzato, come protagonista “buono”. Al contrario il protagonista cattivo spesso non aveva nome (nei documentari, non nei cartoon), un modo per tenere le distanze, per essere meno coinvolti anche in vista della fine miseranda che prima o poi doveva fare.

Quante riflessioni si potrebbero fare da queste considerazioni anche per le vicende umane di oggi!

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