A Parma in mostra

Van Gogh Multimedia e la stanza segreta

Giovanni Cardone

Fino al 23 Giugno 2024  si potrà ammirare al Palazzo Dalla Rosa Prati di Parma la mostra Van Gogh Multimedia e la stanza segreta a cura di Vincenzo Sanfo. L’esposizione è prodotta da Navigare srl con il patrocinio del Comune di Parma, della Regione Emilia-Romagna. Nel contempo l’evento nasce con l’obiettivo di avvicinare il pubblico alla vicenda umana e artistica del grande pittore olandese morto suicida nel 1890, a Auvers-sur-Oise, a 37 anni, ripercorre la storia di Van Gogh attraverso due percorsi paralleli: una parte multimediale e immersiva dedicata alla sua inconfondibile arte, e l’altra, con 52 opere originali provenienti da collezioni private, di cui 13 di Van Gogh e le restanti di altri 17 artisti che con lui condivisero percorsi artistici e di vita, o che per lui furono modelli di riferimento. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Van Gogh che è divenuta modulo monografico universitario e convegno interdisciplinare apro il saggio dicendo : Il secondo Ottocento vede la nascita degli Stati nazionali, l’affermazione della borghesia e una nuova fiducia nel progresso tecnologico: è il periodo della Seconda Rivoluzione Industriale. Dopo la caduta nel 1870 di Napoleone III e la nascita, in Francia, della Terza Repubblica, Parigi consolida il proprio ruolo di capitale europea diventando sempre più una città borghese, con infrastrutture all’avanguardia, una estesa ed efficientissima metropolitana sotterranea, grandi stazioni ferroviarie con ardite strutture in acciaio e vetro, grandi magazzini dotati dei primi ascensori elettrici, imponenti boulevards ed un grandioso impianto di illuminazione pubblica, realizzato mediante lampioni a gas. Si afferma così quella fama di “ville lumière” (città della luce) che ne diventa descrittiva anche in ambito culturale ed artistico, facendone la meta di tutti i più grandi artisti ed il grembo di tutte le avanguardie. Verso la fine dell’Ottocento, il mondo culturale fu percorso da un profondo cambiamento che portò una pausa di riflessione durante la quale, l’attenzione di gran parte degli intellettuali, si spostò dal mondo della realtà a quello dell’interiorità umana. In questo contesto nasce e si sviluppa in Francia tra il 1880 e il 1890, il Post-impressionismo, non un movimento artistico, ma un clima culturale, nel quale si svilupparono nuove tendenze pittoriche ‘Puntinismo’ e in cui operarono singole personalità artistiche che svilupparono ricerche originali nel tentativo di superare le sperimentazioni impressioniste. Il termine “Post-impressionismo” fu coniato nel 1910, in occasione di una mostra dal titolo “Manet e i post-impressionisti”, dal critico inglese Roger Fry per identificare la generazione di artisti immediatamente successiva all’Impressionismo.  Artisti che partendo dalle basi essenziali poste dall’impressionismo proseguono la loro ricerca su strade nuove fino a raggiungere esperienze diverse o addirittura opposte. Questi artisti tra cui Seurat,  Signac, Van Gogh, Cezanne, Gauguin concepirono la pittura come ricerca dell’espressione soggettiva, per rappresentare l’interiorità dell’individuo e gli effetti della realtà sull’animo umano. Il Post-Impressionismo, dal canto suo, arriva a superare definitivamente i principi alla base del realismo demolendo il concetto stesso di arte quale “imitazione fedele della natura, cioè di ciò che si vede”. Questo passaggio determinerà non solo tutta la produzione artistica del nuovo secolo, ma la definizione stessa di Arte; è da allora e grazie a loro che si può affermare che l’arte non è espressione o immagine di qualcosa ma è una “realtà autonoma” con regole, mezzi e caratteristiche, propri. Come è avvenuto per altri movimenti rivoluzionari si pensi al movimento fiorentino che portò alla rivolta rinascimentale, l’impressionismo è sin dall’inizio bersaglio di critiche, ma anche di approfondimenti da parte di artisti, letterati, opinionisti, nonché da parte degli stessi protagonisti. Ciò spiega perché a dodici anni dalla prima mostra il movimento si è già disperso. Le principali critiche che gli vengono mosse battono tutte sugli stessi punti quali la presunta superficialità, la fugacità dell’immagine, la passività del soggetto, la sua assenza di partecipazione. Attacchi e commenti, comunque, non impediscono di guardare agli impressionisti come a degli autentici innovatori.

Infatti, dopo di loro, la maggior parte dei movimenti d’avanguardia non possono fare a meno di partire dalle premesse del gruppo di Batignolles. Fra questi si distinguono innanzi tutto i neo-impressionisti e i post-impressionisti. Il neo-impressionismo sorge nel 1884 in seguito alle intenzioni di alcuni giovani pittori di voler fondare la strutturalità dell’immagine impressionistica su principi scientifici: la cosa circola nell’aria da tempo. L’impressione visiva era già stata oggetto di ricerca scientifica da parte di Chevreul  era stata portata avanti da Helmholtz a Rood . Nel 1880 Sutter sentenzia che l’arte deve trovare un piano d’intesa con la scienza. Lo prende sul serio un giovane pittore, Georges Seurat  che inizia ad elaborare una sua teoria e a sperimentarla di persona. Il nodo centrale è costituito dalla divisione del tono. La luce è fatta di onde elettromagnetiche; ad ogni lunghezza d’onda corrisponde un colore; la sommatoria di tutte le lunghezze d’onda dà la luce bianca. Se si mischiano tutti i colori quello che s’ottiene non è il bianco ma un grigio fango: segno evidente che il colore è solo un simulacro della luce. Tuttavia rimane valido il principio per cui un colore non dipende dal miscuglio di tutti gli altri ma dal loro accostamento. Si potrebbe obiettare che così facendo si perde l’unità del tono. Si risponde che l’unità è ricomposta tenendosi ad una certa distanza d’osservazione. Non solo: la divisione del tono crea anche una certa vibrazione, che è poi l’essenza stessa dell’impressionismo. La prima opera di Seurat eseguita con la tecnica puntinista  sperimentata dai neo-impressionisti sulla base del principio teorico della divisione del tono è il Bagno ad Asnières, ma la più famosa è Una domenica d’estate alla Grande Jatte. Una domenica d’estate alla Grande Jatte è un’opera manifesto. Il soggetto è un classico soggetto da impressionisti: una splendida giornata di sole con i parigini che passeggiano sulle rive della Senna. Tutta diversa è però la tecnica: non una pennellata data in plein-air, nessuna improvvisazione; tutto è studiato; tutto è premeditato nel chiuso di uno studio. È ovvio: se la luce dipende dall’applicazione di una teoria scientifica anche la forma che rivela deve dipendere dall’applicazione di una teoria scientifica. Questa forma è la forma geometrica. Ecco dunque ritrovato il teorema pierfrancescano dell’identità fra spazio geometrico e spazio luminoso. Risultato: il quadro è costruito su un ordito di orizzontali e verticali, i personaggi sembrano manichini disposti sul piano erboso come gli scacchi su una scacchiera durante una partita, le ombre formano un angolo retto con i corpi, la profondità richiama la prospettiva di classica ascendenza. Messa in questo modo sembra che Seurat voglia tornare allo spazio euclideo e al rapporto fra vuoto contenitore e pieno contenuto, ma non è così. Infatti, se si guarda bene, il contesto ambientale è una massa luminosa fatta di pulviscolo colorato che vibra e tende a debordare da tutti e quattro i lati della tela, le figure sono volumi cilindrici e conici fatti dello stesso pulviscolo. Insomma con Seurat le macchie diventano astratti pallini di colore disposti secondo un preciso ordine dettato dalla teoria. Dunque quel che Georges sottopone a regolamentazione geometrica non è lo spazio concettuale dei classici, ma quello empirico dei romantici. Lo spazio neoimpressionista è fatto di dosi di luce, non già di misure metriche, compito dell’arte è stabilire le dosi giuste; e questo lo può fare solo lei in quanto arte, non già la scienza. Per Seurat la dose giusta è quando nel dipinto si raggiunge l’equilibrio cromatico-luminoso, e questo equivale a trovare un tono medio proporzionale fra le note cromatiche più chiare e più scure, più calde e più fredde, più intense e meno intense. Ne risulta che il mondo rivelato dall’immagine scientifica di Seurat è un mondo di automi in uno spazio senza vita, un universo senza slanci, privo di sentimenti. Questo universo così ordinato, così controllato tuttavia qualche incongruenza ce l’ha: la scimmietta al guinzaglio, la pescatrice in gonnella e cappellino, le sottogonne rigonfie. Ma queste difformità sono solo eccezioni che confermano la regola. Il simbolismo è una corrente che si sviluppa in Francia negli stessi anni in cui si va svolgendo la parabola dell’impressionismo. Sorge nel periodo di riflusso controrivoluzionario che fa seguito alla comune di Parigi del 1871. Il fenomeno ha a che fare con le reazioni suscitate nei gruppi impegnati sul fronte del rinnovamento dalla restaurazione dell’ordine prerivoluzionario. Queste sono sostanzialmente di due tipi: impressionisti e neo-impressionisti reagiscono con un più rigoroso impegno metodologico scientifico; i simbolisti con il rifiuto della società e l’alienazione volontaria. Il distacco dell’artista dal resto della società non è una novità assoluta. Già l’ultimo Delacroix  aveva manifestato una tendenza del genere con i suoi viaggi in Marocco.

Ma è con il simbolismo che questa “necessità poetica” si estende ad un intero movimento. La poetica simbolista sembra porsi in antitesi con la poetica impressionista, in realtà vuole essere il suo superamento. Rispetto al neo-impressionismo, orientato nella stessa direzione, si qualifica come via alternativa impostata sulla spiritualità invece che sullo scientismo. Ma come non si può negare una differenza fra simbolismo e neo-impressionismo così non si può negare la loro tendenza ad accomunarsi come discipline spiritualistiche, dal momento che anche la scienza può essere considerata un’entità spirituale. Seguendo le linee del romanticismo sublime, i simbolisti definiscono, in opposizione alla concezione impressionista di un’arte intesa come ricerca strutturale fondata sulla percezione, la concezione di un’arte intesa come strumento di visualizzazione dei contenuti profondi della spiritualità umana, tra cui, primo fra tutti, l’immaginazione. Il punto di partenza è la critica all’impressionismo giudicato arte brillante ma superficiale. Per loro, contrariamente ai neo-impressionisti, l’arte non è un processo analitico della percezione visiva della realtà fenomenica, ma un processo di fenomenizzazione in forme percettibili di realtà invisibili, quali la fantasia, il pensiero astratto o il mondo onirico. Il suo manifesto è firmato da Moréas , poeta e critico letterario di origini greche, nel documento si sottolinea il fatto che l’indirizzo simbolista nasce dall’esigenza di portare l’arte ad occuparsi anche di quelle immagini che sfuggono alla percezione dei sensi, cioè le immagini psichiche, ritenute, chissà perché poi, più pesanti, meno superficiali, più vicine all’anima di quelle ottiche degli impressionisti. Per i simbolisti l’arte è un qualcosa che appartiene al solo spirito, il che vuol dire che deve trarre i suoi mezzi espressivi guardando esclusivamente al proprio io, senza considerare le sensazioni derivanti dal mondo esterno. Questo non significa però interrompere ogni contatto con la realtà naturale; significa solo che la superficie del dipinto non si limita a raccogliere le immagini provenienti dalla realtà oggetto filtrate dalla mente e dalla tecnica dell’operatore, ma che la superficie della tela si eleva a mezzo di supporto dell’operazione di trascrizione delle immagini che hanno origine nella mente dell’artista stesso. Tuttavia non ci si astrae dalle cose concrete, si ricerca in esse i segni inconfondibili dell’elezione spirituale. All’inizio le immagini che salgono dall’interno incontrano quelle che provengono dall’esterno, ma presto questa “osmosi” lascerà il posto alla sola immaginazione.  I segni dell’elezione spirituale sono le linee e i colori attraverso cui la realtà percettiva si trasmuta in sagome fluttuanti nello spazio indefinito, note cromatiche che si fanno eco; non si vuole convertire la sembianza in simbolo, si vuole che la sembianza diventi simbolica. Le immagini psichiche non precludono la strada all’indagine strutturale, anche se la loro natura metafisica può indurle a organizzarsi su elementi di diversa origine rispetto a quelli su cui si basa la sensazione del gruppo di Batignolles. Riguardo al ruolo sociale la proposta simbolista suona perentoria: l’arte non sarà più un modello operativo, né uno strumento di ricerca strutturale sulla percezione, bensì un procedimento finalizzato all’indagine della struttura, dei contenuti e dei modi di operare della psiche umana. Non si cancellano le conquiste impressioniste, si ammette che anche la percezione rientra nel novero degli ordinamenti interiori, ma ne rappresenta solo una piccola parte, quella iniziale: dunque il simbolismo non esclude l’impressionismo, lo ritiene solo limitato. Assai importanti sono le conseguenze del simbolismo. Se l’impressionismo inserisce la pittura in un sistema specialistico di attività il simbolismo fa della pittura un’attività d’élite fatta da e per pochi prescelti. L’impressionismo vede nella disciplina pittorica un modo di stare al mondo; il simbolismo ci vede un mondo in cui stare, cioè vede l’arte come un’attività compensatrice del pragmatismo industriale, capace di creare un mondo alternativo, un’oasi dove rifugiarsi. La cosa ha dei risvolti di classe: il simbolismo contrapponendosi al pragmatismo industriale va costituendosi come cultura della classe dominante e prerogativa indispensabile per la sua pretesa alla direzione culturale della società. Essendo poi lo spirito dell’uomo lo stesso in tutti i luoghi e in tutti i tempi, non ha senso per un’arte che si pone come fine quello di renderlo manifesto contemplare fra i suoi problemi quello del progresso delle tecniche espressive. È per questo che il simbolismo non si ferma all’Ottocento, seguita ad esercitare la sua influenza per tutto il Novecento, fino ad approdare nel nuovo millennio. Così lo ritroviamo nel modernismo della Belle Époque, nell’espressionismo del Blaue Reiter, soprattutto nell’opera di Kandinskij e Klee  e nelle varie avanguardie europee.

Trionfa ovunque col surrealismo, quindi dopo la seconda guerra mondiale alimenta varie correnti informali. E oggi, laddove le avanguardie vedono esaurita la loro missione storica, sembra rimanere l’unica ancora di salvezza per la sopravvivenza dell’arte del periodo romantico. A dispetto del termine con il quale viene indicato, il post-impressionismo non arriva talmente dopo l’impressionismo da giustificare in pieno l’applicazione del prefisso “post” in ambito storico. Infatti il periodo post-impressionista è contemporaneo in ordine di tempo a quello impressionista; la parabola professionale dei suoi principali artefici si svolge contemporaneamente a quella degli impressionisti. Perché le loro opere si pongono oltre l’impressionismo. Di qui la coniazione del termine che non va dunque interpretato in senso cronologico ma in senso strettamente critico. I principali artefici che danno vita al post-impressionismo sono Paul Cezanne , Vincent Van Gogh  e Paul Gauguin . Sono tre fra i più importanti artisti della storia dell’arte moderna; sono tre artisti che, pur rimanendo a tutti gli effetti degli impressionisti, sviluppano poetiche i cui contenuti superano l’impressionismo stesso. Queste semplici considerazioni ci impongono dunque di fare la loro conoscenza. Courbet  aveva sancito un principio fondamentale: stare a quello che si vede. L’osservatore non è una lastra  ovvero una pellicola che i raggi luminosi impressionano e basta, ma è un soggetto che con questi interagisce; non è una tabula rasa, non è solo un interprete, un traduttore di sensazioni luminose in colori; ma non è neanche soltanto un contenitore di strutture, di contenuti memorizzati, un cervello e basta; non è solo un contenitore di sensibilità che reagisce a degli stimoli esterni. Il soggetto è un insieme di cose molto più complesso delle mere facoltà percettive; è un essere pensante, culturalmente e storicamente determinato, che interagisce con il mondo che lo circonda, cerca di rapportarsi ad esso, cerca di conoscerlo, lo giudica, cerca di difendersi dalla sua aggressività, di non lasciarsi sopraffare; è un essere dotato di anima. Gli studi scientifici sulla percezione visiva confermano quello che è ormai una certezza per tutti gli artisti e cioè che il vedere è condizionato non solo da vere e proprie leggi psicologiche, ma dall’essere in quanto totalità indissolubile di natura e cultura. Insomma noi vediamo come siamo; più che con gli occhi, con la coscienza; vediamo quello che vogliamo vedere. Questo significa che non diamo la stessa importanza a tutto, ma mettiamo a fuoco solo quello che ci colpisce è la nostra natura prevalente questa è stata la grande intuizione di Toulouse Lautrec . Subito dopo la comparsa dell’impressionismo ma in un certo senso anche con l’impressionismo stesso, il problema principale che si pone dinnanzi agli artisti più avanzati diventa quello di stabilire quanta parte del soggetto deve proiettarsi nell’opera d’arte: ormai risulta chiarissimo che la visione non è niente di automatico, ma è ciò che la coscienza investe nella sensazione per avere il controllo sulla realtà, o, se si preferisce, è ciò che la coscienza investe per rendere la realtà anche qualcosa di apprezzabile. Dopo la prima fase romantica il problema dell’arte impressionista si concentra proprio su questo punto, e cioè portare alla luce non tanto quello che è davanti agli occhi di tutti, ma le strutture e i contenuti della coscienza che influenzano la visione umana. Questo significa che il soggetto guadagna sempre più importanza nella consapevolezza che ormai se l’arte deve avere un senso questo sta proprio nella sua qualità di strumento insostituibile per la visualizzazione di sé, una visualizzazione che si fa sempre più diretta, cioè si serve sempre meno dell’oggetto come medium linguistico. Di fronte alla problematica principale dibattuta in questo periodo, cioè il peso da dare al soggetto nella elaborazione finale del processo artistico, Cezanne, Van Gogh e Gauguin intervengono schierandosi dalla parte di chi intende dargli maggiore importanza, però non intendono distruggere altresì le premesse della sperimentazione visiva. Il problema lo aveva già posto alla riflessione degli impressionisti, sin dai loro primi incontri con Degas e riguardava lo stabilire quale parte dell’apparato strutturale del soggetto deve intervenire nella restituzione dell’immagine percepita. Cezanne, Van Gogh e Gauguin approfondiscono questo argomento, cosicché il problema prioritario, con loro, diventa in definitiva quello di stabilire in che cosa si identifica il soggetto: che poi sarebbe la stessa cosa che porsi la questione dell’origine della reattività comportamentale dell’artista di fronte alla realtà. Le risposte costituiscono gli stili dei tre artisti. Con questi tre grandi personaggi il soggetto va ad acquisire sempre più importanza, fino al punto di arrivare alla deformazione della realtà in funzione della visualizzazione delle forze interiori agenti sulla visione del mondo oggettivo. Queste forze sono le strutture attraverso cui il soggetto ordina e esperimenta il mondo reale: il raziocinio, la memoria, l’immaginazione, l’inconscio e i sentimenti. Per Cezanne il soggetto si identifica con la propria struttura mentale, quell’insieme di meccanismi attraverso cui l’uomo comprende il mondo che lo circonda e vi si relaziona in modo razionale; per Van Gogh il soggetto si identifica con le proprie pulsioni viscerali che lo spingono a partecipare della realtà oggetto in modo convulso e appassionato; per Gauguin si identifica invece con la propria immaginazione, unico vero segno d’elezione dell’attività artistica. Cezanne, Van Gogh e Gauguin sono oltre l’impressionismo perché in loro il dipinto rappresenta la realtà trasformata dalla proiezione trasfigurante del soggetto. La loro identità si spiega, è proprio il caso di dirlo, più che mai con la differenza della loro personalità: razionale quella di Cezanne, mistica e visionaria quella di Gauguin, emotiva quella di Van Gogh. Negli impressionisti il soggetto è parte passiva dell’operazione artistica; si limita a raccogliere, interpretare, definire e collocare le sensazioni su un supporto artificiale quale la tela. Con Cezanne, Van Gogh e Gauguin il quadro ma ormai l’uso di questo termine è improprio diventa una superficie dove si costruisce l’immagine percettiva, non ci si limita a registrarla. Vale a dire che con questi tre artisti il soggetto, con tutte le sue strutture mentali e viscerali, diventa parte attiva del processo formativo dell’opera d’arte; e questo passaggio demarca il confine fra i cosiddetti impressionisti veri e propri e i post-impressionisti. Dunque il termine postimpressionista non indica una differenza generazionale, ma un diverso modo di concepire il peso del soggetto nell’operazione artistica. Cezanne, Van Gogh e Gauguin rappresentano anche tre modi di concepire l’arte come processo creativo. Tutti e tre si trovano d’accordo nel ritenere l’arte operazione finalizzata alla messa in evidenza del processo creativo stesso, quindi convengono sul fatto che l’espletamento di questa operatività creativa si compia mediante tecniche manualistiche tradizionali motivo: l’indissolubilità fra pensiero o immaginazione  e azione. In particolare sia per Cezanne che per Van Gogh l’arte è un mezzo di conoscenza operativa, ovvero quel che si conosce con l’arte è l’io come essere identificabile con il proprio processo cognitivo. La differenza fra i due consiste nel fatto che mentre Cezanne concepisce la conoscenza come un’appropriazione mentale delle cose percepite, Van Gogh la concepisce come un impossessamento materiale; cioè mentre il primo intende l’io come un’entità fatta di forme il secondo lo intende come un’entità fatta di forze. Per quanto riguarda Gauguin si tratta del primo artista ad usare l’impressionismo come mezzo di visualizzazione della propria immaginazione, o meglio come processo di formazione dell’immaginazione. Ricapitolando, il problema principale che ci si pone nel post-impressionismo è, in sostanza, quello di definire con che cosa fermare l’attimo transitorio del percepire per renderlo eterno. Cezanne, Van Gogh, Gauguin rappresentano tre proposte di soluzione. Per Cezanne l’attimo diventa eternità nel momento in cui le sensazioni si organizzano in forme, le macchie informi in forme geometriche; per Van Gogh l’attimo diventa eternità quando l’impressione si trasforma in segno; in Gauguin invece quando la percezione diventa simbolo. Per tutti e tre l’attimo diventa eternità quando alla percezione si aggiunge il soggetto, si fa sentire la sua presenza, la presenza della coscienza operante, nel momento in cui la sensazione si umanizza. All’inizio del nuovo secolo il cubismo non modifica di una virgola il quadro ideologico cezanniano, così come gli espressionisti non modificano quello vangoghiano; spetterà a queste poetiche però recidere gli ultimi fili che legano la figurazione artistica all’immagine percettiva della realtà. Mondrian  sul fronte del cubismo e Kandinskij su quello dell’espressionismo approfondiranno il discorso, fino ad arrivare alle radici dell’io, ma ciò che non cambieranno saranno le premesse ideologiche da cui sono partiti i tre artisti post-impressionisti. Van Gogh non rappresenta il soggetto, lo vive; non rifà la realtà, esprime come la sente. Di fronte ad un suo dipinto non ci si deve chiedere cosa rappresenta, ma cosa ci fa sentire, come lo ha vissuto, quale è stato il percorso che lo ha portato a trasformare un’esperienza estetica in immagine artistica. A differenza del pensiero realista Van Gogh non concepisce l’arte come rappresentazione, bensì come lotta intrapresa per il possesso dell’essere, battaglia nella quale l’artista investe tutto sé stesso, il proprio sapere, la propria sensibilità, le proprie intuizioni. Per il pensiero vangoghiano l’arte non va colta nell’adesione istantanea e istintiva all’essere trascendente, né in quella lenta e mediata all’essere immanente, ma nel contatto diretto e spontaneo all’istante in cui il veduto si trasforma in immaginato. L’arte non è catarsi, è dramma; la sfera ontologica non è l’essere né l’apparire, né il trascendere, ma il divenire. La conoscenza a cui porta non ha utilità pratica, almeno nell’immediato; allarga semplicemente gli orizzonti della propria esperienza, impegnandola al livello della sensibilità. L’arte deve avere come scopo strumentale la conoscenza di forme e colori. Ma forme e colori non sono l’essere universale, bensì il risultato del rapporto fra due soggetti, l’uomo, da una parte, e la natura, dall’altra, i quali tentano di possedersi l’un l’altra. L’uomo, attraverso l’immaginazione, tenta di inquadrare la natura; la natura, a sua volta, reagisce cercando di non lasciarsi inquadrare. E l’arte si trova proprio lì, nel prodursi del conflitto fra ciò che si vede ed è direttamente controllabile dalla percezione e ciò che si cela ed è svelabile solo con il ricorso all’immaginazione. L’arte come mistero dei misteri va cercata nelle strutture sospese fra l’apparire e l’essere momentaneo, sintetico, opinabile, e come tale si può cogliere solo ricorrendo alla totalità del proprio io, in qualità di complesso organico di senso e intuito, sensibilità e pensiero. In quanto reazione immediata, l’arte per Van Gogh è l’unico vero aggancio dell’uomo con l’essere, dunque la prova inconfutabile del suo esistere e dell’esistere del mondo. Se l’arte è un’esperienza che si fa lavorando e il lavoro comporta sempre una tecnica, l’arte moderna è la risposta tecnica dell’artista dell’epoca tecnologica. Nel Paleolitico fra arte e artigianato non esisteva ancora una distinzione, e il rifare la realtà era un modo per sopravvivere, non per fornire un saggio di perfezione artigiana agli altri membri del gruppo. Allora l’arte non esprimeva nessun modello, ma un modo di affrontare il mondo attraverso gli strumenti propri della condizione umana primitiva. In quell’epoca l’arte era espressione di versatilità manuale, la stessa manualità che permetteva all’uomo preistorico di crearsi frecce, archi per andare a caccia e procurarsi tutto ciò che si rendeva necessario per sopravvivere; era quella stessa disciplina che gli permetteva anche di dipingere pareti e decorare impugnature di propulsori. Oggi, benché il mondo sia assai cambiato, sembra più che mai valido il bisogno che nell’arte venga espressa la capacità di rapportarsi con l’altro da sé. Ma questa capacità non si esprime più nella versatilità del singolo individuo, come è avvenuto per l’uomo del Paleolitico, bensì nell’unico modo che l’artista conosce per sopravvivere, e cioè quello di affrontare la realtà con le sole armi del suo mestiere. L’arte per Van Gogh è il rituale attraverso cui l’uomo si confronta con la realtà quotidiana per non essere da questa sopraffatto. Essendo reazione emotiva, il gesto di Van Gogh non è il gesto organizzato del tecnico, né prevede l’intercessione dell’intelletto: con ciò si esclude la possibilità di adottare strumenti tecnici che abbisognano dell’intervento della mente razionale. Ma la mano dell’uomo primitivo era guidata dalla duttilità che gli permetteva di uccidere una preda come gli permetteva di imprimere una pressione variabile sui tamponi imbevuti di tinta colorata, cioè, in sostanza, dalla cultura dell’uomo cacciatore. Chi guida la mano di Van Gogh è la cultura impressionista. Come Gauguin, Van Gogh dipinge per necessità interiore; come Gauguin è un dilettante autodidatta; come Gauguin distorce l’immagine reale per esprimere quello che sente agitarsi dentro. Ma al contrario di Gauguin non associa alla sensazione della luce i materiali riposti nella memoria, bensì aderisce all’operazione creativa con tutto il suo essere, cioè reagisce alla vita con la sua vita. Van Gogh, alla stessa stregua di Cezanne, dei neo-impressionisti e di Gauguin, non considera più il quadro come un piano di proiezione, ma il piano dove si consuma lo scontro fra l’artista che vuole costruire l’immagine del mondo e il mondo che vuole distruggere la creatività dell’artista, la costruzione della realtà percettiva. Van Gogh in vita è non ha avuto molta fortuna; l’ha avuta dopo morto. Forse perché esprime, meglio di chiunque altro, la crisi esistenziale dell’artista nella società moderna, ma più in generale dell’uomo moderno di fronte alla perdita dei valori tradizionali. Van Gogh pone le basi per lo spostamento della ricerca strutturale artistica dalla percezione degli impressionisti all’azione degli espressionisti, recidendo definitivamente anche l’ultimo, sottile filo che teneva, nonostante tutto, ancora unite la manualità dell’arte con il fare artigiano conservata nell’impressionismo e nel simbolismo. Con lui la manualità dell’arte non esprime più la sapienza tecnica dell’esecutore, ma diventa espressione del bisogno stesso di esistere. La vita di Van Gogh, il periodo olandese, tra le brume del nord Europa. Van Gogh arriva a dicembre 1878 nel bacino carbonifero del Borinage in Belgio, dove si impegna come predicatore evangelico laico nella comunità dei minatori fino al 1880. L’artista faceva già dei disegni, ma è nell’estate di quell’anno che prende la decisione definitiva di diventare pittore. Il grande disegno elaborato a tecnica mista (la sua prima opera ambiziosa, emblematica della sua svolta dalla missione religiosa a quella dell’arte) Le portatrici del fardello, rappresenta in modo sinteticamente realistico un gruppo di donne che trasportano sacchi di carbone con le schiene piegate in un paesaggio desolato. Sono il simbolo della fatica e delle sofferenze che segnano la condizione di vita dei poveri e diseredati della società. Le vetrine dedicate ai riferimenti letterari ci raccontano di un Van Gogh profondo conoscitore della Bibbia, costante testo di studio e meditazione durante la sua missione da predicatore laico tra i minatori e anche dopo. Fondamentali per lui in questo periodo sono opere di scrittori contemporanei che affrontano grandi temi sociali, come Michelet che, con la sua monumentale Storia della Rivoluzione Francese, restituisce per la prima volta al popolo un ruolo attivo mettendolo al centro della dinamica rivoluzionaria, e Beecher Stowe con La capanna dello zio Tom, che denuncia la condizione degli schiavi in America. E poi anche Dickens, Hugo, e Shakespeare. Impressionante è il numero di libri letti da Van Gogh, che conosciamo perché continuamente citati e commentati nelle sue lettere al fratello Theo e agli amici. I temi che più lo coinvolgono sono: lo sguardo verso i poveri, i diseredati, le ingiustizie sociali; la semplicità, l’umiltà, la fatica dei lavoratori, la terra, la natura; l’indagine dell’animo umano. Di grande importanza per la sua formazione è Jean-François Millet, l’artista che, fin dall’inizio e per tutta la vita, ha influenzato maggiormente Van Gogh. Ed è per tale motivo che un focus specifico della mostra è dedicato a questo rapporto previlegiato. La lettura della biografia illustrata che Alfred Sensier dedica a Millet (pubblicata nel 1881) è per il pittore olandese una rivelazione. La visione profondamente religiosa della natura di Millet diventa il modello di riferimento a cui si ispira per la sua scelta definitiva di diventare artista. In mostra si possono vedere dei notevoli disegni di Van Gogh copie di opere di Millet tra cui il celebre Angelus, gli Zappatori (disegno messo a confronto con un’incisione del pittore francese) e Il Seminatore. Quest’ultimo è per Van Gogh una figura simbolo della sua missione di seminatore di verità attraverso l’arte, ed è per questo che diventerà protagonista di molte sue opere successive. Di Millet è presente in mostra il bellissimo dipinto La fine del villaggio di Gruchy (1856). Alla fine del 1881 Van Gogh si trasferisce da Etten (dove abitano i genitori) all’Aia, e per qualche tempo si esercita nello studio del pittore Mauve, suo parente, ma poi interrompe i rapporti. Nel gennaio 1882 inizia il suo legame con Clasina Maria Hoornik (detta Sien), una povera prostituta incinta e con un figlio, che intende sposare per salvarla dalla sua condizione. Il progetto provoca l’indignazione dei famigliari, e dopo un anno e mezzo di convivenza si separa da lei. Van Gogh raffigura Sien nel famoso disegno Donna sul letto di morte esposto in mostra. In questo periodo Vincent vorrebbe guadagnarsi da vivere diventando illustratore: colleziona quasi duemila illustrazioni che cataloga e studia giorno e notte, in particolare dal The Graphic, settimanale inglese illustrato. Nel luglio del 1882 Vincent scopre il padre del naturalismo francese Émile Zola, che diviene più che un preferito, leggerà leggerà “tutto” di lui. Rilegge tutta l’opera di Charles Dickens, lo scrittore che denuncia la povertà della Londra dei suoi giorni, e ne studia le illustrazioni. Dopo aver lasciato Sien nel settembre 1883, trascorre un periodo in solitudine nella regione della Drenthe e a dicembre ritorna dai genitori a Nuenen (dove il padre era stato trasferito). Qui, in due anni di intenso lavoro, disegna moltissimo e dipinge circa duecento quadri dai toni scuri e terrosi. Realizza delle nature morte come I nidi, i paesaggi, e una serie di studi di teste e ritratti di contadini. E realizza la sua prima grande composizione, I mangiatori di patate. A Nuenen Vincent studia in modo sistematico la Grammaire des arts du dessin di Charles Blanc, un testo fondamentale per la conoscenza degli effetti pittorici della legge del contrasto simultaneo dei colori complementari, già utilizzata da Delacroix e alla base della tecnica neoimpressionista di Seurat e compagni, che influenzerà anche Van Gogh a Parigi. Mentre il periodo parigino  che dura due anni, dal febbraio 1886 al febbraio 1888, segna una svolta fondamentale della sua ricerca. Grazie a Theo, direttore di una filiale delle Gallerie Goupil, entra in contatto con l’ambiente artistico più avanzato, quello degli impressionisti e neoimpressionisti. Nella sua pittura scompaiono le drammatiche tonalità scure e i temi sociali più pauperisti, e la sua tavolozza diventa cromaticamente più viva e luminosa con l’adozione di una tecnica impressionista e “pointilliste” elaborata in modo molto personale. Anche la mostra al Mudec si accende cromaticamente nell’allestimento, come a sottolineare l’enorme cambio di passo del periodo parigino. Grande è la curiosità di Vincent per tutti gli aspetti della cultura. In particolare, conosce a fondo la storia dell’arte anche delle ultime tendenze, attraverso manuali, monografie, riviste, stampe originali e riproduzioni e visite di musei e gallerie. Frequenta per breve tempo lo studio del pittore Fernand Cormon dove incontra Henri Toulouse-Lautrec e Émile Bernard che diventano suoi amici. Insieme a Bernard e Paul Signac va a dipingere paesaggi a Asnières. Per evidenziare il rapporto con la pittura neoimpressionista, in questa parte della mostra sono esposte, accanto ai quadri di Vincent, due vedute di Montmartre di Maximilien Luce, e un dipinto di Paul Signac. In omaggio ai romanzi parigini, i libri diventano anche soggetti dei suoi quadri. Nella luminosa Natura morta con statuetta e libri (1887) vediamo al centro Bel-Ami di Guy de Maupassant e Germinie Lacerteux dei fratelli Goncourt che considera dei capolavori perché raccontano “la vita così com’è”. Ad attirare magneticamente l’attenzione, fra i quadri parigini, spicca l’eccezionale Autoritratto (1887), uno dei più intensi in assoluto, dipinto con tonalità chiare e pennellate tratteggiate. In quel periodo Parigi era invasa dal fenomeno del Giapponismo, che non risparmiò di certo Van Gogh. Il termine “giapponismo” viene coniato nel 1872 dall’artista Philippe Burty, per definire il fenomeno di fascinazione per il Giappone che ha interessato gran parte degli artisti europei alla fine del XIX secolo. In particolare, a Parigi si sviluppò rapidamente, grazie alla partecipazione del Paese del Sol Levante alle Esposizioni Universali tenutesi nel 1867 e 1878, e alla presenza di negozi come La Porte Chinoise, di mercanti come Siegfried Bing, (specializzato in pezzi giapponesi e fondatore della rivista “Japon Artistique”) e di caffè alla moda come Le Divan Japonais e il Café Tamburin. La frequentazione di questi ambienti, assieme alle letture sulla cultura e l’arte giapponese, fecero nascere in Van Gogh un forte interesse per le stampe giapponesi, che saranno una fonte di ispirazione per la sua pittura e di cui diventa appassionato collezionista. È quindi nelle sale ‘parigine’ della mostra che si innesta il terzo fil rouge del progetto espositivo del Mudec, ovvero la passione per il Giappone. In mostra sono esposte una quindicina di stampe giapponesi, e xilografie originali di maestri come Hiroshige e Hokusai, provenienti dal Museo Chiossone di Genova, che conserva la più importante collezione di stampe ukiyoe in Italia. In questa sezione sono esposte quattro opere di Utagawa Hiroshige, Kastukawa Shunsen e Taki Katei, nonché il famoso volume illustrato Cento vedute del Monte Fuji di Hokusai, rappresentative delle tipologie più amate nel collezionismo delle stampe giapponesi, che circolavano a Parigi alla fine dell’800. Questi indiscussi capolavori della storia dell’arte giapponese furono materia di studio e di ispirazione per Van Gogh, oltre che oggetto del suo collezionismo, influenzando la sua produzione artistica degli anni seguenti. Dall’editoria parigina arrivano importanti volumi illustrati dedicati all’arte giapponese, su cui Van Gogh studiò. L’art japonais di Louis Gonse, storico dell’arte e collezionista, è il primo studio approfondito sull’arte giapponese pubblicato in Francia nel 1883 – opera di riferimento del periodo. Il volume presentato in mostra è l’edizione speciale ristampata nel 1886 in 50 copie per Sigfried Bing, il maggior mercante d’arte giapponese di Parigi, dove Vincent passava intere giornate alla ricerca di stampe da collezionare (ne acquisterà più di 600).  In seguito Van Gogh si trasferisce ad Arles nel 1888, alla ricerca della luce. Ad Arles affitta delle stanze nella “Casa Gialla”, dove sogna di fondare una comunità di artisti. Lontano da Parigi, a contatto con la natura la sua pittura ha un’evoluzione decisiva e si caratterizza per una straordinaria vitalità cromatica e luminosa. Dipinge paesaggi della campagna circostante (con alberi in fiore e campi di grano) delle marine a Saintes-Maries-dela-Mer, scene notturne di caffè, interni della sua stanza, nature morte come quelle famose con i girasoli, autoritratti e ritratti di personaggi del posto (i coniugi Ginoux, il postino Roulin, lo Zuavo, la Mousmé…). Il 23 ottobre del 1888 arriva ad Arles Paul Gauguin. I due pittori vivono e lavorano insieme, ma il sodalizio dura sono fino al 23 dicembre, quando dopo una lite Van Gogh si taglia un orecchio. L’artista si rimette dalla crisi e riprende a lavorare, ma l’8 maggio decide volontariamente di essere internato nell’ospedale psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole vicino Saint-Rémy. Come nel periodo parigino, anche nella sezione dedicata ad Arles ritorna il fil rouge del Giapponismo, che in questo ambiente Van Gogh declina in modo assolutamente atipico e con risultati insoliti; del resto, un suo famoso commento su Arles è “mi dico sempre che qui sono in Giappone”. La Provenza, con la sua natura incontaminata, il sole più forte, i colori più vividi, era per Van Gogh il ‘suo’ Giappone, equivalente di quel paradiso rurale che intravedeva nei paesaggi di Hokusai e Hiroshige. Ad Arles Van Gogh riceve da Theo i primi due numeri di Le Japon Artistique, nuova rivista mensile curata da Sigfried Bing che racconta vita e costumi, arte e artigianato giapponese, uscita a Parigi nel maggio del 1888. Le sue copertine diventeranno iconiche, e molte delle magnifiche tavole a colori sono fedeli riproduzioni di stampe ukiyoe. In mostra vengono presentati a confronto alcuni fogli tratti dalla rivista e stampe originali dei maestri giapponesi Hiroshige, Hokusai, Shunsen, che lo stesso Van Gogh commentava con ammirazione nelle lettere al fratello Theo. In mostra sono esposti paesaggi straordinari come Salici al tramonto (1888), Frutteto circondato da cipressi (1888), La vigna verde (1888), dalle quali è possibile intuire il nuovo approccio ai colori e alle forme che Van Gogh mette in pratica as Arles, e uno dei ritratti più famosi, quello di Joseph-Michel Ginoux (1888), il proprietario del Café de la Gare di Arles, amico dell’artista. Il dipinto viene qui presentato a confronto con due stampe giapponesi di Utagawa Kunisada e Toyoharu Kunichika. Sono ritratti di attori del teatro kabuki, tipologia che ha sicuramente influenzato la produzione di ritratti di Van Gogh, con i loro colori intensi e senza sfumature e le campiture solide, delineate da forti contorni neri. Nell’ospedale di Saint-Rémy Van Gogh ha a disposizione una stanza per dipingere. È colpito da frequenti crisi allucinatorie, ma nei periodi di relativa tranquillità dipinge con straordinaria intensità espressiva scorci del giardino dell’ospedale (come Tronchi d’albero con edera, Pini nel giardino dell’ospedale, Tronchi d’albero nel verde, Pini al tramonto); paesaggi di cipressi e uliveti nei dintorni (come Uliveti con due raccoglitori di olive); meravigliose scene notturne, e anche delle copie libere di opere di maestri amati come Delacroix, Rembrandt e Millet. Quando decide di entrare volontariamente nella clinica psichiatrica di Saint-Rémy, Vincent ritorna alle vecchie letture. Nei primi tempi non può uscire dalle mura dell’ospedale. Vuole rileggere tutto di Shakespeare, così chiede a Theo di inviargli l’opera completa nell’edizione di Dicks da uno scellino, presentata in quest’ultima sezione di mostra, nella vetrina dedicata ai libri. Nelle opere di Van Gogh di questo periodo si fa sempre più forte il riferimento visivo agli stilemi delle stampe giapponesi: non un confronto puntuale perché non si tratta dello stesso soggetto, ma un riflesso molto forte a modelli iconografici orientali, come ci ricorda il confronto fra Paesaggio con covoni e luna che sorge e la Luna Autunnale a Ishiyama di Hiroshige o Il burrone (Les Peyroulettes) e Sull’isola di Enoshima sempre di Hiroshige. Il dialogo tra l’opera Tronchi d’albero nell’erba e la stampa di Hokusai Il passo di Mishima nella provincia di Kai, tratta dalla famosa serie delle Trentasei vedute del Monte Fuji, ci conferma che per Van Gogh è ormai completamente interiorizzata la lezione giapponese, che egli ha fatto parte vibrante del suo linguaggio. La sua pittura incomincia a suscitare un certo interesse. All’inizio del 1890 espone al Salon Les XX di Bruxelles ed esce un articolo molto positivo su di lui scritto dal critico Albert Aurier. Nel maggio 1890 torna a Parigi dal fratello che ha avuto un figlio, e poi si trasferisce a Auverssur-Oise, dove il 27 luglio si spara un colpo di pistola, e muore due giorni dopo. Il percorso multimediale introduce il visitatore alle principali tappe della vita di van Gogh, trascorsa per lo più in Francia, contrassegnate da 8 sezioni: Arles, La camera di Arles, Auvers-sur-Oise, Nuenen, Parigi e Saint Remy, Ritratti e Autoritratti, ognuna associata ad un totem multimediale, con riproduzioni digitali dei dipinti di van Gogh. A completare questo percorso, l’allestimento prevede uno spazio immersivo in cui i visitatori potranno vivere l’emozione di sentirsi parte di un dipinto, ma anche in uno spazio virtuale, con 4 postazioni attrezzate con speciali visori tridimensionali, gli Oculus VR360 QHD, per “muoversi” nei colori e nelle pennellate caratteristiche del maestro olandese. Il secondo percorso della mostra, intitolato La stanza segreta, affianca alla serie di 12 litografie originali di van Gogh e alla celebre heliogravure L’homme à la pipe – Ritratto del dottor Gachet, una galleria di dipinti, disegni preparatori, opere grafiche e sculture di diversi artisti. Tra questi: Emile Bernard, estensore della prima catalogazione delle opere di van Gogh dopo la sua morte, su incarico del fratello Théo; Fernand Cormon, nel cui atelier parigino van Gogh scoprì quella libertà pittorica che sarà alla base di tutto il suo futuro lavoro; Anton Mauve, suo primo mentore; Paul Monticelli dal quale van Gogh mutuò la tecnica pittorica del tutto personale, densa di materia e di colore; Paul Gauguin con cui van Gogh condivise un burrascoso rapporto di amicizia, ed Henri de Toulouse-Lautrec, con il quale si instaurò, invece, un solido legame. La mostra, inoltre, approfondisce anche un altro aspetto della sensibilità di van Gogh, con la presenza, in particolare, di opere grafiche originali degli artisti giapponesi Hiroshige e Hokusai.Dell’arte giapponese, che arrivò in Francia dopo il 1860, van Gogh fu profondo estimatore e collezionista, come risulta evidente anche da molte delle sue opere in cui il Giappone è un costante riferimento. Completano la visita alla mostra rare fotografie d’epoca, documenti, libri, selezionati con l’intento di restituire al pubblico le atmosfere dell’epoca in cui van Gogh visse, con i suoi cambiamenti sociali, politici e artistici, e una riproduzione in scala reale della camera di Arles, nella “casa gialla” in Provenza, in cui van Gogh visse tra il 1888 e il 1889, in un periodo particolarmente intenso della sua vita, poco prima di suicidarsi.

Palazzo Dalla Rosa Prati di Parma

Van Gogh Multimedia e la stanza segreta

dal 27 Gennaio 2024 al 23 Giugno 2024

dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.30 alle ore 19.30

Sabato e Domenica dalle ore 9.30 alle ore 20.00