A Parma in mostra Bruno Munari

Una delle Figure più Iconiche del Designer e delle Comunicazione Visiva del Novecento

Giovanni Cardone 

Fino al 30 Giugno 2024 si potrà ammirare presso la Fondazione Magnani – Rocca Parma la mostra dedicata a Bruno Munari . Tutto a cura di Marco Meneguzzo. L’esposizione di circa 250 opere tra oggetti di design, grafiche e studi di pedagogia mostra settant’anni di lavoro di quella che è una delle figure più rappresentative del design e della comunicazione visiva del Novecento, il Peter Pan del design italiano, come definì Munari il critico d’arte francese Pierre Restany. Il lavoro di Munari negli ultimi anni è stato oggetto di una rinnovata attenzione, finalmente anche in campo internazionale, dopo i riconoscimenti ottenuti in vita, soprattutto in Paesi quali il Giappone, gli Stati Uniti, la Francia, la Svizzera e la Germania,  oltre naturamenle in Italia. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Bruno Munari apro il mio saggio dicendo :  Posso dire che la sua formazione artistica muove dalle esperienze pittoriche condotte nell’ambito del Futurismo, dal quale trarrà la sua ricerca visuale e l’interesse per l’oggetto nella sua complessa definizione e identificazione di caratteri, attributi e significati. Nel 1925 conosce Marinetti, simpatizza con Balla e Prampolini, i futuristi che lo influenzarono maggiormente. Dal 1927 partecipa alle collettive futuriste: espone alla milanese Galleria Pesaro, alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma e a Parigi. Sono del 1933 le sue prime «macchine inutili», concepite secondo i presupposti dell’arte programmata, che lo rendono famoso negli ambienti artistici dell’epoca. Inventa «L’agitatore di coda per cani pigri», studia «il motore per tartarughe stanche». Nel 1939 diventa art director della rivista Tempo. Con Max Huber collabora alla creazione dell’immagine della casa editrice Einaudi. Del 1945 è il suo primo multiplo cinetico «Ora X» del 1948 -49 i suoi «libri illeggibili» del 1951 le «strutture continue» tridimensionali, gli esperimenti sul «negativo-positivo» e quindi successivamente quelli sulla luce polarizzata per proiezioni dalla materia; i numerosi film di ricerca, la progettazione di oggetti di arte cinetica; le sue famose «sculture da viaggio» in cartoncino piegabile oggetti di ornamentazione estetica, progettati allo scopo di creare un punto di riferimento, in qualche modo coincidente col proprio mondo culturale, da collocare nelle anonime camere di albergo o in qualunque altro luogo non caratterizzato. Seguono le «Xerografie originali», i «Polariscop», gli oggetti flessibili «Flexy», i giochi per i bambini e tanti vari oggetti di arte cinetica. A questa intensa ricerca nel campo della sperimentazione visiva e attività nel campo della progettazione, s’accompagna quella non meno costante e feconda nel campo della grafica, in quello degli allestimenti e in quello della saggistica. Tra i suoi numerosi scritti, fondamentali sono «Design e comunicazione visiva»  del 1968, «Arte come mestiere»  del 1966, «Artista e designer»  del 1971, «Codice ovvio»  del 1971. Premi e riconoscimenti gli giungono da ogni parte del mondo: il premio della Japan Design Foundation del 1985, quello dei Lincei per la grafica  del 1988, il premio Spiel Gut di Ulm  del 1971 in seguito verrà premiato nel 1973 e nel 1987mentre nel 1989 gli viene conferita laurea ad honorem in architettura dall’Università di Genova.»Il design dà qualità estetica alla tecnica. Non nel senso dell’arte applicata, come si faceva una volta quando l’ingegnere che aveva ideato la macchina per cucire, chiamava un artista che gliela decorasse in oro e madreperla, bensì nel senso che l’oggetto e la sua forma estetica siano una cosa sola ben fusa assieme, senza alcun riferimento a estetiche preesistenti nel campo dell’arte cosiddetta pura. Un oggetto progettato dal designer non risente dello «stile» personale dell’autore dato che il designer non dovrebbe avere, a priori, uno stile col quale dar forma a ciò che progetta, come avviene quando un artista si improvvisa designer ovvero l’oggetto prodotto dal designer dovrebbe avere quella «naturalezza» che hanno le cose in natura: una cavalletta, una pera, una conchiglia, una scarica elettrica; ogni cosa ha la sua forma esatta. Sarebbe sbagliato pensare queste cose in stile: una cavalletta a forma di pera, una scarica elettrica a forma di, quindi un settore diverso dal design, che ha una sua precisa funzione, è lo styling, dove si progetta moda, dove la fantasia e la novità sono dominanti, per un consumo rapido della produzione. Il vero design non ha stile, non ha moda; se l’oggetto è giusto, nel design non si dice bello dura sempre. Oggetti di design ignoto si usano da sempre: il leggio a tre piedi dell’orchestrale, la sedia a sdraio da spiaggia». Bruno Munari è una della grandi figure del design e della cultura del XX secolo. Milanese, ha vissuto tutte le età più significative dell’arte e del progetto, diventandone un assoluto protagonista sin dagli anni Trenta, con la creazione delle «macchine inutili» e con il contemporaneo lavoro di grafica editoriale, del tutto innovativo nel panorama europeo. Ma è nel secondo dopoguerra che Munari si afferma come uno dei «pensatori» di design più fervidi: la collaborazione con tutte le aziende più importanti per la rinascita del Paese  dalla Einaudi alla Olivetti, dalla Campari alla Pirelli e una serie di geniali invenzioni progettuali  spesso realizzate per la ditta Danese  ne fanno un personaggio chiave per la grande stagione del design italiano. Grafica, oggetti, opere d’arte, tutto risponde a un metodo progettuale che si va precisando con gli anni, con i grandi corsi nelle università americane, come l’MIT, e con il progetto più ambizioso di tutti, che è quello dei laboratori per stimolare la creatività infantile, che dal 1977 sono tuttora all’avanguardia nella didattica dell’età prescolare e della prima età scolare. La sua costante ricerca è stata quella dell’approfondimento di forme e colori, variabili secondo un programma prefissato, e della autonomia estetica degli oggetti. Tali premesse hanno trovato conferma nella pratica dell’industrial design. La sua poliedrica capacità comunicativa si è manifestata nei campi più disparati: pubblicità e comunicazione industriale libri per la scuola L’occhio e l’arte. L’educazione artistica per la scuola media, 1992; Suoni e idee per improvvisare. Costruire percorsi creativi nell’educazione musicale e nell’insegnamento strumentale, 1995, entrambi in collaborazioni inventò giochi, laboratori grafici e libri di ricerca. Munari amava raccontarsi e diceva : “All’improvviso senza che nessuno mi avesse avvertito prima, mi trovai completamente nudo in piena città di Milano, il 24 ottobre 1907. Mio padre aveva rapporti con le più alte personalità della città essendo stato cameriere al Gambrinus, il grande Caffè Concerto di piazza della Scala, dove si riunivano tutte le persone importanti a bere un tamarindo dopo lo spettacolo. Mia madre, in conseguenza di ciò, si dava delle arie ricamando ventagli. A sei anni fui deportato a Badia Polesine, bellissimo paese agricolo dove si coltivavano i bachi da seta e le barbabietole da zucchero. Il caffè veniva dal Brasile, a piedi nudi. Sulla piazza del paese, tutta di marmo rosa, si passeggiava a piedi nudi nelle sere d’estate. Nel caffè niente zucchero. Le vacche erano nel Foro Boario dove improvvisavano ogni mercoledì (mercato) dei cori, non come alla Scala, ma con molto impegno. Dopo le vacche ho avuto rapporti carnali con l’arte e sono tornato a Milano nel 1929 e un giorno di nebbia ho conosciuto un poeta futurista Escodamè che mi fece il favore di presentarmi a Filippo Tommaso Marinetti e fu così che inventai le macchine inutili. E adesso sono ancora qui a Milano dove qualcuno mi chiede se faccio ancora le macchine inutili oppure se sono parente col corridore (che poi era mio nonno, mentre lo zio Vittorio faceva il liutaio e il cuoco. Scusatemi se lascio la parentesi aperta.” Dopo aver trascorso l’infanzia in un piccolo paesino del Veneto, nel 1926 Bruno Munari torna a Milano, città che diventerà il centro della sua attività artistica. Qui uno zio ingegnere lo assume nel suo studio e lo aiuta ad integrarsi nella metropoli. Il primo incontro con i futuristi milanesi risale al 1926, ma è bene ricordare che l’artista sente parlare del futurismo per la prima volta ancora adolescente, nell’albergo dei genitori. Lo stesso Munari racconta infatti: Prima della guerra passavano dei viaggiatori di commercio che si fermavano una o due notti, e fu uno di loro che mi parlò del futurismo. Ricordo che aveva al collo un fazzoletto, cosa strana perché allora si portava solo la camicia con la cravatta, e io mi entusiasmai per i suoi discorsi, avevo più o meno diciotto anni, e allora cominciai a fare dei disegni, ma senza sapere niente, inventando. L’incontro che sancirà l’ingresso di Munari nell’avanguardia, avviene invece girando per le librerie antiquarie, dove egli conosce il poeta futurista Escodamé. Questo incontro permetterà al giovane artista di conoscere Marinetti ed entrare nel gruppo di intellettuali che fonderanno il secondo futurismo milanese. Munari vede nel movimento futurista «l’espressione più coerente con l’idea del nuovo» nata durante i primi mesi passati in città: egli, che si avvicina al mondo dell’arte da un percorso non accademico, individua l’innovazione futuristica nel coinvolgimento di diverse discipline caratteristica essenziale nella successiva attività di Munari  in particolare l’attenzione ai problemi della grafica, della pubblicità e dell’arte applicata al quotidiano, in contrasto alle tendenze artistiche novecentiste e al recupero dell’arte classica e aulica. Nonostante Munari sia tra i fondatori del secondo futurismo milanese, le sue origini artistiche sono da ricercare nella prima esperienza futurista, quella di Balla, Boccioni, Carrà e Depero. Sarà significativo il rapporto con Enrico Prampolini, uno degli esponenti più importanti del primo futurismo, in particolare per la sua attenzione verso l’Europa e le esperienze d’arte internazionali  tra le due guerre, egli viaggia tra Ginevra, Praga, Berlino e Parigi, mantenendo stretti rapporti con gli ambienti delle avanguardie europee. Prampolini verrà citato da Munari come suo unico referente culturale e interlocutore di tutte le esperienze internazionali diffuse nel Vecchio Continente a partire dagli anni ’20. Gli elementi di contatto più evidenti tra Munari e l’avanguardia italiana si possono individuare all’interno del manifesto programmatico pubblicato nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero. Il documento Ricostruzione futurista dell’universo cita anzitutto l’uso di materiali poveri per la costruzione del «nuovo Oggetto (complesso plastico)». Anche nel Manifesto tecnico della scultura futurista firmato da Boccioni viene sottolineato il rinnovamento nell’uso dei materiali, in particolare attraverso la concezione del polimaterismo: 3. Negare alla scultura qualsiasi scopo di ricostruzione episodica veristica. Percependo i corpi e le loro parti come zone plastiche, avremo in una composizione scultoria futurista, piani di legno o di metallo, immobili o meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli, semicerchi di vetro per un vaso, filo di ferro e reticolati per un piano atmosferico, ecc. ecc. 4. Distruggere la nobiltà, tutta letteraria e tradizionale, del marmo e del bronzo.  Affermare che anche venti materie diversi possono concorrere in una sola opera allo scopo dell’emozione plastica. Il manifesto mette in luce due importanti innovazioni: il rinnovamento dei materiali, ovvero la necessità di abbandonare le materie tradizionali per lasciare spazio a quelle nuove e la «compenetrazione tra gli oggetti e lo spazio circostante». Queste caratteristiche innovative della scultura futurista sono visibili nella progettazione (e realizzazione) delle prime Macchine inutili: per queste opere Bruno Munari seleziona con particolare attenzione le materie da usare, ponendo l’accento non solo sull’accostamento dei colori soprattutto tinte piatte e quindi sulla sensazione visiva che l’oggetto artistico provoca, ma anche sull’effetto tattile, nel desiderio di risvegliare tutti i sensi del fruitore nell’atto di contemplazione dell’opera. Nelle Macchine inutili è evidente anche la fusione tra le componenti fisiche e lo spazio vuoto circostante: l’utilizzo di materiali leggeri come cartoncini colorati, bastoncini di legno e fili di seta permette alla costruzione di essere molto leggera e di potersi muovere con un soffio d’aria. A tale proposito, Munari spiega: «pensavo che  sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle nell’aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi nel nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà». I materiali di cui le Macchine inutili sono composte sottolineano la profonda differenza che intercorre tra queste opere e i mobiles di Alexander Calder, con i quali, negli stessi anni, l’artista statunitense conquista la fama nell’ambiente. Anzitutto le sculture di Munari sono composte, come abbiamo visto, da materiali leggeri come cordini di seta, cartoncini con tinte pastello e bastoncini di legno. I mobiles di Calder invece sono di ferro, verniciati di nero o colori violenti. L’elemento comune alle opere risiede nel fatto che entrambe si appendono e girano, ma i modi e i materiali sono agli antipodi.

Inoltre gli elementi che compongono le Macchine inutili sono in rapporto armonico tra loro, mentre le forme predilette da Calder sono di ispirazione vegetale. L’attenzione all’uso dei materiali diverrà poi essenziale nella progettazione di oggetti di design e, in particolare, nei giochi e libri per bambini: in ogni progetto di Munari, è il materiale (oltre che la funzione) a suggerire la forma, come nel caso della progettazione della scimmietta Zizì  giocattolo in gommapiuma armata che nel 1954 vince il primo “Compasso d’oro” del design italiano dimostrazione di come sia possibile utilizzare in modo innovativo un materiale fino ad allora sfruttato solo per la costruzione di poltrone e divani. Munari viene colpito dalla morbidezza ed elasticità del composto, «che sembra vivo» e che ricorda la sensazione di tenere in braccio un cucciolo. Tornando al manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, Balla e Depero danno indicazioni anche sugli oggetti da realizzare, mettendo in luce l’intrinseca volontà del movimento futurista di «raggiungere il cinetismo». In questo passaggio del testo è evidente l’assonanza tra i «complessi plastici», ovvero le «rotazioni» proposti dai due artisti futuristi e le Macchine inutili di Munari. Lo stesso autore, parlando delle sue opere, spiega: «Gli elementi che compongono una macchina inutile  ruotano tutti su se stessi e tra loro senza toccarsi». Le Macchine inutili hanno la capacità di muoversi, spostarsi nello spazio attraverso il vento, che fa muovere le «sagome di cartoncino dipinto  e qualche volta una palla di vetro soffiato». In terzo luogo, i due artisti futuristi sottolineano l’interesse per i giocattoli, che non dovranno più «istupidire e avvilire il bambino», ma, anzi, abituarlo. Munari si dedica alla progettazione di giochi per bambini a partire dagli anni Cinquanta e pone particolare attenzione non solo al materiale con cui il gioco è realizzato, ma anche all’interazione del bambino con il giocattolo. A tale proposito Marco Meneguzzo, nel descrivere la cura che Munari riserva alla progettazione per l’infanzia, spiega che in un gioco per bambini «Non ci deve essere nulla di tanto caratterizzato da rischiare d’essere più “forte” della personalità in formazione del bambino, nulla che possa plagiarne lo sviluppo» . I giochi progettati da Munari negli anni successivi, con la collaborazione del pedagogista Giovanni Belgrano, rispondono tutti allo stesso principio. Tornando al futurismo, a partire dalla fine degli anni ’20, Munari partecipa a collettive importanti, tra le quali la Biennale di Venezia (1930, 1932, 1934), la Quadriennale di Roma, ma anche eventi a Milano e Parigi. Per quanto riguarda i temi scelti dal giovane artista, negli anni del secondo futurismo la tendenza è quella dell’aeropittura, «che vuol rendere plasticamente gli stati d’animo, le immagini, i sogni e, in un senso soggettivo ed astratto, gli spettacoli naturali offerti dal volo». A questa ultima declinazione della pittura futurista, che risente di influenze surrealiste e metafisiche, Munari aggiunge alcune “stranezze”: fin dai primi anni di attività è evidente la tendenza dell’artista ad allontanarsi da ogni definizione di stile o corrente. Un anonimo recensore, a proposito della Mostra futurista in omaggio a Umberto Boccioni commissionata dai futuristi alla Galleria Pesaro di Milano nel 1933, scrive: Un artista che si serve di tutti gli espedienti possibili per accrescere di valori tattili i valori pittorici, associandoli in modi curiosi, è Munari, il quale con una sua figurazione intitolata, se ben ricordo, Il mormorio della foresta, applica dei piccoli rami d’albero risegati sulla superficie dipinta, e altrove, sconfinando interamente dalla pittura, intenta una sua “Macchina per contemplare”, composta di fiale e tubetti, e liquidi misteriosi. Stranezze, ma spesso divertenti, come la Radioscopia dell’uomo moderno: scheletro umano formato di legno e metallo, con un globo sospeso fra le costole. L’uomo che porta il mondo dentro di sé. Dalla descrizione sopra citata, è chiaro l’interesse di Munari verso una “contaminazione” di media diversi, nonché la devozione alla natura, che spicca particolarmente in una situazione artistica come quella futurista, che tende al meccanico o allo sconfinamento negli spazi cosmici. Per quanto riguarda gli elementi di sviluppo dei modi di fare arte tipici del futurismo, Munari commenta così l’avanguardia che ha contribuito a fondare: Futurismo. Il pittore futurista vuol dipingere il movimento dell’oggetto e non l’oggetto stesso. Da ciò deriva la simultaneità dell’oggetto con l’ambiente, la scomposizione e la compenetrazione dei piani e tante altre cose mentre il visitatore ignaro si sforza inutilmente di ricostruire l’oggetto che ha fornito l’ispirazione. Da questo momento l’oggetto, approfittando del movimento che gli ha imposto il futurismo, parte e non lo vedrete mai più, sotto forma verista, nei quadri moderni . Munari, nel descrivere con parole sue il futurismo, parla indirettamente della “scomparsa dell’oggetto”, ovvero della «eliminazione della funzione narrativa del quadro», che ha inizio con la partecipazione al secondo futurismo e che si concretizzerà negli anni successivi, in particolare dal dopoguerra, periodo in cui gli interessi dell’artista si muoveranno soprattutto verso il design. Il momento storico entro cui il giovane Munari muove i primi passi in ambito artistico, quello cioè delle avanguardie europee e degli scambi tra movimenti, gli permette la sperimentazione di media e supporti, forme e temi sempre diversi, rendendo difficile tracciare i confini stilistici dell’artista fin dal principio del suo percorso. Bruno Munari si avvicina al mondo dell’arte grazie al secondo futurismo, ma la sua curiosità lo spinge oltre questa avanguardia, alla ricerca di nuove contaminazioni, nuovi temi, nuovi modi. Verso la fine degli anni ’30, Munari entra in contatto con l’arte astratta, soprattutto attraverso la mediazione culturale di Prampolini e la Galleria Il Milione di Milano, che in quegli anni propone numerose mostre. Lo spazio, fondato nel 1930 da Peppino e Gino Ghiringhelli, dedica esposizioni ai più importanti artisti d’arte contemporanea italiani, come Sironi, Morandi, De Chirico, Melotti, Fontana, Soldati, Rho, ma anche europei, tra i quali Matisse, Kandinsky, Picasso, Chagall. A proposito della galleria, Munari scrive: Intorno agli anni Trenta si aprì, a Milano, davanti all’Accademia di Belle Arti di Brera, una piccola galleria che ha avuto una grande importanza culturale perché faceva conoscere, in quei tempi oscuri, quelli che oggi sono considerati i grandi maestri d’arte moderna. Tornando all’arte astratta, di questa esperienza artistica il milanese scrive: «Astrattismo e qui, finalmente, il soggetto, dopo tante metamorfosi, scompare. Il soggetto di un quadro astratto è la Pittura, soltanto la pittura e cioè forme e colori liberamente inventati». Come per il futurismo, anche della maniera astratta l’artista coglie alcuni importanti aspetti: fin dai tempi delle Macchine inutili Munari pone l’attenzione alle forme utilizzate dai pittori astratti e se ne appropria, liberandole nella tridimensionalità di una scultura, anziché intrappolarle nella bidimensione della tela. A proposito della nascita di queste sculture, l’artista spiega: Nel 1933 si dipingevano in Italia i primi quadri astratti che altro non erano che forme geometriche o spazi colorati senza alcun riferimento con la cosiddetta natura esteriore. Spesso questi quadri astratti erano delle nature morte di forme geometriche dipinte in modo verista.  Personalmente pensavo che, invece di dipingere dei quadrati e dei triangoli o altre forme geometriche dentro l’atmosfera, ancora verista (si pensi a Kandinsky) di un quadro, sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi dentro il nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà. Con le Macchine inutili, Munari rinuncia al supporto e, dunque, allo sfondo. Egli definisce la pittura di Kandinsky, che pur considera suo maestro, «una natura morta di oggetti irriconoscibili naviganti in una atmosfera vaga che fa da sfondo». Riguardo il tema del supporto e dello sfondo, negli anni in cui Lucio Fontana taglia la tela e Moholy Nagy realizza i suoi Dipinti trasparenti, Munari prepara una serie di dipinti intitolata Anche la cornice, che Tanchis definisce una «dichiarazione di poetica», in quanto « l’annessione della cornice al quadro equivale alla distruzione della sua funzione separatrice». Questa soluzione compositiva astratta crea uno spazio «plastico, integrale, concreto» dove tutto è ambiguità percettiva, dall’effetto di profondità, al confine tra opera e suo contorno. Ma il legame tra Bruno Munari e l’astrattismo è rintracciabile soprattutto nel confronto con due grandi artisti, Paul Klee e Piet Mondrian: con il primo, il milanese condivide intenti e riferimenti culturali, mentre dell’olandese Munari è colpito dalla rigorosa strutturazione ortogonale dello spazio, nel quale colore e forma «esprimono solo se stessi». Un confronto critico tra Munari e Klee viene proposto dallo studioso Aldo Tanchis, che individua per i due artisti nonostante oltre quattro decenni separino la loro attività aspetti affini nel loro metodo di lavoro. Il primo elemento in comune tra i due maestri riguarda «il problema del creare» , che per entrambi è più importante di ciò che viene creato. L’attenzione verso il procedimento di realizzazione dell’oggetto artistico, ovvero il metodo di lavoro, è sottolineato da Munari in un brano nel quale, parlando dell’importanza della distruzione dell’opera collettiva realizzata in un laboratorio creativo, afferma: «non è l’oggetto che va conservato ma il modo, il metodo progettuale, l’esperienza modificabile pronta a produrre ancora secondo i problemi che si presentano» . Allo stesso modo, per Klee «Ogni opera non è a bella prima un prodotto, non è opera che è, ma in primo luogo, genesi, opera che diviene». Questo primo elemento comune, richiama subito il secondo, altrettanto importante per i due artisti, ovvero la loro innata vocazione didattica. Se è il metodo di lavoro la cosa più importante del fare arte, è conseguente il fatto che vi debbano essere degli allievi a cui insegnare a sviluppare il proprio processo creativo. Negli scritti di Munari e Klee è evidente il loro desiderio di insegnare e la volontà di condividere con gli altri dei risultati teorici importanti. Entrambi mirano a favorire la propria disposizione creativa attraverso «modelli critici di comportamento». Per i due artisti le idee preconcette e l’eccessivo uso della ragione sono ostacoli alla creazione. Mentre Klee suggerisce ai suoi allievi «che le figurazione proceda dall’interno», ovvero che non ci siano agenti esterni ad influenzare la loro fantasia, Munari spiega ai suoi studenti: Ho detto loro  di non pensare prima di fare. Di non cercare di farsi venire un’idea per fare la composizione. Spesso un’idea preconcetta mette in difficoltà l’operatore. Non pensare prima di fare vuol dire lasciare fuori la ragione e usare l’intuizione, cominciare a disporre a caso le forme. In terzo luogo, lo svizzero e l’italiano condividono l’idea di origine orientale che il cambiamento, il movimento e la mutazione rappresentano la vita e sono costanti essenziali della realtà. Per Munari «Il conoscere che una cosa può essere un’altra cosa, è un tipo di conoscenza legata alla mutazione. La mutazione è l’unica costante della realtà», mentre per Klee «Buona è la forma come movimento, come fare: buona è la forma attiva». Munari sottolinea l’importanza della mutazione anche quando parla dello sviluppo della fantasia e della creatività, soprattutto in età infantile. Egli infatti spiega che «Abituare i bambini a considerare la mutazione delle cose vuol dire aiutarli a formarsi una mentalità più elastica e vasta». Dunque, essere pronti al cambiamento, «essere mobili come la grande natura», spinge entrambi gli artisti ad una conclusione condivisa, che ci riporta al punto di partenza: non è l’oggetto che va conservato, ma il modo. In Munari questo aspetto prende forma nella sesta ed ultima regola che riguarda le tecniche di comunicazione visiva da insegnare ai bambini in un laboratorio creativo, ovvero: «Sesto: distruggere tutto e rifare…». Questa regola è utile ad evitare di creare modelli da imitare. Aldo Tanchis riconosce in questa «volontà antimuseificatrice» e distruttrice un’influenza di origine futurista, alleggerita dalla sua personale ironia, ovvero «un invito ad andare oltre, ad ignorare l’ipotesi di un risultato finale». Tra Munari e Klee vi è anche la condivisione dell’interesse per le forme della natura, in particolare le forme in crescita e i loro sistemi costruttivi: entrambi cercano nella natura le forme archetipe, originarie e, per Munari, essenziali. Klee afferma: «Il dialogo con la natura resta, per l’artista, conditio sine qua non. L’artista è uomo, lui stesso è natura, frammento della natura nel dominio della natura». I due artisti partono dunque dalla stessa ricerca, ovvero un’attenta indagine della natura per trovare la forma archetipa, ma arrivano a risultati diversi: per Klee l’obiettivo è il «prelevamento dell’immagine allo stato puro», Munari invece cerca «una forma di naturalezza industriale», visibile nelle sue opere di design. Infine, il milanese e lo svizzero condividono l’idea che le regole del fare artistico si possono trasmettere, ma la «genialità non la si può insegnare in quanto non è regola bensì eccezione» . Per Munari «È proprio la tecnica che si può insegnare] non l’arte. L’arte c’è o non c’è». Le tecniche e le regole per sperimentare l’arte possono dunque essere trasmesse, ma la genialità è innata. Anche la storica dell’arte Gloria Bianchino conferma la grande considerazione di Munari verso il pensiero teorico di Paul Klee, spiegando come «il dialogo con l’artista svizzero sia stato non solo importante, ma determinante per la ricerca del segno di Munari».  Cerco di mettere in luce gli elementi di contatto tra il milanese e lo svizzero attraverso la mediazione della scuola del Bauhaus, nella quale, per volontà di Walter Gropius, Klee insegna pittura dal 1920 al 1931. In questi stessi anni, il pittore tedesco-svizzero farà uso dell’ironia «per suggerire il distacco fra l’immagine rappresentata e il suo primo significato, quello espresso nella didascalia» è ipotizzabile, per la Bianchino, che Munari assuma «l’uso di proporre dei titoli con la funzione di suggerire  il piano dell’immagine come diverso da quello del suo primo significato» proprio da Klee, per il quale il senso delle rappresentazioni «non è mai stabile, ma muta a seconda della didascalia». Sappiamo inoltre, dalle parole di Tanchis, che Munari legge Klee, conosce i suoi testi, ma li traduce sempre in maniera operativa, ponendo l’attenzione al risvolto pratico del fare artistico. Ma, nonostante una profonda condivisione del metodo e di svariati richiami culturali, esistono alcune differenze che intercorrono tra i due maestri: anzitutto la pratica artistica, che per Klee rimane circoscritta alla tela, mentre per Munari si sviluppa in opere di natura molto diversa dalle Macchine inutili, agli oggetti di design, ai libri per bambini, ai laboratori creativi. Inoltre, è evidente la «diversità di forza e carattere» tra la scuola del Bauhaus, «democratica fondata sul principio della collaborazione, della ricerca comune tra maestri e allievi» e «vivacissimo centro di cultura artistica in contatto con tutte le tendenze avanzate dell’arte europea», di cui fa parte Klee, e il MAC , movimento artistico fondato da Munari, forse l’unico esempio italiano di discussione di teorie e problemi legati al mondo dell’arte, che altrimenti sarebbero stati trascurati, ma che ha dato scarsi risultati per quanto riguarda la produzione di oggetti artistici, al contrario della ricca produzione bauhausiana. Per concludere, la differenza forse più significativa tra Munari e Klee risiede nel rapporto tra arte e vita: lo svizzero vive l’arte come attività consolatoria, in contrasto con la quotidianità, mentre per il milanese questa distinzione è impossibile, poiché non ci devono essere «un mondo falso in cui vivere materialmente e un mondo ideale in cui rifugiarsi moralmente» . Vedremo più avanti che l’intento teorico di Munari sarà infatti riuscire a fondere arte e vita, per giungere ad un’arte democratica e diffusa nel quotidiano. Il giovane Munari deve a Prampolini anche la conoscenza di Piet Mondrian, fondamentale per la formazione del milanese, che con il maestro olandese condivide i motivi di critica al futurismo. A tale proposito, è lo stesso Munari, in un’intervista ad Arturo Carlo Quintavalle, ad affermare: «Prampolini mi mostrò anche delle opere di Mondrian e fui molto colpito dalla essenzialità e dal modo di occupare lo spazio di questo artista». Il milanese si rende presto conto dell’incapacità del futurismo di passare dalla rappresentazione del movimento al movimento puro questione che egli risolve con le Macchine inutili e la tendenza futurista a considerare il quadro l’opera in generale attraverso motivi che vanno oltre l’opera stessa, prescindendo dai valori sensoriali e formali. Munari riconosce in Mondrian l’artista che per primo arriva «al colore e alla forma che esprimono solo se stessi», ed è colpito, in particolare, dalla sua meticolosa strutturazione ortogonale dello spazio e dal tentativo di eliminare dall’opera ogni forma di “stato d’animo”, ovvero elementi che non hanno nulla a che fare con l’oggettività del manufatto. Questi elementi vengono ripresi da Munari soprattutto nella sua attività di designer: tutti gli oggetti da lui progettati si pensi, ad esempio, al Posacenere cubo o all’Abitacolo rappresentano null’altro che loro stessi, la loro essenzialità formale corrisponde ad una essenzialità funzionale. A confermare il legame tra Munari e Mondrian è il pittore Franco Passoni che, nel Bollettino Arte Concreta n. 5, pubblica un breve saggio dal titolo “Teorema di Munari”, nel quale presenta il lavoro del milanese. Passoni scrive: La prima scoperta fondamentale di Munari nacque dalla valutazione sull’arte astratta impostata da Mondrian, in quell’occasione e attraverso esperienze personali, egli capì che una superficie piana può diventare interessante dal modo come viene divisa, selezionata e colorata, seguendo un rigorosismo estetico al di fuori della proporzionalità euclidea conosciuta in arte come !sezione aurea”. Munari giunge alla conclusione che «la forma nello spazio ha una sua esclusiva natura, una sua ragione d’essere in sé e per sé senza limiti stabiliti» ma la ricerca attorno alla forma del quadrato e la realizzazione dei primi Positivi-Negativi metteranno definitivamente in luce la discontinuità con il pittore olandese: Quando nel passato ho lavorato ai negativi-positivi il mio problema era uscire da Mondrian: ho ancora le sue ortogonali dentro di me… A furia di semplificare, di arrivare ai colori primari, Mondrian ha occupato lo spazio della tela in modo asimmetrico al fine di trovare un equilibrio. Era difficile uscire da questa gabbia. Attraverso i miei negativi-positivi ho tentato di arrivare ad un altro tipo di equilibrio. E credo di esserci riuscito. Conseguenza di questa indagine oggettiva è una certa avversione nei confronti dell’espressionismo, il «barocco moderno» così ricco di soggettività e sentimento, che viene tradotto da Munari in una «ricerca del massimo di purezza e sobrietà dell’oggetto», il quale diventa «autosufficiente e autosignificante,  si rappresenta e non rappresenta».  La ricchezza di dettagli e decori è, per Munari, inutile alla comunicazione del messaggio e, dunque, alla fruizione dell’oggetto: l’obiettivo del designer è il raggiungimento del famoso motto di Mies van der Rohe “less is more”: Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare.

Pochi sono capaci di semplificare. Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode. La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte. Come per Munari e Klee, il milanese condivide anche con Mondrian lo stretto legame con la natura: per l’olandese, infatti «Nel naturale possiamo percepire che ogni rapporto è dominato da un rapporto primordiale: quello degli estremi opposti  attraverso una dualità di posizioni ortogonali tra loro» . Mondrian è anche responsabile della formazione anti-romantica di Munari, in particolare per quanto riguarda la funzione dell’arte: l’operare artistico dipende, per l’olandese, dalla «riconciliazione uomo-ambiente» e deve proseguire verso una progressiva «scomparsa del tragico». In altre parole, Munari recupera l’insegnamento di Mondrian adattandolo alla situazione italiana e coglie dal maestro la volontà di azzerare il linguaggio visivo corrente per crearne uno di nuovo. Questo codice dovrà segnare una totale autonomia rispetto a ciò che lo ha anticipato in particolare il futurismo e il cubismo per giungere ad una diversa figura d’artista, al quale spetterà il compito di legare il problema dell’arte al problema sociale. Dunque, la nuova funzione dell’arte risiede nella capacità dell’arte stessa di interagire e integrarsi con il mondo e con la società e di essere utile all’uomo, nella maniera più naturale possibile. Infine, l’obiettivo di Mondrian di «ricostruire e rettificare il processo della percezione; correggere le storture di una falsa educazione visiva» è condiviso da Munari sia negli scritti teorici, così attenti all’aspetto didattico, ché nell’attività artistica, la quale mira, come abbiamo visto, ad una nuova educazione visiva, purificata da ciò che è superfluo. Influenzato dalle avanguardie e dagli artisti che vi hanno fatto parte, verso la metà degli anni ’30 Munari sperimenta studi di percezione visiva e giunge, dopo la guerra, alla realizzazione di due opere in particolare che segnano un punto di svolta rispetto alle influenze futuriste e astrattiste. Anzitutto le Sculture da viaggio, nate alla fine degli anni ’50, «oggetti a funzione estetica» , vere e proprie sculture in miniatura, leggere e poco ingombranti, che hanno la caratteristica principale di poter essere smontate occupando uno spazio bidimensionale e rimontate ritorno alla tridimensionalità infinite volte e portate con sé anche in viaggio, appunto. Nello stesso periodo Munari realizza anche i primi Positivi-Negativi, a cui abbiamo già accennato, opere che si inseriscono pienamente nell’attività astratta dell’artista. «L’idea base che genera questi dipinti, sta nel fatto che ogni elemento che compone l’opera, ogni forma, ogni parte della superficie, può essere considerata sia in primo piano sia come fondo». La serie Positivi-Negativi è anche un omaggio a Mondrian: la riflessione sul problema dello sfondo viene risolta con l’effetto ottico dove ogni elemento del quadro può essere letto da diversi punti di vista. Questa parte della ricerca munariana è stata collegata da molti studiosi all’esperienza della scuola del Bauhaus, soprattutto attraverso l’attività di tre artisti: Joseph Albers, Moholy-Nagy e Max Bill. A questo riguardo lo scrittore e critico d’arte Guido Ballo scrive: Munari sente la necessità di “sperimentare”, di applicare decisamente l’arte all’industria, di moltiplicare una stessa opera, con punti di vista diversi; né ha il timore di volgersi alla grafica pubblicitaria e all’industrial design. Sa con chiarezza che l’esempio del Bauhaus  può essere efficace proprio per il rinnovamento di un’arte nel rapporto con l’industria. Ma è lo storico Aldo Tanchis, a cui «si deve un saggio assai acuto sul designer» come sottolineato da Gloria Bianchino che realizza un quadro completo riguardo le influenze di ambito artistico che hanno interessato l’attività teorica e pratica di Munari. Cominciamo prendendo in esame, seppur in modo sommario, l’attività artistica di Josef Albers, che dal ’25 al ’33 insegna alla scuola di Dessau. L’artista indaga il problema della densità spaziale e della profondità del dipinto, oltre che le proprietà dei materiali, condizionando non poco l’attività del milanese, come conferma lo storico dell’arte Filiberto Menna: Munari si muove soprattutto sulla via aperta da quest’ultimo (Albers), in direzione cioè di un’arte intesa come pura ricerca visiva, come analisi grammaticale del linguaggio pittorico e plastico compiuta con l’ausilio della psicologia della percezione. Due opere di Munari sono da considerarsi il risultato concreto di queste riflessioni: con i Positivi-Negativi il milanese sperimenta l’effetto OP (optical art), attraverso il quale «ogni forma che compone l’opera sembra che si sposti, che avanzi o che vada indietro nello spazio ottico percepito dallo spettatore». Allo stesso modo, il dipinto Anche la cornice del 1935 va interpretato alla luce del nuovo interesse per i problemi di comunicazione visiva, rivolto in particolare ad «una precisa sperimentazione su fenomeni ottici come la irrequietezza percettiva di un pattern e la ambiguità tra figura e sfondo». L’interesse di Munari verso le ricerche di Albers è confermato anche dalla firma alla prefazione del libro del pittore tedesco Interazione del colore, dove il designer mette in luce le infinite variabili che alterano la percezione dei colori e accenna ad alcune delle sperimentazioni cromatiche proposte da Albers all’interno del saggio. Lo stesso Munari sottolinea come tali ricerche «potrebbero essere utili a operatori in campi diversi» e non solo a chi si occupa di arte pura, accennando l’interesse dei designers nei confronti della percezione del colore su materiali utilizzati nell’ambito dell’arte applicata, come ad esempio la reazione di tessuti di materie diverse ad un bagno dello stesso colore. Anche le indagini di Moholy-Nagy appassionano il giovane artista. Dall’esperienza dell’ungherese nell’ambito di ricerca attorno la luce e il movimento, Munari dà vita alle Proiezioni a luce polarizzata. A differenza delle Proiezioni dirette, che si avvalgono di materie plastiche colorate, trasparenti, semitrasparenti o opache inserite in un telaietto per comporre un “quadro statico” proiettato con un comune proiettore per diapositive, le Proiezioni a luce polarizzata hanno i colori della composizione che cambiano per tutto l’arco cromatico fino ai rispettivi complementari, grazie alla rotazione del filtro polarizzante. Nel telaietto vengono inserite materie plastiche trasparenti ma senza colore. Rispetto a questo tema, è ancora Filiberto Menna ad affermare: «l’artista (Munari) si rivolge ad altri strumenti di comunicazione visiva, proseguendo le ricerche sulle possibilità espressive della fotografia condotte da Moholy-Nagy». Per l’artista bauhausiano «L’immagine non è il risultato, ma la materia e l’oggetto della ricerca»: Poiché non c’è visione senza luce, l’analisi dell’immagine (che è sempre luminosa) diventa analisi della luce: la luce essendo movimento, movimento e luce sono le due componenti fondamentali dell’immagine. Essenziale è quindi lo studio delle qualità assorbenti, riflettenti, filtranti e rifrangenti della superficie (texture) delle diverse materie. Sappiamo che Munari conosce bene «le ricerche di Moholy-Nagy sia in fotografia che sul movimento»; a confermarlo è egli stesso poiché, nell’intervista allo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle, afferma di muovere le proprie sperimentazioni dalla «nuova tecnica fotografica iniziata da Man Ray e da Moholy-Nagy» . Altro punto di contatto con l’ungherese riguarda la ricerca del metodo che risolve il problema dello sfondo: entrambi gli artisti partono dal «rifiuto dell’astrattismo “lirico” di Kandinsky» e arrivano a soluzioni innovative che si avvalgono di strumenti e materiali moderni, dimostrando una profonda attenzione alla contemporaneità. Munari condivide alcuni elementi della sua ricerca anche con Max Bill, allievo dei grandi maestri del Bauhaus e attento indagatore dell’arte concreta, tanto da entrare in contatto, dal dopoguerra, con i fondatori del MAC (Soldati, Dorfles, Monnet, Munari). Nell’intervista a Quintavalle, Munari dichiara di seguire le esperienze di Bill attorno agli alfabeti e ai problemi topologici. La convergenza teorica dei due nei confronti di questioni artistiche oggettive e verificabili, li porta a condividere il rifiuto dello styling, ovvero un tipo di progettazione industriale legato alla moda, che antepone alla progettazione stessa un’idea artistica; l’attenzione ai rapporti forma-funzione, nel modo in cui la forma è il risultato della funzione che l’oggetto deve svolgere; la battaglia per il good design, conseguenza del dissenso allo styling e della ricerca del rapporto forma-funzione. Alla fine degli anni ’40, Munari è ormai proiettato verso la grafica e il design, il suo interesse si è fatto più “pratico” e legato ad un uso quotidiano. La ricerca puramente astratta è limitante per un artista «convinto che l’arte dovesse vivere nel mondo degli uomini, nella realtà fenomenologica, nel flusso delle cose» e anche perché, secondo Munari, «l’arte astratta di allora era in realtà una rappresentazione verista di oggetti. Una natura morta di oggetti inventati: triangolo, quadrati, linee, piani… invece di bottiglie e pere». Le ricerche di Munari, che dagli anni ’40 esplodono in mille direzioni perché è più importante l’operare che l’opera stessa incrociano, lungo il loro percorso di maturazione, anche elementi dadaisti. Filiberto Menna, riferendo la complessità di rintracciare nell’opera di Munari un senso unitario di ricerca e sperimentazione, parla dell’equilibrio della poetica dell’artista tra i temi centrali del futurismo, ovvero la «interpretazione dell’arte come totalità e come strumento di riedificazione dell’ambiente per il tramite della macchina e della tecnica moderna», e i temi ironici e antimacchinistici propri del dadaismo. Munari affronta i problemi teorici legati all’arte con «una componente ludica che sembra derivare dalla astratta ironia metafisica di Duchamp», in particolare attraverso due filoni di indagine collegati al movimento anti-arte: la poetica del casuale e l’uso dell’ironia. La “legge del caso”, che con Duchamp raggiunge la sua massima espressione, viene filtrata e adattata da Munari: il milanese coglie dall’insegnamento duchampiano ciò che gli interessa, come spesso è accaduto anche con altri movimenti artistici, e lo adegua al suo modo di fare arte. Munari fa affidamento alla “legge del caso” nella fruizione delle Macchine inutili, introducendo «un elemento di distrazione nei confronti della funzionalità pura, in modo da porre l’accento sulla componente di una libera e gioiosa contemplazione-fruizione dell’oggetto». Ecco, dunque, che il movimento della macchina inutile dipende da agenti esterni, come il vento o la spinta da parte del fruitore. Ma è nella performance del 1969 Far vedere l’aria che la poetica del caso è particolarmente esplicita, senza dimenticare che questa giocosa operazione ha un precedente futurista: Aldo Tanchis ricorda infatti che nel 1914 Bruno Corra e Emilio Settimelli proposero di «combinare degli organismi con dei pezzi di legno, tela, carta, piume e inchiostro, i quali lasciati cadere da una torre alta 37 metri e 3 centimetri, descrivono cadendo a terra una certa linea più o meno rara». In questa azione-gioco, che Munari progetta fin nei minimi particolari l’artista fornisce misure e forme precise per i pezzetti di carta, lasciando anche la possibilità al pubblico di pensare a forme nuove ed alternative il ruolo del caso è determinante per il movimento e l’atterraggio delle strisce lasciate cadere dalla torre. La poetica del caso viene dunque adattata alle esigenze progettuali dell’artista divenendo, attraverso una puntuale programmazione, un’esperienza di «dada propositivo». In questo senso, la performance ha a che fare con l’idea di “arte” proposta dall’antropologo Alexander Alland. Egli, infatti, definisce “arte” un «gioco con una forma che produce una qualche trasformazione-rappresentazione esteticamente valida», dove per “forma” si intendono le regole del gioco dell’arte. Tornando al tema del caso, in Munari esso è certamente presente, ma è mitigato dalla costante ricerca della regola, che è utile conoscere per poterla trasgredire, ma che rimane il punto di partenza del suo lavoro. Del resto, la convivenza di caratteristiche contrapposte è un elemento importante nell’opera dell’artista milanese, per il quale l’equilibrio risiede nella coesistenza di energie contrarie, come afferma egli stesso: «La vita è un continuo equilibramento di forze contrapposte: il lavoro viene equilibrato col riposo, il giorno dalla notte, il caldo dal freddo, l’umido dal secco, l’uomo dalla donna, e via dicendo». Nel rapporto dialettico tra serietà e gioco, tra positivo e negativo, tra yin e yang esiste un elemento che permette di raggiungere tale equilibrio, forse la caratteristica più appariscente del lavoro di Munari, l’ironia. La funzione che essa svolge nelle opere del milanese è duplice: l’artista sfrutta l’umorismo per mantenere un senso di inafferrabilità nelle sue opere e nella sua stessa professione. Il senso di inafferrabilità sottolinea la volontà dell’artista «di non restar prigionieri di un’immagine qualsivoglia, intellettuale, fisica, poetica o tecnica che sia». Inoltre, se consideriamo il discorso legato all’ironia in rapporto al dadaismo, individuiamo la sua seconda caratteristica, ovvero la capacità di togliere all’oggetto creato nel caso di opere d’arte e di design il senso di sacralità che per Munari diventa un pericolo, qualcosa da cui è necessario allontanarsi. Nel dadaismo «l’arte è gioco» e l’ironia fa da fertilizzante in ogni azione artistica, che in realtà è essa stessa nulla. L’opera perde importanza, valore e significato, ma acquista dignità intellettuale attraverso il gesto desacralizzante dell’artista. Tale operazione, chiamata ready-made e definita da Argan come il processo che determina un valore ad «una cosa a cui comunemente non se ne attribuisce alcuno», dunque considerata non attraverso il procedimento operativo, ma piuttosto come «un mutamento di giudizio» , è descritta anche da Munari che spiega ironicamente «Più vicino a noi Marcel Duchamp presentò un pisciatoio come fontana. Questo oggetto che aveva sempre ricevuto getti liquidi, adesso li restituisce e diventa una fontana» . Ricorda il ready-made l’operazione artistica-gioco del Museo inventato sul luogo, dove oggetti trovati in natura e non solo, raccolti e catalogati, costituiscono la collezione di un museo personale che ognuno può realizzare in casa propria. Munari, con ogni suo progetto, ribadisce la regola per cui «una cosa può essere anche un’altra cosa». A questa regola rispondono molte altre opere del milanese, come gli Olii su tela del 1980, forse l’opera più concettuale dell’artista, con la quale egli critica e desacralizza l’arte accademica ironizzando attorno alla tecnica tradizionale di “olio su tela”: Restano l’olio e la tela. Olio su tela. La tela con i suoi colori raffinatissimi, dalla tela di canapa a quella di lino, a quella di cotone, a quella sottilissima di batista. Gli oli da quello di lino a quello di papavero, a quello di mandorle, a quello di ricino, colori appena visibili. Molto più raffinati del banale rosso e verde bandiera. Olio su tela, olio puro, tela senza telaio, oli su tele. Anche le Proiezioni dirette, nate come opere originali e diventate uno dei giochi del primo laboratorio per bambini di Brera  del 1977, rispondono alla regola sopracitata: queste piccole composizioni, realizzate direttamente nei telaietti per diapositive, trasformano banali materie plastiche in opere d’arte. Piccoli pezzi di plastica e carta colorata di diverse trasparenze, fili e reti metalliche, piume e foglie, assemblati in modo creativo e proiettati al muro in scala maggiore diventano espressioni artistiche, recuperando dignità e valore intellettuale. La funzione dissacratoria dell’ironia è rivolta anche all’arte contemporanea, o meglio, alla «pura arte commerciale»: l’obiettivo critico delle pungenti battute, che ritroviamo negli scritti teorici, rivolte ad artisti e/o movimenti affermati del panorama contemporaneo, «è la mancanza di educazione e informazione estetica» , di cui è responsabile la critica, che dovrebbe fare da tramite con il pubblico, ma che sempre più frequentemente tiene conto del profitto e del mercato e mantiene l’ignoranza nella gente. Se prendiamo in considerazione gli scritti teorici di Munari, vediamo che egli utilizza l’umorismo anche per discutere del suo lavoro: il riso, nato da una battuta spiritosa, muove nel lettore riflessioni che altrimenti non germinerebbero ed «è segno di equilibrio interiore». Dunque la funzione temporale dell’ironia, messa in luce da Argan e Tanchis, permette alle opere di Munari di mutare continuamente, prendendo forme nuove e comunicando sempre sensazioni diverse. L’ironia è funzionale al completamento, alla comprensione, all’equilibrio e alla demitizzazione dell’opera e contribuisce a riportare sul piano della realtà il lavoro di Munari. Infine, accenniamo ad un elemento di continuità tra Munari e i movimenti artistici di cui abbiamo parlato fino ad ora, ovvero il “libro d’artista”. Questo tema che certamente richiederebbe un approfondimento ben più ampio di quello che qui proponiamo ha a che fare con l’esperienza del milanese all’interno, o meglio ai confini, delle avanguardie ed è molto importante nella revisione della sua opera, soprattutto tenendo conto delle direzioni che Munari prenderà con il lavoro di editoria per l’infanzia. Il periodo che va dalla fine degli anni Trenta fino alla conclusione della guerra evidenzia una svolta negli interessi del milanese, che si rivolgono in modo significativo verso la grafica. In questo periodo l’artista, che vive a Milano città molto attiva in ambito editoriale ha la possibilità di conoscere il lavoro di autori a lui contemporanei. Attraverso le riviste dell’epoca il giovane Munari entra in contatto con l’attività di molti artisti che utilizzano il libro d’arte per diffondere il loro lavoro, poiché come dice la storica Maura Picciau: L’appropriazione del libro da parte delle avanguardie artistiche è strettamente connessa alla volontà di allargare il proprio pubblico, di uscire, grazie al medium più comune, dal chiuso delle gallerie d’arte. Il libro come tramite comunicativo rapido, economico e democratico.  E la fruizione, consapevolmente dinamica, di un libro d’artista, si avvicina all’idea di performance, di esperienza estetica dell’autore e del lettore/fruitore dilatata nel tempo e nello spazio. Il libro diventa un nuovo codice comunicativo, «luogo di confronto con le altre discipline», e come tale è fonte di profondo interesse da parte di Munari che, muovendo dall’esperienza futurista del “libro d’arte” attraverso il lavoro di Marinetti e d’Albisola, ma anche dal dadaismo e da artisti come Hannah Höch o esponenti della Bauhaus quali Oskar Sclemmer o Moholy-Nagy, giunge alla realizzazione dei libri illeggibili, probabilmente la conclusione più radicale della ricerca sull’astrazione. L’esperto di storia dell’editoria Giorgio Maffei non manca di sottolineare come Munari «nella piena maturità dell’astrattismo concretista, dà l’ultima spallata al ruolo informativo del libro eliminandone la sua peculiare caratteristica, la leggibilità, aprendo così la via ad una sua definitiva deflagrazione» . Il libro, con Munari, diventa nuovo linguaggio espressivo, luogo di «equilibrio compositivo e cromatico, di sequenza formale logica» e, come sottolinea Menna, «si trasforma in oggetto inutile, in un libro illeggibile, ma nello stesso tempo si presenta come un modello per libri in grado di offrire la possibilità di letture sempre nuove e ricche di imprevisti». Come abbiamo visto, Bruno Munari sperimenta ogni avanguardia e movimento artistico con cui entra in contatto, dal futurismo, all’astrattismo, al surrealismo, al dadaismo: il suo animo curioso mette alla prova ogni tecnica possibile, ogni riferimento estetico, percorre tutte le direzioni che incontra, per ridurre le innumerevoli esperienze entro la propria visione del mondo e il proprio fare artistico. Per questo motivo è difficile tracciare un profilo chiaro dell’artista ed è impossibile costringerlo in categorie cronologiche o stilistiche: egli è futurista, astrattista, surrealista, dadaista e, allo stesso tempo, non è nulla di tutto ciò. Il comune denominatore della poetica di Munari, l’elemento che tiene insieme tutte le forme d’espressione del milanese, è, come vedremo, l’amore per il progetto, una costante del suo modo di fare arte, design e didattica. Se noi ripercorriamo la storia intellettuale di Bruno Munari, possiamo notare come, dal secondo dopoguerra, egli diriga gli sforzi artistici, intellettuali e progettuali verso un sano e più diretto rapporto con il pubblico. Nel corso di questo processo l’artista si avvicina al mondo dell’infanzia attraverso i primi libri per bambini, nati, come abbiamo visto, da un esigenza personale, la nascita del figlio Alberto. Nello stesso periodo il milanese entra in contatto con l’editoria e la grafica che in Italia, negli anni che seguono il conflitto mondiale, tiene il passo rispetto alle esperienze europee e americane. A tale proposito, Meneguzzo chiarisce che «l’aggiornamento era già un dovere per chi aveva a che fare con l’industria editoriale e pubblicitaria». Ma il dopoguerra è un periodo importante per Munari anche dal punto di vista teorico poiché, come abbiamo precedentemente accennato, egli fonda, nel 1948, il MAC (Movimento Arte Concreta), assieme agli amici artisti Atanasio Soldati, Gillo Dorfles e Gianni Monnet , accomunati dal rifiuto delle tendenze post-cubiste e realiste. Questa esperienza, «non molto ricca dal punto di vista della mera produzione di oggetti d’arte», è però fondamentale per il lavoro di Munari perché sposta l’attenzione su architettura, arredamento e design promuovendo, soprattutto nella sua seconda fase (dai primi anni Cinquanta), l’idea di integrazione e «sintesi tra le arti».  Il Movimento, inizialmente orientato a promuovere un nuovo tipo di astrattismo più vicino al costruttivismo puro, si pone il problema della «vera funzione sociale dell’arte» con l’obiettivo di «migliorare non solo l’animo umano ma anche l’ambiente dove l’uomo vive». Lo stesso Munari mette in luce l’evidente incomprensione che intercorre tra pubblico e artisti, sottolineando come questi ultimi vivano isolati nei loro ateliers, in contrasto con un pubblico che vive in città grigie, viaggia su brutti veicoli ed è circondato da pubblicità volgari. Il desiderio dei concretisti e di Munari in particolare è dunque riavvicinare gli artisti alla vita reale e alle persone, staccandoli dalla loro arte pura e portando la loro sensibilità artistica all’industria. L’esperienza all’interno del MAC e la collaborazione con gli artisti e gli intellettuali del movimento sarà, per Munari, l’occasione di ragionare su alcune importanti questioni che riguardano l’arte del suo tempo. Tra le innovazioni teoriche del milanese, analizzeremo in particolare il nuovo ruolo dell’artista nella società contemporanea, la democratizzazione dell’arte, che con Munari torna ad essere arte di tutti, la desostantivizzazione dell’oggetto artistico, il quale, per rispondere alle esigenze della società, deve essere riportato alla vita quotidiana e, infine, la regola base della progettazione munariana, ovvero la corrispondenza tra forma, materia e funzione. Una delle prime questioni che Munari affronta muovendo dalle riflessioni nate all’interno del MAC è strettamente legata al suo lavoro d’artista: dopo le esperienze degli anni Trenta e Quaranta con il futurismo, il surrealismo, l’astrattismo e il dadaismo, Munari comprende che l’arte non è utile alla società nella misura in cui lo era un tempo. Arte come mestiere il primo dei testi didattici del milanese dedicati ad un pubblico adulto, pubblicato nel 1966 da Laterza  è il risultato di questo primo e fondamentale ragionamento teorico, che porrà le basi per la concettualizzazione di una nuova figura dell’artista di epoca contemporanea. Munari spiega, con un linguaggio tanto semplice da risultare quasi disarmante, che l’artista di oggi deve rimettere in discussione il suo ruolo e il suo modo di intendere l’arte poiché ciò che produce interessa una cerchia ristretta di “addetti ai lavori” e non risponde ai bisogni o alle necessità della società contemporanea. La risposta dell’artista al problema è dunque il design, nuovo linguaggio artistico che risponde ai bisogni reali del pubblico. L’origine di questa intuizione arriva dall’esperienza del Bauhaus filtrata attraverso il MAC e le Gallerie milanesi che promuovevano l’arte delle avanguardie  nella quale Walter Gropius voleva «formare un nuovo tipo di artista creatore e capace di intendere qualunque genere di bisogno». Munari, del designer, mette in primo piano il metodo di lavoro che pone al centro la forma dell’oggetto, la quale «ha un valore psicologico determinante al momento della decisione di acquisto da parte del compratore». Tale metodo di progettazione procede attraverso «la stessa naturalezza con la quale in natura si formano le cose», segue un ragionamento logico, quasi scientifico, nella misura in cui «aiuta l’oggetto a formarsi con i suoi propri mezzi» ed è definito da Meneguzzo “astilistico” lo studioso parla di «metodicità “astilistica”» poiché il fine ultimo dell’artista è «disegnare oggetti senza tempo, tanto essenziali da non poter essere modificabili». Dunque, per Munari, con il cambiare dei bisogni della società, è cambiato il modo di intendere e fare arte: un tempo la collettività necessitava di un certo tipo di comunicazione visiva poiché il basso grado di alfabetizzazione rendeva la gente incapace di assorbire informazioni se non attraverso le immagini diffuse per mezzo della pittura. Oggi è il designer «l’artista della nostra epoca» poiché egli «conosce i mezzi di stampa, le tecniche adatte, usa le forme e i colori in funzione psicologica» e «con il suo metodo di lavoro riallaccia i contatti tra arte e pubblico». Bruno Munari inventa e codifica un nuovo mestiere: l’artista, da genio-divo, diventa un operatore visuale, in grado di rispondere ai bisogni veri della società in cui vive attraverso un logico metodo di lavoro. Questa riflessione munariana sottintende un cambio di prospettiva rispetto alla visione filosofica della figura tradizionalmente intesa come genio, elaborata prima da Kant nella Critica del giudizio e ripresa successivamente da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco «la conoscenza geniale  è quella che non segue il principio di ragione» ed è dunque in assoluta antitesi rispetto all’idea del milanese di intendere il lavoro dell’artista, ovvero l’operatore visuale. Secondo Munari il designer deve procedere seguendo un metodo logico e metodico, quasi scientifico, che giustifichi le scelte formali, le quali non devono essere il risultato di una ispirazione, ma la conseguenza di un ragionamento che tenga conto di tutte le componenti dell’oggetto.

Secondo la riflessione munariana il mestiere d’artista è oggi necessario tanto quanto lo era un tempo, la differenza sta soprattutto nel variare dei bisogni della società, la quale, oggi, «chiede un bel manifesto pubblicitario, una copertina di un libro, la decorazione di un negozio, i colori per la sua casa, la forma di un ferro da stiro o di una macchina per cucire». Il milanese, consapevole del fatto che ogni prodotto richiede competenze specifiche, distingue il design in quattro settori: il visual design «si occupa delle immagini che hanno la funzione di dare una comunicazione visiva»; l’industrial design riguarda «la progettazione di oggetti d’uso»; il graphic design «opera nel mondo della stampa, dei libri, dovunque occorra sistemare una parola scritta» infine il design di ricerca, certamente il più sperimentale, che si occupa di strutture plastiche e visive, mettendo alla prova le possibilità dei diversi materiali. Ma Munari non manca di sottolineare anche l’esistenza dello styling, uno degli aspetti più diffusi e facili del design, il tipo di progettazione industriale più effimero e superficiale, poiché «si limita a dare una veste di attualità o di moda a un prodotto qualunque». Naturalmente lo stilista opera in maniera diversa dal designer, limitandosi a recuperare stili e forme dell’arte pura operando per contrasti, ovvero se prima si usavano forme curve, adesso si usano forme quadrate per conferire una nuova immagine agli oggetti: «senza cambiare nulla dell’interno, si cambia il vestito, si lancia come una nuova moda e si dice, attraverso la propaganda, che la forma vecchia non usa più». Il designer, consapevole del fatto «che una scultura e una carrozzeria d’auto sono due problemi diversi» , mira all’oggettività formale nell’atto di progettazione, poiché «l’unica preoccupazione è di arrivare alla soluzione del progetto secondo quegli elementi che l’oggetto stesso, la sua destinazione ecc., suggeriscono». Tale riflessione deve però tenere conto del fatto che la risposta individuale del designer a un bisogno comune sottintende inevitabilmente delle scelte personali, le quali, in un certo qual modo, definiscono uno stile. In questo senso, dunque, è necessario ragionare attorno all’idea che anche il metodo di lavoro proposto da Munari, per quanto miri ad un risultato formale obiettivo e ambisca ad essere esso stesso privo di stile, comporta inevitabilmente una stilizzazione. Munari non si limita a separare il lavoro del designer da quello, certamente meno logico e oggettivo, dello stilista. In un articolo pubblicato su La Stampa, egli pone in evidenza le differenze tra il lavoro del designer e quello dell’artista, sottolineando i due diversi modi di operare. Munari sottolinea il fatto che entrambe le professioni sono utili alla società, ciò che è importante è che il designer non operi pensando da artista, ovvero «anteponendo forme e colori nati nell’arte pura alla progettazione di un oggetto che chiede solo di essere vero secondo la sua epoca», senza cadere nella “trappola” dello styling. Un anno dopo, a partire dal suo percorso professionale in cui è stato sia artista che designer, con la pubblicazione di Artista e designer, recupera e approfondisce la distinzione tra le due professioni e aggiunge personalmente ritengo valide entrambe le posizioni, sia quella dell’artista che quella del designer, purché l’artista sia un operatore vivente nella nostra epoca e non un ripetitore di formule passate sia pure di un recente passato, e il designer sia un vero designer e non un artista che fa dell’arte applicata. In fondo, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, ciò che interessa a Munari dell’arte è che essa possa ritrovare la sua funzione all’interno della società, che sia utile e necessaria all’uomo per migliorarne la vita, sia dal punto di vista concreto, sia da quello psicologico, così come dichiarato nei bollettini del MAC da diversi intellettuali: «Io credo che quando l’arte tornerà ad essere di nuovo un mestiere, necessaria all’uomo come il pane del fornaio, allora potremo dire di aver ritrovato l’arte». E, in Arte come mestiere, Munari non dimentica di dare una personale opinione rispetto all’arte del suo tempo, la quale, purtroppo, altro non è che «lo specchio della nostra società, dove gli incompetenti sono ai posti di comando, dove l’imbroglio è normale, dove l’ipocrisia è scambiata per rispetto dell’altrui opinione, dove si fanno mille leggi e non se ne rispetta nessuna».

Accompagna la mostra Bruno Munari . Tutto  un ricco catalogo con un saggio del curatore Meneguzzo insieme a Stefano Roffi, direttore scientifico della Fondazione Magnani-Rocca, con inediti contributi critici centrati su singoli “casi-studio” dei più importanti studiosi di Munari, oltre alla pubblicazione di tutte le circa 250 opere esposte, verrà edito da Dario Cimorelli Editore

Biografia di Bruno Munari

Nasce a Milano nel 1907. Appena ventenne aderisce al Movimento futurista milanese di seconda generazione e da qui inizia la sua poliedrica attività nel campo della pittura, design, sperimentazione didattica e cinetica, grafica, pubblicità, fotografia. Nel 1948 fonda il MAC, con Monnet, Dorfles e Soldati. Numerose e ricche di inventiva le sue esposizioni personali: nel 1949, alla Libreria Salto di Milano, presenta le «Macchine inutili» e, nel 1950, «Libri illegibili»; nel 1951, alla Saletta dell’Elicottero a Milano, espone la «Collezione di oggetti trovati»; nel 1952, alla Galleria Bergamini di Milano, sono in mostra i suoi «Quadri quadrati plastici». Nel 1950 Munari dà avvio ai dipinti «Negativo positivo» che espone, lo stesso anno, a Parigi. Partecipa anche a numerose collettive: come quella, nel 1952, alla Saletta dell’Elicottero con «Materie plastiche in forme concrete» con opere in celluloide, plexiglas, laminati plastici… Nell’aprile del ’54 lavora, con Dorfles, alla mostra «Colore per le carrozzerie di auto» che si tiene al Salone dell’Automobile di Torino. Munari risulta, lo stesso anno, tra i componenti del Groupe ESPACE italiano. Nel corso della sua esperienza assumono rilievo internazionale la sua produzione di design e i suoi studi sull’identificazione di arte, gioco ed apprendimento creativo, nel rispetto dell’intelligenza del bambino. L’artista muore a Milano il 30 settembre 1998.

Fondazione Magnani – Rocca Parma

Bruno Munari. Tutto

dal 16 Marzo 2024 al 30 Giugno 2024 

dal Martedì al Venerdì  dalle ore 10.00 alle ore 18.00

Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00

Lunedì Chiuso

Foto Allestimento mostra  di Bruno Munari, Tutto,  alla Fondazione Magnani-Rocca. Foto: Kreativehouse